Interessanti conversazioni

Negli scorsi giorni c’è stato un interessante scambio di tweet tra la senatrice statunitense Elizabeth Warren ed Amazon.

Lei comincia scrivendo questo:

Giant corporations like Amazon report huge profits to their shareholders – but they exploit loopholes and tax havens to pay close to nothing in taxes. That’s just not right – and it’s why I’ll be introducing a bill to make the most profitable companies pay a fair share.

https://twitter.com/SenWarren/status/1375189145476288513

Ed Amazon risponde così:

You make the tax laws @SenWarren; we just follow them. If you don’t like the laws you’ve created, by all means, change them. Here are the facts: Amazon has paid billions of dollars in corporate taxes over the past few years alone. In 2020, we had another $1.7B in federal tax expense and that’s on top of the $18 billion we generated in sales taxes for states and localities in the U.S. Congress designed tax laws to encourage investment in the economy. So what have we done about that? $350B in investments since 2010 & 400K new US jobs last year alone. And while you’re working on changing the tax code, can we please raise the federal minimum wage to $15?

https://twitter.com/SenWarren/status/1375189145476288513

Il che già rende la cosa interessante.

La senatrice però pare esagerare e risponde nuovamente:

I didn’t write the loopholes you exploit, @amazon – your armies of lawyers and lobbyists did. But you bet I’ll fight to make you pay your fair share. And fight your union-busting. And fight to break up Big Tech so you’re not powerful enough to heckle senators with snotty tweets.

https://twitter.com/SenWarren/status/1375283617341968385

Naturalmente questa risposta genera un putiferio ancora più grande perché gli americano tengono parecchio al Primo Emendamento e, sopratutto, un rappresentante del Senato non può minacciare un qualsiasi soggetto.

Interessante, sopratutto nella dinamica della conversazione e nel fatto che Amazon abbia deciso di rispondere.


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Manuale d’uso

brown game pieces on white surface
Photo by Markus Spiske on Unsplash

Recentemente mi sono imbattuto in un articolo interessante: Your leadership style needs a user manual — here’s how you do it

L’idea è quello che chiunque abbia un ruolo di responsabilità crei un manuale d’uso che spieghi quale sono i principi a cui si ispira la persona e quali sono le migliori modalità per interagire con lui.

Si tratta di una cosa che tutti fanno quando interagiscono con qualcuno. Ci si crea una sorta di manuale d’uso in maniera spontanea. Sappiamo cosa dire, cosa non dire. Come comportarci e come farci ascoltare. Certo è una cosa che si crea con il tempo e con un classico processo trial and error.

A me sembra una ottima idea.


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Google sa!

Ieri mi sono imbattuto in un interessante articolo in cui si parlava di uno strumento creato da Jon Packles, un designer e “creative technologist” che vive a New York.

Ora, divago un secondo, e dico che fare il Creative Technologist deve essere parecchio divertente.

Ma torniamo a noi.

Jon ha creato uno strumento che analizza le ricerche cha abbiamo fatto su Google e ci permette di esplorarle attraverso una interfaccia web based. A me pare una cosa bellissima, sopratutto perché rende evidente il nostro comportamento e la quantità di informazioni su di noi che rilasciamo quotidianamente.

Anche solo visitare la pagina di Goggle Takeout, la pagina che ci permette di esportare tutte le informazioni che Google possiede su di noi fa tremare le ginocchia.

Lo strumento creato da Jon lo potete trovare qui.

Secondo me quello che lui scrive è estremamente rilevante:

In this extremely online world, the moments of our lives are documented by default – when we check bus times or text a loved one or turn to the search bar to voice a concern we’re too embarassed to bring up with friends. The data we generate through everyday digital activity contains the most intimate details of our lives.

Yet, while these documents are about us, they are not for us. They take a form meant to be processed by machines, not read by people. Your tiny human brain may not be as efficient as these machines, but it can do other things.


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Bellezza

CAPTCHA
Photo by Markus Spiske on Unsplash

Ho sempre provato un piacere enorme nello scrivere codice. Quando ho iniziato il mio primo lavoro mi è sembrato di realizzare il sogno che avevo da bambino.

C’è questo piacere nel vedere funzionare le cose che hai prima immaginato nella tua testa e che poi puoi osservare sotto forma di codice. In un certo qual modo ho vissuto questo aspetto come un rifugio. Nel codice tutto è chiaro e se qualcosa non funziona ne conosci perfettamente la ragione. Hai tutti gli strumenti per capire ed hai tutto sotto controllo. Diverso era il discorso con le persone, ma questa è un’altra storia.

In questi giorni sto sfruttando parte del mio tempo, e parte del mio tempo libero, per scrivere un pochino di codice che serve a Sketchin per automatizzare un pochino di cose. Senza entrare troppo nel merito c’è una applicazione Slack che recupera informazioni da Salesforce, Harvest, Expensifiy, gMail e dall’insieme dei Google Sheets sui quali vivono le nostre stime di progetto.

Tutti i colloqui tra questi sistemi avvengono tramite le rispettive API e a contorno c’è uno scheduler che esegue sequenze di task tramite una macchina a stati finiti, una dashboard che permette di verificare lo stato dei vari sistemi, dello scheduler e dei task programmati ed altre cosette che fanno da collante tra i vari pezzi.

Tutto è scritto in Python con il supporto di qualche script bash. Per comodità di deployment ho deciso di usare docker per ospitare le varie applicazioni che sono isolate in container atomici.

A questo stato del progetto i vari pezzi cominciano ad integrarsi abbastanza bene tra di loro e, per il momento, ne sono abbastanza soddisfatto.

Ora che sono a questo punto accorcio i vari tempi dello scheduler per verificare la presenza di eventuali errori e mi metto ad osservare il log centralizzato che scorre sullo schermo.

Mi rendo conto che osservando quello stream continuo di informazioni mi perdo nei suoi contenuti. Ne sono affascinato. Vedo i vari sistemi che si parlano tra di loro, il database che si popola, il client di Slack che riceve i messaggi che deve ricevere e ne sono incantato.

So da dove proviene ogni singolo messaggio, so per quale motivo lo sto visualizzando, so per quale motivo ho deciso di visualizzarlo e ne conosco il contenuto.

In questo momento potrei abbassare il livello di logging ma non lo faccio perché per me è una bellezza. Potrei stare ore a guardare quelle righe scorrere.

Forse mi accontento di poco ma a me piace da impazzire.

Non credo di essermi mai divertito tanto come quando facevo questo per dodici ore al giorno. In qualche occasione mi manca, molto. Avevo molte meno responsabilità e tutto iniziava e finiva lì. Sì, mi manca. Molto


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Apple ed i suoi segreti

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Photo by Carles Rabada on Unsplash

Sin dai tempi, oramai remoti, del mio lavoro in H3g ricordo benissimo le imposizioni di Apple riguardo il lancio dei loro nuovi prodotti. E questo quando oramai i prodotti erano prossimi al lancio sul mercato e quindi meno sensibili all’aura di mistero che li avvolgeva.

Chi non ha mai frequentato un operatore di telefonia non credo sia a conoscenza della complessità che avvolge il lancio di un nuovo terminale sul mercato. Vero è che oramai non frequento quell’industria da una decina d’anni ma quando lo facevo, e la tecnologia radio 3g e 4g era relativamente nuova, ogni prodotto doveva essere testato sulla infrastruttura dell’operatore prima di finire nelle mani del consumatore.

H3G aveva un team che si occupava di tecnologia che era una vera bomba. Persone preparatissime e tecnicamente di una solidità assoluta. Noi li chiamavamo “gli scienziati” mentre credo che loro ci prendessero in giro dicendo che noi eravamo quelli che facevano dei bei disegnini.

Per questa ragione, ed essendomi occupato del lancio del primo iPhone per H3G, conoscevo molto bene i protocolli richiesti da Apple per il test nuovi prodotti. In quel periodo ho firmato così tanti NDA, ad personam per la cronaca, che non potevo nemmeno parlare con me stesso mentre mi facevo la barba al mattino.

Camere con accesso controllato, registrazione continua di quello che avveniva nella stanza, finestre oscurate, orologio sempre visibile, nessun ingresso di fotocamere o telefoni con fotocamere tanto per parlare di alcune misure. Ricordo che era un documento molto corposo.

Ora pare che Apple stia cercando di rendere la catena di produzione dei nuovi prodotti più sicura introducendo strumenti di controllo molto più severi di quanto non fossero già. Ricordando quello che accadeva allora non posso che immaginare che questo nuovo set di restrizioni sia qualcosa di veramente molto complesso e stringente. A pancia credo di potere dire che ai produttori delle varie parti e componenti non passerà una virgola. Forse solo ai più alti livelli della sicurezza nazionale si raggiunge quel livello di paranoia.

Apple ha sempre cercato di creare, e mantenere, questo alone di mistero rispetto ai nuovi prodotti. Diciamo che essendo una azienda che si avvicina molto ad una chiesa questo comportamento è perfettamente ragionevole. Fa parte del loro gioco.

Mi fa sorridere il fatto che questa notizia arriva da un documento che è uscito da Apple in maniera non ufficiale.

C’è del buffo in questa cosa.


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Microsoft, che strazio…

iphone screen with icons on screen
Photo by Dimitri Karastelev on Unsplash

Che io non abbia particolare simpatia per Microsoft Teams per Mac è risaputo. Ogni volta che lo uso il mio Mac assume la forma di una stufa elettrica. Questo è ancora sostenibile ora che è primavera ed un bel calduccio sulle gambe è anche piacevole ma con l’estate alle porte sta per diventare uno strazio.

Ma veniamo al tema di questo post.

Oramai da molti mesi Microsoft Teams ha deciso di non rendere più visibili le webcam virtuali. Quando è accaduto la prima volta ho pensato ad una cosa temporanea. Dopo più di sei mesi direi che non è più il caso di considerarla temporanea.

A me capita spesso di usare OBS e ManyCam in congiunzione con i vari strumenti di videoconferenza. Questo mi permette di gestire in maniera molto veloce presentazioni, documenti e video in diretta. Questo, ovviamente, oltre al mio metodo per nascondermi in quelle conference call che sono la morte civile.

Bene, ora non posso più farlo e devo necessariamente sottostare alla usabilità che Microsoft ha deciso.

Al di là delle mie idiosincrasie ci sono dei casi d’uso per cui una camera virtuale è l’unica soluzione. Immaginiamo ad esempio chi fa formazione da remoto usando diverse webcam e computer differenti. Senza una camera virtuale è impossibile.

La soluzione potrebbe essere utilizzare una versione meno recente di Microsoft Teams e, di fatto, questa cosa funzione. Funziona almeno sino al momento in cui Microsoft Teams decide di aggiornarsi “sua sponte” senza nemmeno chiedermi se lo voglio fare o meno.

Ecco, a me questa cosa sta veramente sulle palle. Perché devi decidere tu del modo in cui io utilizzo l’applicazione? Quale è il razionale? Quali sono i rischi che posso correre utilizzando una camera virtuale?

In tutta sincerità non riesco a capacitarmi di certe scelte. Io sono sempre convinto che l’interesse dell’utente finale dovrebbe essere al di sopra di qualsiasi cosa.


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Come scappare da Zoom

macbook pro displaying group of people
Photo by Chris Montgomery on Unsplash

In passato ho scritto come in qualche occasione riesco a sopravvivere a quelle conference call che ritengo essere inutili ma alle quali devo comunque partecipare.

Qualche giorno fa ho letto di Zoom Escaper che trovo una cosa geniale. In realtà mi ricorda da vicina una applicazione che esisteva per i telefoni Nokia con sistema operativo Symbian di cui ora non ricordo il nome. Questa applicazione permetteva di aggiungere dei suoni di sottofondo ad una conversazione telefonica. Potevi fare finta di essere in aeroporto od in un ufficio molto rumoroso.

Zoom Escaper fa più o meno la stessa cosa e permette di introdurre in una call Zoom dei suoni e dei rumori che autorizzano chi la usa a lasciare la conversazione anzitempo.

Sembra che la applicazione sia stata creata da uno sviluppatore ed artista di nome Sam Lavigne.

In realtà mi piace molto la sua osservazione quando parla di Zoom Escaper:

deliberate slowdown, reducing productivity and output, self-sabotage, etc.

Io credo che con una persona così potrei davvero andare molto d’accordo.


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On the internet…

white and orange KTM sports bike selective focus photography
Photo by Andrew Pons on Unsplash

“On the internet, nobody knows you’re a dog” – The New Yorker – July 5th, 1993

Quanti di voi si ricordano di questa storica vignetta apparsa per la prima volta nel 1993 su The New Yorker? Sosteneva una grande verità. Ognuno poteva assumere qualsiasi identità desiderava senza che gli altri potessero accorgersene.

Con tutte le considerazioni riguardo la privacy e la profilazione che viviamo oggi questo è ora piuttosto difficile. I grandi player sanno sempre e comunque che non sei un cane, ma il resto degli utenti no.

Per questa ragione mi ha fatto molto sorridere la notizia di questo utente di twitter:

Si tratta di una ragazza Giapponese, anche piuttosto caruccia, che posta delle immagini di lei in compagnia, spesso, della sua moto. Inutile dire che la signorina ha un discreto seguito, circa 27.000 follower. Del resto la combinazione è fatale: donne, carine, e motociclette.

Peccato si sia scoperto che il vero autore è un uomo cinquantenne che usa una applicazione per modificare il suo aspetto nel momento in cui scatta la fotografia. L’uomo si è tradito con una immagine che ha rivelato la sua identità per via di uno specchio che ha riflesso la sua vera immagine.

Ricordate: “On the internet, nobody knows you’re a dog” – The New Yorker – July 5th, 1993


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Peggio di così…

black and gray stethoscope
Photo by Hush Naidoo on Unsplash

Dopo qualche giorno di astinenza dalla lettura delle notizie sui giornali mi capitano sotto gli occhi i pezzi relativi alla gestione del piano vaccinale nella regione Lombardia.

Credo che sia ormai evidente a tutti che il fantomatico primato della sanità lombarda sia solo ed esclusivamente una bella storia che è stata raccontata per anni. Un distinguo è d’obbligo. Credo che quel primato esista all’interno delle strutture e nella capacità del personale medico e paramedico mentre è una bella storia per tutti coloro che quelle strutture le devono gestire ed organizzare.

Qualsiasi azienda privata avrebbe mandato a casa tutti i manager in tempo zero a fronte di risultati come quelli che stanno raggiungendo. Non ci sarebbero state scuse.

Ed invece…


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Microsoft Visual Studio Code, addio…

monitor showing C++
Photo by Dlanor S on Unsplash

In questi giorni sto scrivendo un po’ di codice per Sketchin per fare parlare tra loro diversi sistemi che fanno parte del nostro ecosistema di servizi. Lo scopo è quello di rendere la vita delle persone più facile mettendo a disposizione degli strumenti che permettano loro di ottenere informazioni chiave senza dovere saltare continuamente da un sistema all’altro senza soluzione di continuità.

Abbiamo sempre cercato di selezionare soluzioni SAAS che ci permettessero di avere accesso a delle API. Questo è stato il nostro mantra negli ultimi anni.

La lista dei sistemi è abbastanza lunga ma tra questi abbiamo Salesforce, Harvest, Expensify, Slack, Google Sheets e Gmail. Rimane, purtroppo fuori dal giro, Navision che è una porcheria di prima qualità ma che ci viene imposto dal gruppo. Navision ha delle API ma lo strumento è stato talmente personalizzato che le API di default non servono ad un tubazzo di niente. Questa, però, è un’altra storia.

Ho deciso di usare Python per scrivere l’insieme di questi strumenti e sino ad ora ho molto apprezzato la velocità con la quale posso scrivere codice senza dovermi occupare troppo dei dettagli del contorno. La vastità di librerie che ho a disposizione mi permette di concentrarmi su quello che le applicazioni devono fare piuttosto che sui dettagli.

Io, da sempre, sono stato un grande utilizzatore di vi. Credo che molti sottovalutino la potenza di questo strumento. E’ sufficiente farsi un giro su YouTube per realizzare come vi possa davvero diventare qualcosa di molto simile ad un IDE fatto e finito. In fondo io adoro la linea di comando di una shell. Lì mi sento davvero a mio agio.

Ad ogni modo per questa cosa ho deciso di utilizzare Microsoft Visual Studio Code come IDE di riferimento. Da poco è stata ufficialmente rilasciata la versione per la nuova architettura ARM di Apple e quindi può vivere a pieno titolo sul mio Macbook Air. Ne sono abbastanza soddisfatto nonostante qualche glitch qui e là. Ad esempio: per gestire il mio ambiente di sviluppo Python uso Conda e dopo la prima scrittura di getto di un pò di codice ho cominciato ad organizzare il progetto in moduli e package secondo necessità. Ecco, in questo caso la pletora di plugin che devono vivere in armonia comincia a scricchiolare. Per quanto abbia provato a risolvere il problema i moduli ed i package che vengono importati non vengono riconosciuti da PyLint. Questo mi infastidisce parecchio. Eppure il codice gira senza problemi e quindi i vari moduli vengono trovati senza problemi.

Nella giornata di ieri ho dato una occhiata al footprint di memoria di Microsoft Visual Studio Code e ho scoperto, con una certa sorpresa, che si prende più di un gigabyte di RAM per funzionare. Diciamo che mi sembra un pochino eccessivo. Vero è che sul mio Mac gira senza problemi e, di fatto, non vedo mai una hit sulla swap della macchina. Ad ogni modo un gigabyte di ram mi sembra una vera follia

Tanto per dare una idea, vi occupa meno di 5 megabyte per una sessione. Una leggerissima differenza.

Vero è che l’ambiente visuale velocizza un pochino le cose in termini di accesso e passaggio ad un file all’altro ma rimane il fatto che 1 gigabyte di RAM per un editor di testo mi sembra tanto.

Per questa ragione ho fatto un esperimento per una giornata intera.

Usare solo il terminale del mio Mac in congiunzione con tmux e vi. Se non avete mai usato tmux vi siete persi una perla rara. Io lo uso da sempre e oramai sono arrivato ad una sua configurazione che è un vero spettacolo.

Ho sviluppato quindi per un giorno intero usando questo paradigma e devo dire che non ho notato delle grandissime differenze in termini di produttività. Forse l’unica cosa che fa una qualche differenza è il debugger visuale di VS Code contro il classico pdb da linea di comando. Il problema in questo caso credo di essere io perché non conosco abbastanza bene pdb per essere veloce quanto vorrei. Ho usato per anni gdb quando sviluppavo in C ed era un fulmine di guerra. Devo quindi studiare un pochino.

Alla fine ho deciso che nei prossimi giorni userò questa combinazione per proseguire questo lavoro.

Avrei altre due ipotesi da verificare. Una è un mix tra terminale, tmux e TextMate che è un editor che ho sempre apprezzato molto in passato. Anche questa potrebbe essere una combinazione meno esosa in termini di memoria.

L’altra alternativa è PyCharm ma credo che si avvicini molto a VS Code in termini di requisiti di memoria. Il vantaggio qui è che ci sarebbero molto probabilmente meno menate di conflitti tra i vari plugin essendo una soluzione dedicata allo sviluppo in Python.

Magari nei prossimi giorni faccio una prova.

Per il momento credo che archivierò Microsoft Visual Studio Code. Una cosa bellissima di VS Code però è la possibilità di sincronizzare impostazioni e plugin in maniera automatica su tutte le macchine. Cosa che non mi dispiace affatto visto che durante il corso della giornata salto di continuo tra il mio Mac personale e quello dell’ufficio.


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Townscaper

Un’altra piccola perla che ho scoperto oggi e con la quale sto perdendo un sacco di tempo.

Si tratta di un gioco che si chiama Townscaper. Non aspettatevi effetti speciali mirabolanti, intelligenza artificiale o chissà quale dinamiche di gioco.

Forse non può nemmeno essere definito un gioco. Lo scopo, ammesso che di scopo si tratti, è quello di costruire una città in mezzo al mare. Nient’altro. E’ tutto qui.

Credo di averci speso almeno un paio d’ore semplicemente mettendo insieme case, città palazzi e strade.

Il gioco è disponibile su steam qui: Townscaper


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Ma chi si ricorda di phrack?

person using laptop computers
Photo by Jefferson Santos on Unsplash

Griovagando per la rete mi sono imbattuto in un sito che contiene una raccolta di tutte le hackzine più famose di tutti i tempi: hackzines

Ho riletto con grande divertimento le cose di B4B0, uninformed e simili. Sono sempre una lettura estremamente interessante e molte delle cose che si trovano lì sono ancora oggi del tutto valide.

Alla vigilia del cinquantaquarantaquattresimo genetliaco è un vero salto nel passato.

Ad ogni modo quella con cui nel tempo mi sono divertito di più è senza alcun dubbio quella edita da phrack.

Era un vero spettacolo e la sua qualità molto superiore a quella di molte delle altre. Il primo numero uscì nel 1985 e riuscire a metterci le mani a quel tempo non era cosa facile. L’ultima uscita risale al 2016 quando già da tempo le pubblicazioni erano diventate molto più frammentate.

L’organizzazione era sempre la stessa e l’elenco delle rubriche molto ben strutturato.

Una delle sezione che mi faceva morire dal ridere si chiamava Loopback. In questa rubrica venivano pubblicati i messaggi di posta elettronica di sedicenti hacker con le richieste più assurde. Quelli che scrivevano su phrack ci sapevano fare per davvero e le risposte che davano, e rendevano pubbliche, erano veramente esilaranti.

In un certo qual modo mostravano il classico atteggiamento dei più preparati nei riguardi dei newbies. C’era comunque da morire dal ridere.

Sono stati davvero dei bei tempi e delle fantastiche letture.


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Web browsers e connessioni persistenti

white and silver electronic device
Photo by Richy Great on Unsplash

Ho letto un interessante articolo che racconta come tutti i più diffusi browser web mantengono aperte le connessioni verso i siti di destinazione anche quando tutte le tab dei relativi siti sono chiusi.

Ho fatto una verifica veloce con Little Snitch e devo dire che almeno per Safari e Chrome questo risulta essere vero.

Ora, è fuor di dubbio che questo accade per un semplice motivo che riguarda le prestazioni. E’ molto più semplice e veloce riprendere una connessione TCP/IP già aperta invece di crearne una ex novo con tutto l’overhead relativo alla risoluzione del DNS, apertura della connessione ed eventuale handshake SSL.

Di fatto tutti i browser cercano il primato della velocità.

Molte scelte degli sviluppatori derivano proprio da questo razionale. Fare in modo che l’utente visualizzi il contenuto che gli interessa nel minor tempo possibile.

Rimane comunque il fatto che questi browser decidono di mantenere aperta una connessione verso uno o più siti web dopo che io ho deciso di interromperla. In un momento in cui la privacy diviene sempre più importante forse sarebbe il caso di rendere consapevoli gli utenti di questo genere di comportamenti. Sicuramente dovrebbe essere almeno una opzione che l’utente potrebbe volere, o meno, disabilitare.

Per fortuna, Brave, il browser che uso da qualche mese fa il suo bravo lavoro e chiude tutte le connessioni nel momento in cui lo decido io. Ancora una volta Brave è una scelta sana.


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In questi giorni…

person wearing orange and gray Nike shoes walking on gray concrete stairs
Photo by Bruno Nascimento on Unsplash

In questi giorni ho smesso completamente di correre. E’ stato un momento durante venerdì sera. Stavo facendo la mia corsetta quotidiana quando, senza un particolare motivo, mi sono fermato.

In quel preciso momento ho realizzato che non mi stavo divertendo granché con quella attività. Sono tornato a casa e mi sono fiondato sotto la doccia. Da quel giorno ho più messo mano alle mie scarpe da corsa. Non ne provo più il desiderio come prima.

Mi domando se sia un momento figlio di questa pandemia dove tutto si sta ripetendo uguale a se stesso giorno dopo giorno. Un pochino come il giorno della marmotta. Gli stessi posti, le stesse stanze, le stesse routine un giorno dopo l’altro.

Ho di fatto smesso di leggere le notizie relative alla pandemia. Da un lato non sono in grado di crearmi una opinione sensata sullo stato delle cose. Non so se nei mesi precedenti fosse più semplice ma recentemente lo trovo sempre più difficile. Non riesco più a comprendere l’intricato ecosistema delle limitazioni. Alla fine mi limito ad impormi delle limitazioni da solo per stare tranquillo.

Credo che per quanto una persona possa essere resistente a qualsiasi avversità, doversi trovare a combattere con qualcosa come questo per più di un anno non può che lasciare qualche traccia, prima o poi. Forse sta accadendo solo questo ed è necessario trovare nuovi spunti per questa nuova fase.

Ci sto provando e, credo, funzionerà. Ci sono cose su cui sto lavorando, altre che sto aspettando con ansia ed altre ancora che mi infondono calore e speranza.

E’ probabile che si sta preparando una nuova fase.

O, forse, più semplicemente, si sta avvicinando il mio compleanno e mi girano le palle.


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Tempo…

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Photo by Djim Loic on Unsplash

Negli ultimi sette giorni sto cercando di informarmi e di studiare un argomento che riguarda una cosa di cui presto dovrò occuparmi con una certa attenzione. Per questa ragione sto leggendo libri, guardando video e leggendo articoli nel tentativo di farmi una idea di quello che mi aspetta.

La prima cosa da sottolineare è che esiste una quantità di materiale enorme da cui attingere e su cui informarsi. Oramai sia che ti voglia imparare a suonare una campana tibetana che costruire un computer quantistico è molto facile trovare le informazioni necessarie.

La seconda cosa è che esiste ogni varietà di opinioni possibili ed immaginabili qualche che sia l’argomento su cui stai cercando di farti una idea. Questo rende ovviamente impossibile farti una idea se non quella del tipo “farò un pochino come cavolo mi pare”. Trial and error, perlopiù.

Il terzo punto mi fa andare in bestia, Più volte ho detto, e scritto, che la mia risorsa più preziosa è il tempo. Per questa ragione non sopporto quelli che fanno un video di dieci minuti per dire una sola cosa sensata in tre secondi al termine del video. Non sopporto chi scrive settecento paragrafi di aria fritta per scrivere una sola frase con un contenuto di rilievo. Non tollero che si scrivano duecento pagine scrivendo e riscrivendo sullo stesso tema e sullo stesso concetto.

Avete rotto le palle.


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