In vacanza con Buzz

Mi capita di leggere oggi un pezzo di Guia Soncini che si intitola “All’armi siam specisti Considerare gli umani più importanti degli animali ormai è da eroi” e devo ammettere che mi trovo quasi totalmente d’accordo con ciò che scrive. L’articolo lo potete trovare qui.

L’unico paragrafo con il quale mi sento di sento di dissentire è il seguente:

Poiché la gente così priva di vita interiore da aver bisogno di mettersi un animale in casa è sempre di più, questa notazione è assai impopolare…

Non sto a dire per quale motivo io abbia deciso di avere un cane. In fondo sono affari miei e non sento affatto il bisogno di giustificarmi. Personalmente ritengo di avere un vita interiore decisamente molto ben proporzionata rispetto alla media che mi fermo spesso ad osservare. Debordante in alcune occasioni, oserei dire.

Quindi, in sostanza, possiedo un cane sebbene sia dotato di vita interiore.

Con il resto dello scritto sono d’accordo.

La Sig.ra Soncini è sempre molto tranchant nei suoi scritti e immagino che sia necessario affinché questi vengano pubblicati e, successivamente, letti ma ciò che scrive corrisponde a verità.

Faccio solo un paio di osservazioni frutto della mia recentissima vacanza con Buzz in Umbria e Abruzzo.

Per scelta ho deciso di fare seguire Buzz da una educatrice cinofila sin dal primo momento in cui ha varcato la soglia di casa. Questo non perché desiderassi che Buzz diventasse un animale da circo in grado di fare la zampa facendo un triplo salto mortale carpiato mentre acchiappa un frisbee in volo ma, piuttosto, perché volevo che imparasse da subito un sano modo di comportarsi in casa e di relazionarsi con le altre persone e con gli altri animali.

Per questo mi sento di dire che quando Buzz sta al ristorante, perché in qualche ristorante siamo andati, non ha mai nemmeno tentato di mettere le zampe sul tavolo, tantomeno sulla sedia o sulle ginocchia dei commensali. Non richiede mai cibo e si mette a dormire in attesa che il suo padrone, ovvero io, lo liberi da questa rottura di coglioni canina di livello 9 della scala Schiavone.

Buzz è un cane che non ha mai sporcato in casa e si limita a guardarmi per chiedere se il luogo in cui si trova è, secondo il mio giudizio, un luogo consentito dove rilasciare i frutti del suo metabolismo.

In sostanza potremmo dire che Buzz è un cane educato a vivere in una società civile.

Concordo pienamente sul fatto che non tutti i cani sono come Buzz e questa è decisamente una responsabilità del proprietario più che del cane.

A me avere intorno Buzz in vacanza ha fatto estremamente piacere e questo nonostante le sveglie alle 5.30, la necessità di avere a portata di mano tutto il suo armamentario e le limitazione che avere un cane comporta. Ad esempio non sono potuto entrare in un museo perché il canide non era ammesso. Me ne sono fatta una ragione.

Il tema è che avere un cane è una responsabilità e devi essere cosciente di quali queste limitazioni siano e devi decidere, ex ante, se sei disposto a quel genere di sacrifici. Oddio, sacrifici… non direi ma non mi veniva altro termine.

Io, personalmente, non ho imposto la presenza di Buzz a nessuno. In hotel, ben conscio del fatto che Buzz non poteva entrare nella sala del ristorante ho sempre pranzato e cenato all’aperto. A colazione abbiamo sempre scelto il terrazzo. Ho sempre scelto tavoli distanti dagli altri commensali ben sapendo che qualcuno potrebbe avere paura di un cane (anche se Buzz ha, come il sottoscritto, una naturale tendenza ad evitare gli estranei) o potrebbe non gradirne la presenza mentre si sta alimentando.

Per quanto riguarda la spiaggia mi sono informato in anticipo se ci fossero spiagge solo per cani e quando queste esistevano ci siamo andati. Quando non erano disponibili abbiamo rinunciato alla spiaggia e ci siamo dedicati ad altro.

Concludo dicendo che sono d’accordo sul fatto che stiamo parlando di animali, per quanto possiamo essere affezionati a loro. Questa deriva per cui “Il cane innanzitutto” mi ha un pochino rotto le palle. Ci deve essere una misura ed un giusto equilibrio altrimenti non funziona.

Basta entrare in un negozio di animali per comprendere a che livello di paranoia è arrivato il tema animali. Provate a scegliere un alimento per cani all’interno di uno questi negozi e ditemi se non ci mettete almeno un’ora e mezza prima di avere visionato tutte le decine di opzioni disponibili.

Ero scettico ma vi confesso che avere Buzz intorno è una meraviglia. Mentre scrivo queste righe in giardino è seduto ai miei piedi e non credo rinuncerei a nulla al mondo perché non fosse così.

Come sempre, si tratta di consapevolezza, equilibrio e buona educazione, nostra e del cane.


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Staccare la spina

black male plug in front of electric socket
Photo by Clint Patterson on Unsplash

In questo periodo di vacanze e, supposto, relax uno degli adagi che capita di ascoltare più spesso dalla nostra rete di contatti, specialmente lavorativa, è: “Ho bisogno di staccare la spina”.

Staccare la spina?

A me questa cosa lascia sempre piuttosto perplesso quando la sento ma, generalmente, evito commenti perché, alla mia età, non provo proprio nessun desiderio di dovermi trovare a giustificare i miei pensieri.

Ma staccare la spina da che cosa, esattamente?

Ora non voglio fare il Sergio Marchionne della situazione quando disse “Ma in ferie da cosa?” perché quel video mi ha sempre fatto un pochino ribrezzo. Aspettate, non venitemi contro lancia in resta sostenendo che la sua illuminata opinione era corretta e “come ti permetti di mettere in discussione uno dei più grandi capitani d’industria italiani?”.

Quello che intendo dire è che non aveva ragione in assoluto. Quella affermazione non era vera per tutti i dipendenti della FIAT del tempo. Si, è vero, FIAT perdeva 30 milioni di Euro al giorno in quei tempi (sto tentando di recuperare la cifra a memoria e quindi non ci metto la mano sul fuoco), ma cosa c’entra in tutto quello il povero Cipputi che menava la chiave inglese per otto ore al giorno? Quella affermazione era forse vera per i manager della azienda ma non per il resto della forza lavora che si faceva un mazzo tanto e di vacanze aveva pieno diritto.

Sto divagando, torniamo a bomba.

Non mi piace l’idea del dovere staccare la spina. Sopratutto in vacanza.

Quando io vado in vacanza non voglio staccare la spina, tutt’altro. La voglio attaccare perché di quei momenti così diversi dal mio quotidiano voglio vivere consapevolmente ogni singolo istante. Non voglio essere trasportato dal tempo senza viverlo e senza interagire intensamente con quello che mi circonda.

In questi giorni di vacanza Buzz si sveglia intorno alle sei del mattino e subito ha bisogno di essere portato fuori affinché non trasformi la mia camera d’albergo in una piscina al coperto. A me questa cosa piace perché mi lascia più tempo a disposizione. Apre una finestra su un tempo che posso usare, anche solo per guardarmi intorno e scambiare due parole con il portiere di notte dell’albergo.

In vacanza non stacco la spina. Chiedo, anzi, di cambiare la potenza del contatore perché voglio più corrente di quanto non abbia bisogno quando sono a casa in condizioni normali. Per questo quelli che mi vedono in vacanza faticano a comprendere perché mi trovo sempre in movimento. Non sempre movimento fisico ma, anche, intellettuale. Libri, articoli, scritture, chiacchiere. Questo è il momento in cui mi allontano dal mio quotidiano insieme di interessi e allargo la mia vista su altro.

Per questo non mi piace staccare la spina.


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Vodafone… morte civile

black smart watch with black strap
Photo by Simon Daoudi on Unsplash

Da quando ho lasciato H3G, come dipendente intendo, sono cliente Vodafone.

Vivo una relazione che può tranquillamente definirsi come di amore ed odio. Meno peggio di tanti altri operatori, peggio come la media degli operatori disponibili.

Da poche settimane ho messo in pensione il mio Fenix Garmin per ripassare ad un Apple Watch Series 6. La ragione è semplice. Garmin ha smesso di dare accesso ai suoi dati via API da parte di sviluppatori che non si sono piegati a pagare l’obolo a Garmin. Io quei dati li collezionavo e li usavo sulla mia istanza di Home Assistant e mi tornavano parecchio utili.

Io sono un fermo sostenitore del fatto che ogni azienda che offre un servizio digitale debba esporre delle API a chiunque ne voglia fare uso. Punto.

Quindi addio Garmin e benvenuto Apple Watch.

Non che fare la stessa cosa con Apple sia una passeggiata di salute. Devi fare qualche salto mortale, passare attraverso le forche caudine e sperare che le divinità ctonie delle API ti siano favorevoli. Detto questo, si può fare. Non certo alla portata della casalinga di Voghera ma si può fare.

Dopo qualche giorno mi decido ad attivare 1Number sul mio Apple Watch.

Tentativo numero uno:

Visto che dalla applicazione Watch sul mio iPhone si può attivare la eSIM del mio Apple Watch provo da lì. Vengo accolto da una bella paginetta di Vodafone che mi propone un bellissimo bottone “Inizia”. Premo il bottone come richiesto e mi viene chiesto di loggarmi al mio account Vodafone. Faccio il bravo esecutore ed inserisco le mie credenziali. Vengo rediretto su una bellissima pagiina bianca che non mi offre alcuna opzione. L’unica possibilità è quella di premere il bottone Annulla in alto a destra ed abbandonare l’operazione. Tentativo fallito.

Tentativo numero due:

Provo a fare l’operazione dal Fai da te sul sito vodafone.it. Nell’area Fai da te non sono riuscito a scovare dove hanno, molto diligentemente, nascosto il punto dove io posso attivare l’opzione 1Number. Giuro, lo ho navigato tutto ma non ho trovato nulla. Penso quindi che usando la funzione “Cerca” lo troverò sicuramente. No, non lo trovo ma, in compenso, trovo la pagina che descrive l’offerta e, fortunatamente, in quella pagine mi viene proposta l’opzione di attivarla. Ci provo ed il sito mi disconnette “Grazie per avere usato il Fai da te”. Non preoccupatevi, è stato un piacere. Tentativo fallito.

Tentativo numero tre:

La pagina dell’offerta recita che la posso attivare anche dalla applicazione MyVodafone. Provo anche questa strada e premo il magico bottone “Attiva”. Per qualche secondo lo schermo del mio smartphone si mette in attesa e poi mi viene detto che “Prodotto non presente a catalogo”. Tentativo fallito.

A questo punto ho speso venti minuti cercando di dare dei soldi a Vodafone ed è ben evidente che loro questi soldi non li vogliono.

Io non ho idea di chi sia il Product Manager di 1Number ma ho il sospetto che il suo Job Title dovrebbe essere cambiato in “1Number Business Prevention Manager”.

Cara Vodafone, io ero disposto a darti 60 Euro all’anno per avere questo servizio ma tu non li vuoi e quindi non vuoi nemmeno che il mio ARPU aumenti. Bel modo di fare business nel 2021. Quando poi leggerò che lascerai a casa delle persone perché non generi abbastanza ricavi mi ricorderò di quanto mi è successo oggi nel formulare il mio giudizio sul tuo management.

Quasi quasi comincio a valutare di cambiare operatore…


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Un vecchio accendino

Qualche settimana fa stavo camminando per il centro di Asiago quando mi sono imbattuto in negozio di antiquariato. Questo negozio aveva in vetrine degli oggi veramente iconici.

Un vecchio radiofonografo di Brionvega firmato Achille Castiglioni. Funzionante. Una Eames long chair con ottomana firmata Herman Miller ed altre cose di pregio assoluto.

Mi sono perso in quella meraviglia per interi quarti d’ora sino al momento in cui ho intravisto in una vetrinetta un oggetto che ha attirato la mia attenzione. Un accendino Dupont degli anni 50. Per chi ne sa qualcosa si trattava in un Dupont Ligne 1 chinese laquer mini. Una meraviglia anche se in condizioni molto vissute.

Come ho scritto in passato parlando di strumenti musicali mi piacciono le cose che hanno una vita addosso, che dimostrano il segno degli anni e che, nonostante tutto, riescono a mantenere l’eleganza e la classe di un tempo.

Nel preciso momento in cui lo ho tenuto tra le mani sapevo che lo avrei comprato.

Questa è una foto dell’accendino che ho scattato una volta tornato in albergo. Come potete vedere non era messo benissimo.

Ed infatti pochi minuti dopo uscivo dal negozio con l’accendino in tasca.

Ho subito pensato che mi sarebbe piaciuto restaurarlo e riportarlo agli antichi fasti, per quanto possibile.

La manutenzione degli accendini Dupont non è banalissima. Ci vogliono gli strumenti giusti per non rovinare i delicati meccanismi che li tengono insieme. Ad esempio riuscire a mantenere integro il famoso “Dupont ping sound” richiede attenzione quando si rimuove il pin che tiene insieme la parte superiore con quella inferiore.

Dupont non vende direttamente questi strumenti a privati ma online si trovano degli strumenti del tutto simili agli originali e sicuramente più abbordabili dal punto di vista del prezzo. Dopo qualche ricerca mi decido ad acquistare un set per il mio accendino da Win, un appassionato di accendini di Hong Kong che, in parte, li produce direttamente.

Piccolo siparietto. Chiedo una spedizione via DHL perché, come sempre, sono ansioso di cominciare. Win mi risponde che DHL gli ha chiesto 132 dollari perché, secondo l’omino DHL di Hong Kong, Laglio si trova in una zona considerata “remote area”. Non mi pare poi così remota, ma tant’è. Accetto quindi una spedizione via posta tradizionale.

Finalmente arrivano i miei strumenti e sfoderando quello che già possedevo per il restauro dei rasoi a mano libera comincio a disassemblare l’accendino.

Ecco il risultato della operazione. In questo caso parziale perché non avevo ancora disassemblato la parte inferiore.

A questo punto mi metto a pulire ed a lucidare ogni singolo pezzo e trascorro un sabato pomeriggio di grande divertimento e relax.

Alla fine ricompongo il tutto, inserisco una nuova pietrina e carico di combustibile l’accendino. Probabilmente erano anni che non veniva più utilizzato.

Al primo tentativo si accende! Una vera meraviglia!

Eccolo qui alla fine del lavoro.

Grande soddisfazione riportare un oggetto come questo ad un uso quotidiano.

Per coloro che fossero interessati questo è il negozio di Win.


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Un grande boh

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Photo by Aubree Herrick on Unsplash

L’articolo 1 della Costituzione della Repubblica Italiana recita: L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro.

A leggerlo così sembra davvero una figata pazzesca. Sono nato davvero in una nazione fortunata. E sarebbe davvero così se tutto quello che è scritto su quel foglio corrispondesse al paese reale. Purtroppo, diciamoci la verità, quel documento è un pò come il Codice della Strada che, più che un codice, sembra passare per un insieme di raccomandazioni.

Se lungo la strada che stai percorrendo vedi un cartello che ti dice di dare la precedenza devi osservare la norma e dare la precedenza. Oh, se poi stai andando a prendere tuo figlio all’asilo o hai un appuntamento per lo spritz con una gnocca stratosferica e non vuoi fare tardi fai un pò tu. Vai pure, al massimo verrai punito con una strombazzata e qualche vaffa che riceverai dai la precedenza l’aveva.

Più che altro l’Italia mi sembra una Repubblica fondata sulle contraddizioni.

Se voglio andare a mangiare uno spaghetto al ristorante di un albergo di cui sono ospite devo avere il Green Pass. Se alla stessa tavolata siede un ospite dell’albergo, lui, il Green Pass non lo deve avere. Eppure lo spaghetto, il tavolo e le sedie sono le stesse.

Il signore che governa la sala del ristorante deve verificare che io abbia un Green Pass valido, ma non verifica la mia identità. No, aspetta. La può verificare se gli vengono dei dubbi. Però non è un pubblico ufficiale e non può avere accesso ai miei documenti personali.

Questa questione dei dubbi mi fa molto sorridere. Immagino che un legittimo dubbio possa sorgere se io mi presento al ristorante con una barba e dei baffi degni di un Ussaro e sul certifica covid viene visualizzato che mi chiamo Elvira Scaccabarozzi. Sì, in quel caso il dubbio ti potrebbe venire.

E tutto questo correndo il rischio di venire tacciato di omofobia perché potrebbe arrivare una cliente in grande spolvero ed avere il nome all’anagrafe di Maciste Regonazzi. E lì come ti comporti?

Insomma, lo stiamo facendo male. Come sempre.

Che poi mi viene da dire: il mio compagno di tavolo, quello che è ospite dell’albergo, quando è sceso in albergo ha consegnato la sua bella carta di identità alla reception. E la cosa buffa è che mica si è fatto troppo menate. Ha consegnato ad un perfetto sconosciuto la sua carta identità, spesso accoppiata con la sua carta di credito. Come dire: “Vai e uccidi”.

In quel caso però, va tutto bene e non ci facciamo troppi problemi.

Oltre che essere fondata sulla contraddizione, la Repubblica Italiana, è anche basata sulla scarsa coerenza, come dimostra il caso di cui sopra.

Se poi, per andare a magiare quello spaghetto, sali sulla metropolitana ti ritrovi appiccicato a tutti gli altri passeggeri senza grande distanziamento sociale e senza Green Pass di sorta. Personalmente il distanziamento sociale in metropolitana è sempre stato, per me, un imperativo categorico. La scarsissima ortodossia igienica di alcuni frequentatori di quel mezzo di trasporto la impone se solo hai un olfatto prossimo alla media.

Però lì il Green Pass non ci vuole


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Green Pass fasulli

L’italica fantasia che si adopera per contravvenire ai provvedimenti legislativi si è nuovamente messa all’opera dal momento in cui il Green Pass si è rivelato necessario per andare a mangiare una spigola nella sala di un ristorante.

Leggo che la Polizia Postale ha sequestrato 32, dico, trentadue, canali di Telegram nei quali si faceva mercimonio di Green Pass fasulli.

L’articolo che ho letto riporta questo messaggio con il quale veniva spiegata la sostanza della transazione:

Ciao, con i dati che ci fornisci una dottoressa nostra collaboratrice compila un certificato vaccinale: così risulti realmente vaccinato per lo Stato, e avrai un falso green pass.

Il pagamento veniva richiesto in criptovalute o con buoni acquisto per gli acquisti in rete.

Ora, non credo che ci voglia un genio dell’informatica per comprendere che si tratta di una truffa.

La “dottoressa nostra collaboratrice” compila un certificato vaccinale. Già questo non suona verosimile. La dottoressa dovrebbe avere accesso ai sistemi che contengono le informazioni per poterlo fare e dubito che chiunque desideri mettere in gioco la propria carriera per qualche spicciolo.

Già questo basterebbe a farti desistere dall’idea.

Basterebbe poi chiedere al “cuggino” che ne capisce di computer se il certificato vaccinale falso sia una vera possibilità.

Ricordiamoci come funziona il processo:

Ecco, tuo “cuggino” ti direbbe che è improbabile, ma non impossibile, che quel QR Code possa essere accettato come valido.

Quello due chiavette nella immagine qui sopra sono il motivo per cui non è possibile generare un QR Code che possa superare i controlli. Il certificato digitale viene firmato con delle chiavi che sono custodite dal Ministero della Salute. Senza quelle chiavi non potrai mai firmare digitalmente un certificato e non potrai mai superare i controlli.

Perchè ho detto improbabile ma non impossibile? Semplicemente perché quelle chiavi da qualche parte stanno e non sappiamo a quali misure di sicurezza esse siano sottoposte. Se qualcuno rendesse pubbliche quelle chiavi crittografiche allora chiunque sarebbe in grado di produrre un Green Pass valido con una decina di righe di codice.

Vero è che esistono tutti gli strumenti fisici e digitali per proteggere quelle chiavi ma, pensando all’ultimo incidente nel Lazio, la possibilità esiste. A dire il vero, al di là di quanto accaduto nel Lazio, la possibilità esiste sempre.

Certo che dai 150 ai 500 Euro per un QR Code non è male.

La banda bassotti, di cui fanno parte due minorenni, è stata scoperta grazie al tracciamento delle transazioni in criptovaluta. La banda bassotti lo stava facendo male. Criptovaluta non è sinonimo di anonimità miei cari. Non che sia impossibile complicare la vita a chi sta cercando di tracciarti ma bisogna saperlo fare. Potevate chiedere 🙂

Concludo dicendo che ho visto su Apple Store una applicazione che visualizza il contenuto del QR Code del Green Pass in vendita per 1,39 Euro. Accidenti, allora il mio codice di qualche giorno fa vale 1,39 per ognuno di voi che lo ha letto ed utilizzato. Mi fate una ricarica?


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In ospedale

white room interior
Photo by Martha Dominguez de Gouveia on Unsplash

Nella giornata di ieri, ed in quella di oggi, sono stato costretto a frequentare l’ospedale Sant’Anna di Como.

Niente di che. Il mio figlio maschio adolescente preferito, di fatto l’unico figlio maschio adolescente, ha avuto un fastidio all’orecchio di cui abbiamo dovuto occuparci. Non sia mai che si trascorra una estate con i miei figli senza visitare una struttura ospedaliera.

Oramai è diventata una tradizione che siamo costretti, volenti o nolenti, a rispettare.

Quel genere di visite che tendono a rassicurare più i genitori del paziente che non il paziente stesso. Per dovere di cronaca vi dico che non ero io il genitore a dovere essere rassicurato.

Ci mettiamo quindi in macchina e facciamo l’oramai consueto “giro di Peppe” per uscire da Laglio che è ancora tramortita dai danni provocati dalle recenti piogge. Riuscire ad abbandonare l’enclave è una impresa. Più una rottura di palle che un impresa perché strade a doppio senso di marcia in realtà permettono ad un solo veicolo per volta di passare.

Per questa ragione sei costretto a manovre continue. Avanti e indietro, a destra e a sinistra. Dio benedica Mercedes e le telecamere a bordo del veicolo. Dio stramaledica, con tutto il dovuto rispetto, i turisti in camper che devono necessariamente andare a guardare il cancello della villa di George Clooney.

Arrivo quindi in ospedale. Sino ad oggi non ci ero mai stato e confesso di essere molto colpito dalla modernità della struttura. In tutta sincerità non me lo aspettavo.

Cerco il parcheggio e deposito la macchina.

Ci incamminiamo verso il pronto soccorso pediatrico attraversando una landa desolata. L’ospedale è molto grande e per raggiungere il punto che dobbiamo raggiungere sono necessari dieci minuti a piedi a passo lesto. Durante questo percorso non incontriamo proprio nessuno. Deserto.

Qualche infermiere e qualche medico che a passo deciso si muove tra un reparto e l’altro ma niente di più.

Ci viene misurata la temperatura e ci viene permesso di addentrarci dentro la struttura per raggiungere il triage del pronto soccorso pediatrico.

Percorriamo una quantità infinita di lunghi corridoi senza incontrare nessuno. Fortunatamente le indicazioni sono precise e puntuali. Segui la linea gialla e arriverai dove desideri. Penso tra me e me che qualche volta vorrei avere una linea gialla da seguire anche nella vita reale.

Arriviamo al triage dove, in attesa, c’è solo una mamma con una splendida bambina bionda che se la ride della grossa. Compiliamo le scartoffie del caso e ci mettiamo in attesa. Nella mia costruzione mi ero immaginato di perdere un pomeriggio in una sala d’attesa gremita di persone.

Al contrario dopo quindici minuti veniamo accolti da due dottoresse che si prendono cura dell’adolescente. Mi conforta il fatto che anche loro per fargli proferire parola devono usare strumenti di tortura degni della Santa Inquisizione. Oggi è domenica e lo specialista non c’è. Non vediamo nulla di preoccupante ma è meglio che torniate domani per vedere un otorinolaringoiatra.

Torniamo alla nostra macchina seguendo a ritroso il percorso che abbiamo fatto ed anche questa volta non incontriamo anima viva.

Torniamo il giorno dopo ed è Lunedì. Mi immaginavo più movimento ma, al contrario, la totale assenza di persone si ripete come il giorno prima.

L’adolescente non ha nulla di cui preoccuparsi, e lo potevo dire anche io senza tutto questo sbattimento.

Detto questo confesso che muoversi all’interno della struttura senza il consueto movimento di persone cui siamo abituati quando ci inoltriamo dentro un ospedale mi ha molto colpito. Il tutto aveva un che di inconsueto, surreale e, per certi versi, pauroso. Ti accorgi che qualcosa sta accadendo e che questo qualcosa è la causa della rarefazione delle frequentazioni ma non riesci a razionalizzare.

Ti ritrovi solo in questa struttura enorme con l’unico, grosso, vantaggio di essere certo di risparmiare un pò di tempo.


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E quindi Apple…

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Photo by Markus Winkler on Unsplash

… ha deciso che metterà il naso nella libreria delle foto dei propri utenti, per il momento statunitensi, alla ricerca di pornografia che coinvolge minori.

Diciamo che letta così suona anche abbastanza bene.

A dire il vero non mi convince proprio del tutto. Che oramai si sia consegnata gran parte della nostra esistenza digitale a colossi come Apple, Google, Amazon ed affini dovrebbe essere cosa nota a tutti.

Ora, da un lato Apple sembra avere intrapreso una crociata per la difesa della privacy dei propri utente e dall’altro dice senza mezzi termini che andrà a infilare il naso nella libreria delle foto dei suoi utenti, sebbene per un motivo sensato.

Tutti i dati sui nostri telefoni sono protetti, si suppone. Quello che abbiamo su iCloud è crittografato e solo Apple possiede, oltre a noi, le chiavi per decrittografarlo, se necessario. Su richiesta della autorità giudiziaria posso fornire accesso a dati che altrimenti sarebbero inaccessibili.

Io credo comunque che il telefono sia oggi una discreta rappresentazione della nostra vita reale. In esso ci sono una quantità di informazioni personali del tutto inimagginabile. Questo vale sia per l’informazione diretta che per l’informazione ombra.

Ora, io non ho mai scambiato fotografie del mio impianto idraulico personale con nessuno, e dubito che possa essere di interesse per chicchessia, ma mi domando per quale motivo Apple debba essere a conoscenza dell’essenza dei miei attributi.

E questo, ovviamente, apre una porta. Se è vero che oggi lo scopo è nobile chi ci dice che domani non verrà usato, chissà, per classificare le foto dei nostri animali domestici? Oppure altri oggetti o persone? Non abbiamo questa garanzia e solo Apple sarà a conoscenza dell’algoritmo che il classificatore utilizzerà. Falsi positivi? Possibile… se mano una foto di mio figlio di sei anni sul bagnasciuga, il ricevente verrà avvisato del fatto che sta per ricevere una foto potenzialmente pericolosa? Mi sembra uno scenario non del tutto improbabile.

Chi si ricorda di quel nonno che ha rischiato il linciaggio in un parco pubblico da parte di uno stuolo di mamme pancine che lo ha scambiato per un pedofilo quando stava aiutando il nipote a fare pipì?

Il passo è breve.

E, ad ogni modo, si comincia con le fotografie e si potrebbe poi passare alla scansione dei messaggi di testo, alla posta elettronica, ai documenti e via dicendo.

Se sono un procuratore della repubblica e mi occupo di questi reati, verrò tacciato di pedofilia sugli archivi di Apple?

No, non mi convince affatto.

Eppure, il tema è importante. Non ho una soluzione da proporre, ma quella di Apple non mi convince.


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hackthebox.eu (reprise)

Matrix movie still
Photo by Markus Spiske on Unsplash

Nei mesi passati avevo perso un pò di interesse per hackthebox.eu.

Mi ero dedicato ad altro nel mio tempo libero. Ieri ci ho rifatto un giro e in questi mesi hanno cambiato molto, tanto che mi è tornata voglia di rimettermi a giocarci.

In passato avevo usato un vecchio PC portatile Intel based con una distribuzione Kali per avere a disposizione tutti gli strumenti necessari. In verità era una scocciatura perché ogni volta che avevo intenzione di collegarmi dovevo cambiare il pc, abituarmi alla nuova tastiera e, alla fine, il più delle volte non avevo voglia di farlo.

Per questo ho cercato di capire quali alternative avevo sul mio MacBook Air con architettura M1.

Ho scoperto, e non lo sapevo, che esiste una distribuzione di Kali per architettura ARM. Ho quindi rispolverato la mia licenza di Parallels Desktop ed ho creato una macchina virtuale con 8Gb di RAM con quella distribuzione. In tre minuti il sistema era pronto.

Sono rimasto stupito dalla velocità della macchina virtuale e dal ridottissimo consumo della batteria. Sinceramente avevo pensato che la batteria sarebbe stata messa a dura prova. Niente di tutto questo.

La distribuzione di Kali per ARM non è affatto male e c’è quasi tutto quello che mi serve. In passato mi ero abituato ad utilizzare la Burp Suite ma devo capire come portarla su Kali ARM o trovare una alternativa altrettanto efficiente e semplice da utilizzare.

Alla fine deve essere un gioco e non una rottura di palle.

Per quello che devo fare funziona alla grande e la ho sempre a portata di mano quando voglio giocare un pò.

E così ieri sera mi sono messo alla ricerca di qualche macchina su Hack The Box che fosse semplice e che mi permettesse di riprendere un pò la mano.

Alla fine in un paio d’ore ho risolto due macchine ottenendo sia la user flag che la root flag. Per chi è curioso le macchine con cui ho giocato sono Knife e Cap. In realtà piuttosto semplici ma utili a riprendere confidenza con alcuni tool.

La cosa che mi piace è che scopro sempre qualcosa di nuovo sui sitemi quando faccio questo genere di cose.

Nonostante sia stato assente per quasi un anno noto che sono ancora in posizione 786 su 685.000 utenti registrati. Insomma, qualcosa me la ricordo ancora.

Hack The Box è un luogo perfetto se vuoi giocare con la sicurezza informatica senza correre il rischio di trovarti la Polizia Postale alla porta di casa. Ho anche notato che hanno rimosso il semplice indovinello per accedere alla registrazione. Era una cosa caruccia anche se alla fine era una semplice decodifica di una stringa Base64. Peccato.


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Tecnologia che mi manca

vintage gray game console and joystick
Photo by Lorenzo Herrera on Unsplash

Ieri stavo sistemando dei vecchissimi scatoloni che sono rimasti intatti dal trasloco di tre anni fa.

Per questa ragione mi sono capitate tra le mani cose, oramai antiche, di cui non mi ricordavo più. Questo mi ha fatto pensare ad alcuni oggetti, oramai sorpassati, ma che mi sono davvero piaciuti un casino nel momenti in cui li utilizzai.

Il primo è il Palm V. Ma vi ricordate che spettacolo di design e funzionalità? Questo credo che sia stato uno dei primi oggetti che potesse davvero essere considerato “palmare”. Io lo trovai eccezionale e lo usai fino alla sua totale consunzione.

Viene poi il Blackberry Bold 8900. Sinceramente trovo che sia stato uno dei migliori terminali di sempre. Se ne esistesse una versione 5g non esiterei a buttare il mio iPhone nel cestino per averlo. Era una bomba.

Il Motorola V60i. Pezzo da museo ma uno dei primi terminali a supportare J2ME. Nonostante la mia totale idiosincrasia verso Java ci scrissi sopra parecchio codice ai tempi in cui usci. Uno dei migliori “clamshell” di sempre.

Il MacBook 12″ con architettura PowerPC. Grande pezzo di hardware e una delle migliori tastiere che io abbia mai provato su un notebook. Ai tempi spesi un rene per averlo ma non ne fui mai deluso.

Mi piacerebbe davvero averli ancora in giro funzionanti.


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Lei non sa chi sono io!

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Photo by Kate Trysh on Unsplash

Coloro i quali hanno avuto modo di frequentarmi sanno benissimo quale è il mio modo di pormi nei confronti delle altre persone. Sono molto facile da approcciare e da raggiungere.

Questo vale sia nell’ambito personale che in quello professionale.

In genere mi infastidisce presentarmi con il mio job title quando mi viene chiesto che lavoro faccio. Sopratutto quando questa richiesta proviene da conoscenze al di fuori del mio ambito professionale.

Il mio approccio è sempre quello di dire qualcosa del genere: “Lavoro per uno studio di design”. Finita lì.

Sparare il mio job title, o la sua traduzione in Italiano, lo trovo perfettamente inutile e di poco stile.

Ci sono poi un’altra serie di ragioni per le quali lo faccio.

In primo luogo si toglie specificità al lavoro e lo si riporta alla mia scelta originale di muovermi in questo mercato ed industria. La stessa cosa mi piace comunicarla a chi incontro. Direi che fai il General Manager è molto diverso dal dire che ti occupi di design, sebbene da un punto di vista piuttosto particolare.

Quando sono in riunione voglio che quello che ho da dire venga ascoltato per il valore che ha e per il pensiero che lo ho generato e non perché il mio job title ti impone di ascoltarmi e, peggio mi sento, di darmi ragione.

Ultimamente tendo alla semplificazione, in ogni campo, è mantenere un profilo basso ha il grosso vantaggio di semplificare la comunicazione.

Infine, e cosa più importante, ricordiamoci che il mondo del lavoro è tutta una invenzione. I job title sono una invenzione. Quello che conta sono le persone, quello che pensano, la capacità di immaginare e la capacità di comunicare. Un job title è scevro da tutto questo. Arido come il deserto del Sahara.

Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus


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Trasformazione digitale… e dai…

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Photo by Johnson Wang on Unsplash

Leggevo ieri un articolo, e non ricordo dove, che sosteneva che secondo i manager italiani la trasformazione digitale sarà lo strumento principe per l’evoluzione delle loro aziende e dei loro mercati.

Quasi tutti sanno quanto sono allergico al termine “trasformazione digitale” se questo è privo di contenuto e viene usato solo per vendere la consulenza di turno dalla società di consulenza di turno.

Detto questo io sono convinto del fatto che il digitale è uno strumento di grande valore per le aziende che lo affrontano nella maniera giusta essendo in grado di distinguere il segnale dal rumore dal quale sono travolte.

Manca un pezzo.

Il pezzo che manca è l’utente finale.

Io sono convinto del fatto che il valore della trasformazione digitale si divide in maniera equa tra l’azienda ed il suo utente finale. E tra questi deve esservi un equilibrio di interessi e vantaggi.

Se pensiamo alla trasformazione digitale solo con la lente dell’azienda ci siamo persi un pezzo fondamentale e decisivo per il successo di qualsiasi iniziativa di questo genere.

Se mi dovessi trovare a sostenere il valore del design, quello vero, quello fatto bene, non esiterei a dire che il valore risiede nella costante ricerca di un equilibrio tra gli obiettivi di business dell’azienda e gli obiettivi personali dell’utente finale.


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Isolato!

Questa mattina mi sono svegliato con una pioggia battente che è durata tutta la notte.

La corrente elettrica che va e che viene e con quella la connessione ad internet che è più ballerina di Roberto Bolle.

In realtà avevo in programma di muovermi durante la mia pausa pranzo ma i miei programmi sono saltati per via di diverse frane a Laglio e dintorni che, praticamente, mi hanno completamente isolato e che certamente non suggeriscono che mettersi in macchina sia una buona idea.

Per fortuna la mia casa è piuttosto in alto rispetto al lago e non così tanto vicina alla montagna da dovere temere una frana. Mai dire mai, ma la situazione mi sembra abbastanza sicura.

Mi chiama l’amministratore di condominio e finisco per fare una ispezione, gratuita, di tutto l’immobile.

La fossa degli ascensori è diventata una piscina, piccola purtroppo. C’è acqua nelle cantine e sui pianerottoli anche se una breve pausa negli scrosci la lascia defluire.

In tutto questo l’unico che se la sta godendo un mondo è Buzz che scorrazza bagnato e felice sotto la pioggia correndo come un fulmine avanti e indietro.

Ho il sospetto che dovrei seguire il suggerimento di Buzz e mettermi a ballare anche io sotto la pioggia.

Bene. Quest’anno abbiamo avuto la pandemia, le frane e gli allagamenti. Credo che a questo punto manchino solo le locuste.

Abbiamo ancora sei mesi davanti per provvedere. Mi raccomando, non facciamoci mancare niente.


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Domenica mattina

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Photo by Eric Nopanen on Unsplash

Questa mattina Buzz mi ha svegliato all’alba. Ieri ha fatto il vaccino ed in linea teorica avrebbe dovuto soffrire di una qualche forma di sonnolenza mentre il suo organismo reagiva all’inoculazione. Niente di tutto questo. Alle cinque era sveglio come un grillo e decisamente desideroso di cominciare a giocare con il suo coinquilino, che poi sarei io.

Io trovo che la domenica mattina abbia un sapore, e talvolta un odore, del tutto particolare.

Sa di caffé appena fatto, di erba tagliata, di zucchero e di dolci.

E’ fatta di righe sui giornali, di quella lentezza che non nasconde nessuna urgenza. Il comparire in cucina secondo il proprio ritmo e non secondo quello dettato dalla tua agenda. E’ fatto di risate e chiacchiere con i tuoi figli. Un gioco con Buzz che può durare di più perché non devi entrare nella ennesima conference call.

E’ fatto di lacci tirati dal tuo cane, di stoviglie che si accumulano nell’acquaio ma che, un volta tanto, puoi, e vuoi, trascurare.

E’ fatta dei tuoi interessi che puoi coltivare senza interruzione ma può anche, e dovrebbe, essere fatta di niente. Quel dolce far niente di cui abbiamo perso l’abitudine con la continua ed incessante spinta a dovere necessariamente occupare il nostro tempo.

Sedersi sul divano e mettere il tuo disco preferito. Accarezzare il cane che si stende ai tuoi piedi. Socchiudere gli occhi e farsi trasportare dalle note in un altro mondo.

Ci sono delle domeniche che sono, quasi, perfette.


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Io mi sono vaccinato… perché me la meni?

Esco, distrutto, da una conversazione con un amico, stretto difensore del ‘non mi vaccino’ e mi stupisce essermi dovuto confrontare, nuovamente su questo tema.

Sinceramente ognuno ha la libertà di scegliere se vaccinarsi o meno. Non me la sento di sindacare la decisione del singolo così come nessuno ha il diritto di sindacare sulla mia.

Il mio, personalissimo e insindacabile, giudizio sulla mia scelta è il seguente:

  • Ho fatto una scelta razionale e basata sulle informazioni a mia disposizione. Questo significa che ho giudicato il rischio di venire contagiato e rischiare la pelle di molto superiore ai rischi connessi ad un eventuale effetto collaterale del vaccino. Il mio amico sosteneva che non ne conosciamo gli effetti nel lungo periodo. Amico mio, io ho cinquantaquattro anni. Se mi va bene mi rimangono una quindicina d’anni buoni da spendere. Il lungo periodo me lo so dimenticato da tempo. (Altra considerazione assolutamente razionale e realista).
  • Tendo a fidarmi della scienza e degli scienziati e sì, anche dei medici e dei virologi. Se non altro molto di più di quanto io non mi fidi dei complottisti o, con tutto il dovuto rispetto, dei no-vax.
  • Sulla mia scelta ha avuto un peso, non irrilevante, la considerazione che ho per il mio prossimo. E questo nonostante soffra pesantemente di misantropia. Se venissi contagiato in maniera asintomatica mi dispiacerebbe parecchio essere la causa della sofferenza di qualcun altro.
  • Infine confesso che a me i complotti stanno sulle palle. Sono cose impegnative e che in un mondo malamente connesso, in termini di privacy e capacità di utilizzo della tecnologia, ben difficilmente rimangono coperte. C’è chi non riesce a nascondere un amante, figuriamo un complotto mondiale. Dai, su.
  • Ultimo punto. E’ più di un anno e mezzo che convivo con un insieme di limitazioni. Oramai non credo di avere difficoltà ad affrontarne di altre. Vuoi il green pass? Io ce l’ho e vive benissimo sul mio smartphone con l’applicazione Immuni. Sì, l’avevo scaricata ed utilizzata.

Sarà perché il mio lavoro è prendere delle decisioni razionali, pur sempre ascoltando la mia pancia ma io sono convinto della mia scelta.

La mia testa e la mia pancia tendono, in questo caso, ad essere d’accordo.

Oh, poi fate un pò come vi pare. Ché, mi risulta, siamo ancora in democrazia e, parafrasando Leo Longanesi, qualsiasi democrazia, per quanto scalcagnata, è meglio di una tirannia.

Infine va detto che io non tento di convincerti a vaccinarti o non vaccinarti e quindi, perché me la meni?


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