A me i numeri piacciono davvero tanto. Mi piace osservarli, studiarli e capire le relazioni tra loro.
I numeri raccontano sempre delle storie e, spesso, raccontano la storia che chi li ha scritti vuole raccontare.
Come tutti in questi giorni guardo le statistiche sulla diffusione del Coronavirus e tutti gli altri numeri che girano intorno a questa pandemia.
Qualcosa non mi torna.
In primo luogo mi sembra ben evidente che ogni paese al mondo ha un proprio metodo, non condiviso, per rappresentare il fenomeno. Se così non fosse non sarebbe comprensibile come la Germania abbia un numero di fatalità decisamente inferiore al nostro a parità di provvedimenti. Questo genera il problema che non sia possibile comparare le statistiche se non in maniera molto grossolana.
Ascolto la conferenza stampa della protezione civile ed i numeri che vengono enunciati e rifletto su quello che mi stanno dicendo.
X nuovi contagi, Y soggetti in terapia intensiva, W soggetti guariti e Z soggetti deceduti. Da questi numeri si generano tabelle con percentuali e via discorrendo.
Ascoltando le persone che parlano questi sembrano dati oggettivi ed assoluti. A me sembrano assolutamente parziali e, non dico poco significativi, ma che richiederebbero almeno di indicare in maniera precisa la metodologia di misurazione.
Prendiamo ad esempio i nuovi contagi. Si contano i nuovi contagi facendo il “sommone”, come diceva la mia professoressa di Analisi I all’università, di tutti coloro che sono stati sottoposti a tampone e successiva analisi e che sono risultati positivi. In pratica, credo e ditemi se sbaglio, tutti coloro che si sono rivolti ad una struttura ospedaliera. Non si contano quindi gli asintomatici di cui non si conosce, ovviamente, il numero.
Si tratta solo di metodo e di correttezza di informazione. Basta sapere come avviene la misura e quale è il campione e stiamo tutti più o meno tranquilli.
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Markus Spiske