Oggi una amica ha postato il link a questo video nel nostro Slack.
In tutta sincerità non me lo ricordavo ma è stato un salto nel passato.
Un video pieno di bellissimi ricordi, di sorrisi e di aspettative. Una sorta di diario di viaggio che mi ha ricordato tante delle tappe fondamentali che abbiamo percorso in questi anni.
Ho rivisto tante facce che nel corso degli anni ci hanno affiancato lungo la strada per poi prendere strade diverse. Ricordo ognuna di loro con grandissimo affetto e poca piaggeria perché non ne abbiamo bisogno.
Molto è cambiato, molto cambierà. Quello che mi auguro è che si sia in grado di portare quel sorriso e quella voglia di cambiare sul volto di ogni persona in studio.
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Nel caso non ve ne foste accorti qui in giro c’è anche un podcast con il quale potrete intrattenervi.
Nella mia rubrica personale che si estende tra il telefono ed il cloud conto oggi circa 4500 contatti diversi. Immagino che molti di loro non siano più validi. Di altri mi domando per quale ragione si trovino nella mia rubrica perché di loro proprio non mi ricordo.
La colpa è della mia non più tenera età e quindi sono molto indulgente con me stesso riguardo questa dimenticanza. Li rimuovo senza troppi pensieri.
Ecco, oggi stavo facendo un pochino di pulizia e mentre scorrevo i contatti mi si è presentato sotto gli occhi il numero di persone che non ci sono più. Persone che, ovviamente, conoscevo. Alcune veramente molto bene.
Loro non li ho rimossi. Mi piace che stiano lì. Seduti nella mia rubrica a ricordarmi i momenti che abbiamo trascorso insieme che si ripresentano quando li sento nominare o quando, come oggi, la mia attenzione cade sul loro nome.
Ecco, loro, così, sono ancora un po’ con me.
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Sono oramai anni che uso un Kindle per le mie letture. Sinceramente mi ci trovo benissimo e non ho davvero grandissima nostalgia per i libri di carta. Mi manca un pochino il fatto di annotare a margine con la mia matita ma sopperisco molto bene con la presenza del mio taccuino che è sempre a portata di mano.
Negli ultimi due anni il mio Kindle di riferimento è stato un Kindle Oasis che trovo semplicemente fantastico per dimensioni, peso e leggibilità. Qualche dubbio sulla durata della batteria ma niente di che.
Generalmente leggo sempre qualche decina di pagine prima di addormentarmi. Diciamo che la lettura fa parte del mio rituale di chiusura della giornata. Per questa ragione mi capita spesso di lasciare il mio Kindle nel lato vuoto del letto in cui dormo.
Lo stesso è avvenuto qualche sera fa. Mi sono addormenta e quando mi sono risvegliato grazie alla solita delicatezza di Buzz che si avventa con le sue zampe sulla mia schiena mi sono rifatto il letto e sono sceso in cucina per bere un caffè e nutrire la belva.
Erano le sei e mezza del mattino.
Subito dopo abbiamo l’abitudine di giocare un pochino insieme. Diciamo per una mezz’ora buona. Quando abbiamo finito di giocare Buzz si stende vicino a me per precipitare in un altro sonno ed io mi metto a scorrere le notizie del giorno in attesa di cominciare la giornata lavorativa.
Capita spesso che Buzz si svegli e si vada a fare un giretto esplorativo per casa. Sale e scende per le scale ed entra in ogni stanza per verificare se c’è qualcosa di nuovo. In genere tutto questo dura qualche minuto e poi me lo ritrovo ai miei piedi a russare sonoramente.
L’altro ieri questo non è successo. Non me ne sono reso conto perché stavo leggendo ed evidentemente ero distratto. Oltretutto non ho sentito alcun rumore che potesse farmi nascere il sospetto che Buzz stesse combinando qualche disastro in casa.
In questi mesi ho capito che il silenzio è un indizio fondamentale riguardo il fatto che Buzz sta facendo qualcosa che non deve fare. Non so come ma quando si dedica ad attività distruttive è più silenzioso di un ninja. Di solito è irruente e rumorosissimo ed è difficile non capire quale stanza stia visitando. L’altro ieri, invece, silenzio assoluto.
Finalmente mi rendo conto che non è vicino a me e che non sto sentendo alcun rumore. Sono certo che sta succedendo qualcosa.
Comincio ad esplorare la casa e me lo ritrovo nella mia camera ben disteso sul mio letto, cosa assolutamente vietata, che sta bellamente masticando il mio Kindle Oasis e relativa cover. Sta facendo un lavoro certosino perché non ha risparmiato un solo centimetro quadrato del display. Evidentemente la consistenza dell’oggetto gli piace parecchio.
Oramai il danno è fatto ed un rimprovero è inutile. Lo faccio scendere dal letto e osservo tristemente quello che rimane del mio Kindle. Decisamente inutilizzabile.
Mestamente torno al mio PC deciso ad ordinarne uno nuovo da Amazon. Purtroppo non c’è disponibilità di un Kindle Oasis. Il modello con la data di disponibilità più vicina viene stimato in consegna per il 24 Ottobre, gli altri in una data compresa tra il 23 Settembre ed il 24 Dicembre.
Confesso che non mi era mai capitata una cosa del genere con Amazon, sopratutto con prodotti con il loro brand. A questo punto desisto e mi dico che userò il mio iPad come succedaneo sino a che non riuscirò a rimettere le mani su un Kindle vero e proprio.
Mi domando però per quale motivo questo stia accadendo. Mi vengono in mente solo due motivazioni. Potremmo essere prossimi al rilascio di un nuovo modello e per queste le scorte scarseggiano o si potrebbe essere vittime della scarsità di silicio di cui tutti si lamentano in questo periodo.
Fatto sta che io sono senza Kindle e mi rode. Ho però un cane.
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Ho letto che Sir Clive Sinclair è passato a miglior vita dopo una lunga malattia.
La notizia mi rattrista molto perché molto di quello che sono oggi lo devo, in parte a lui.
Il primo, vero, computer sul quale riuscii a mettere le mani dopo una lunga opera di logoramento dei nervi dei miei genitori fu lo ZX80. Un computer basato su processore Z80 cui Sir Sinclair aggiunse una X per battezzare la sua creatura intendendo con quella X l’uso di un ingrediente segreto, il suo genio, immagino.
1 Kb di RAM, 4Kb di ROM, nessuna memoria di massa e, ovviamente, la necessità di collegarlo ad un tradizionale schermo televisivo come monitor. Si usava un registratore a cassette per caricare ed archiviare i programmi che scrivevi e prima di riuscire a trovare uno con una sufficiente sensibilità dell’ingresso del microfono dovevi richiedere l’intercessione di una schiera di santi in paradiso.
Per programmarlo si usava una versione ridotta di un interprete BASIC modificato per essere contenuto in 4 Kb di ROM. Limitazioni pazzesche: gli interi avevano valori compresi tra -32768 e 32768, avevi solo ventisei variabili a disposizione ed un massimo di 9999 righe di codice.
Nonostante questo fu amore, grande, a prima vista. Da quel piccolo aggeggio nacque un amore che ancora oggi splende così come allora.
Rimasi a lungo fedele ai prodotti di Sir Sinclair passando dallo ZX80 allo ZX81, poi ad uno ZX Spectrum e arrivando al Sinclair QL. Dopo questi abbandonai i suoi prodotti perché da un lato non rilasciò più nulla di nuovo e dall’altro mi innamorai del linguaggio C e per questa ragione comprai, o meglio mi feci comprare, un Commodore Amiga.
Lo ZX80 fu pubblicizzato nel 1980 e non ricordo esattamente quando ne venni in possesso. E’ passato troppo tempo. Ricordo solo che fu una grande emozione per un ragazzino che sino a quel momento aveva solo ed esclusivamente letto di computer sulla rivista MC Microcomputer e che scriveva i suoi programmi con carta e penna cercando di simularne il comportamento con un debugger sempre fatto di carta e penna.
Credo che quell’approccio, totalmente empirico, mi abbia insegnato molto e quando finalmente potei mettere le mani su un computer vero, per quanto limitato, ebbi la possibilità di provare quello che avevo scritto nel mondo reale e con una certa facilità dato l’esercizio cartaceo.
Mi sarebbe piaciuto avere l’opportunità di stringere la mano a Sir Clive Sinclair ma non ne ebbi mai l’occasione.
Questa notizia mi rende triste. Penso che Sir Sinclair abbia dato un contributo fondamentale alla democratizzazione ed alla diffusione dell’informatica.
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Anni fa avevo un capo, donna di grande carattere e new-yorker fatta e finita, che io avevo definito “one liner” per il modo in cui gestiva la sua posta elettronica.
In tre anni di frequentazione ricordo si e no tre o quattro messaggi di posta elettronica che fossero più lunghi di una riga e comunque sempre e solo contenenti una singola frase.
Personalmente non la ho mai considerata una mancanza di tatto, scortesia o arroganza. Era semplicemente un modo estremamente efficace per gestire il suo tempo.
Io non sono ancora arrivato a quei livelli ma mi sto esercitando.
I messaggi di posta elettronica dal mio account di lavoro sono appunto messaggi di lavoro e credo che debbano essere precisi, puntuali e devono evitare di fare perdere tempo a chi li riceve.
Se mi scrivi perché hai bisogno di informazione o di aiuto io quello ti devo dare senza menare il cane per l’aia.
Ritengo che la capacità di sintesi sia un tratto fondamentale del management e del lavoro in senso più lato.
Ovviamente tutto questo non prescinde dalla cortesia, dal tatto e dall’uso corretto di grammatica e sintassi.
Non uso mai imperativi. Uso spesso il condizionale e questo mi aspetto dal mio interlocutore.
Alla fine la posta elettronica è una forma di scrittura come un’altra e bisogna imparare a governarla. Partendo dalla lista dei riceventi, passando per l’uso del “reply” o “reply to all”, arrivando alla chiosa finale.
Purtroppo devo riconoscere che molte persone non hanno nessuna idea di come quello strumento possa essere usato in maniera efficace. Ancora una volta, se ti chiedo “Che ore sono?” mi devi dire che “Sono le sedici e ventuno” e quindi, non mi devi spiegare come funziona l’orologio.
Oltre a questo la posta elettronica può essere uno strumento molto efficace. In questi mesi di lockdown ho visto troppe volte un buon messaggio di posta elettronica sostituito da una riunione online. E che due palle. Tempo sprecato per tutti.
Se poi proprio volete dare animo alla vostra anima di scrittori date vita ad una porcheria come questa che state leggendo. Con un aggeggio come questo potrete sfogarvi come vi pare.
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Durante questa pandemia credo di avere utilizzato qualsiasi strumento conosciuto dall’uomo per potere parlare attraverso un personal computer, una webcam ed un microfono.
GoTo Meeting, Google Hangouts, Zoom, Skype, Microsoft Teams per non parlare di tutti questi sistemi che mi hanno permesso di intervenire a conferenze online.
Forte della esperienza delle riunioni fatte in presenza e con l’esperienza guadagnata con questi strumenti posso affermare con assoluta certezza che la maggior parte delle riunioni, se non tutte, sono un grandissimo casino e causano perdite di tempo, e di denaro enorme.
Dovendo fare una disamina dell’approccio corretto ad una riunione sono pronto a sostenere che:
Le riunioni hanno un’ora di inizio ed un’ora di fine e questi devono scrupolosamente essere rispettati. Non vedo perché debbano essere concesse delle eccezioni. Se non sei in grado di rispettare un orario io mi faccio delle domande sulla tua capacità di organizzare la tua agenda. Ora, intendiamoci, un imprevisto può essere capitare ma vedo troppo spesso la tendenza a presentarsi dopo l’orario di inizio per poi sforare dopo l’orario di termine. Mia nonna, che era una signora di gran classe, mi diceva sempre che ad un appuntamento si arriva sempre cinque minuti prima dell’orario fissato e ci si lascia dieci minuti prima del termine. Io penso che lei avesse ragione.
Quando si conducono delle riunioni online evitiamo di passare i primi dieci minuti con “Mi sentite?”, “Mi vedete?”. Oramai la vostra macchina dovrebbe essere abituata a queste cose e non vedo perché non dovrebbe funzionare. Assicuratevi di avere la webcam accesa ed il microfono aperto e cominciamo subito a parlare di quello di cui dobbiamo parlare.
A ruota segue il tempo perso nel consueto giro di tavolo per dire chi è chi e cosa fa. Tra l’altro le prime persone che parlano cominciano a rosicchiare tempo alla riunione mentre gli altri si fanno bellamente gli affari loro o pensano a cosa dire quando sarà il loro turno. L’effetto su tutti è che si perde la concentrazione sull’obiettivo del meeting. La soluzione è che l’organizzatore del meeting scriva nelle note la lista dei partecipanti, la loro funzione ed il motivo per cui saranno presenti.
Sempre nelle note della riunione facciamo in modo che sia chiaro quale è l’obiettivo da raggiungere durante quel tempo e, sopratutto, chi deve contribuire con che cosa affinché quell’obiettivo possa essere raggiunto.
Cerchiamo di limitare la presenza delle persone a quelle strettamente necessarie a raggiungere l’obiettivo della riunione. Tutti coloro che, in qualche misura, sono coinvolti potranno essere informati a valle della riunione via posta elettronica, magari con una minuta della riunione.
Facciamo in modo che quello che viene discusso nella riunione venga opportunamente tracciato con una minuta. La mia memoria lascia molto a desiderare e poi, verba volant, scripta manent.
Cerchiamo di essere concisi e di arrivare al punto nel più breve tempo possibile. Se ti chiedo “Che ore sono?” non voglio sapere come funziona un orologio.
L’organizzatore della riunione è il suo signore e padrone. E’ lui che detta i tempi e mantiene tutti in riga durante l’incontro.
Infine prima di organizzare una riunione si dovrebbe davvero chiedersi se questa è necessaria o se esistono modi più veloci, ed asincroni, per risolvere la questione.
Io penso che se seguissimo tutti queste semplici regole riusciremmo a gestire il nostro tempo in maniera più efficace ed eviteremmo di romperci le scatole oltre la misura tollerabile.
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Nonostante il costante aumento delle inserzioni pubblicitarie tra un video e l’altro continuo ad essere un consumatore di video su YouTube. Finisco sempre per trovarci qualcosa che mi interessa. Qualche pezzo per chitarra che mi piacerebbe imparare a suonare, recensione di software sul quale sto facendo un pensiero di acquisto, nuovi strumenti di sicurezza e via dicendo.
Ora, io non so esattamente in che modo Google mi abbia profilato nel corso della nostra decennale relazione ma sono assolutamente convinto che si sia fatta una idea sbagliata di me.
Ho la sensazione che Google ritenga che io abbia assolutamente bisogno di entrate extra per potere condurre la mia vita.
Deve essere questo il motivo per cui continua a propormi, senza soluzione di continuità, dei video che mi promettono di farmi diventare ricco in men che non si dica. Sino a qualche tempo fa era LinkedIn ad avere questa opinione di me ma ora YouTube lo ha scalzato alla grande.
Ogni tanto mi fermo a guardarli questi video, sopratutto per fare spendere quattrini agli inserzionisti senza che ne possano guadagnare nulla. Non mi sento particolarmente in colpa. Se sei già ricco, mettere qualche migliaio di dollari nelle tasche di Google non dovrebbe crearti particolari problemi.
La cosa che mi stupisce è che la struttura dei video è sempre la stessa. E’ come se tutti facessero capo ad un unico format. Sempre quello.
Se dovessi riassumere le caratteristiche principali di questo video potrei dire che:
Le location scelte come sfondo sono sempre esotiche e sfavillanti. Certo, se prometti di farmi diventare ricco devi dimostrarmi che lo sei tu per primo. Per questo come sfondo devi scegliere Dubai, le Hawaii o le Seychelles. Non puoi certo farti riprendere nella cameretta della casa nella quale vivi ancora con i tuoi genitori.
Molto spesso nella narrazione compaiono delle macchine costosissime. Lamborghini, Ferrari, Maserati e chi più ne ha più ne metta. Non puoi certo farti immortalare con la Panda 4×4 che ti lasciato in eredità il nonno.
Sempre in tema di location esiste la variante acquatica. Il soggetto che tenta di intortarmi è placidamente immerso in una piscina alla stregua di un leone marino. Vale la stessa considerazione di cui sopra.
L’età media dei soggetti è, quasi sempre, al di sotto della trentina. In effetti questa cosa un pochino mi lascia l’amaro in bocca. Ho sprecato la mia gioventù quando avrei potuto diventare milionario. Diciamo che, sotto certi aspetti, questa cosa è anche vera.
Al polso dei protagonisti ci sono sempre orologi di rilievo. Rolex, Audermas Piguet, Movado. Roba seria. Qualcuno si spinge verso l’Apple watch, ma solo quando il contenuto di quello che stanno cercando di vendermi ha qualcosa a che fare con la tecnologia.
Ognuno di questi personaggi dice che il resto dell’offerta nel suo mercato è fuffa. Loro sono gli unici che hanno un sincero interesse a farti diventare ricco e che mai si permetterebbero di metterti le mani nel portafogli senza darti la garazia del successo.
Lo show off della propria ricchezza spesso continua con la narrazione della sostanza dei loro conti correnti (Guardi di Finanza, ve lo dicono loro…), grandezza degli uffici, numero di collaboratori, quantità di auto possedute, numero di clienti soddisfatti e via dicendo.
In genere la supponenza di queste persone è oltre la misura tollerabile. Se li avessi davanti a me li prenderei a schiaffi, virtuali ovviamente, dopo quattro secondi netti.
Lo zoccolo duro della narrazione è sempre lo stesso: Ti rendi conto che stai spendendo la tua vita con un lavoro che non ti piace e che non ti assicura un futuro di indipendenza economica? Se tu comprassi il mio corso/libro/webinar io ti potrei insegnare il modo per diventare ricco senza spendere una goccia di sudore.
Ecco, lo sforzo minimo necessario per diventare ricco è un altro tema ricorrente. Per diventare ricco non devi farti un mazzo tanto e ereditare i quattrini dalla tua famiglia. E’ sufficiente che tu ti siede davanti ad un computer e che tu prema tre quattro tasti e poi premere il tasto INVIO. Fatto questo ti siedi e aspetti che i quattrini comincino a fluire verso il tuo conto corrente come se stessero seguendo il pifferaio magico.
Stranamente, e fortunatamente, il genere femminile non viene usato come rappresentazione del successo. Niente mogli o fidanzate trofeo in questo video. Diciamo che, se non altro, non c’è questo sfoggio sessista (Anche se il resto del contesto è decisamente sessista)
Sessista perché nella presentazione dei loro casi di successo non ho mai visto una donna che fosse una. Sono tutti ragazzetti fotocopia del protagonista principale. E’ chiaro che se non sei figo non puoi diventare ricco. Essere brutti è una condizione che ti preclude qualsiasi successo finanziario, evidentemente.
Qualche volta mi viene la tentazione di registrarli per farne una sorta di bestiario post medievale a mio uso e consumo. Poi vince la pigrizia e mi trattengo.
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Da anni utilizzo 1Password per memorizzare le password dei sistemi cui devo accedere e per archiviare tutta una serie di dati che per me sono sensibili. Ad esempio su 1Password ci sono i codici di recupero di tutti quei siti su cui utilizzo 2FA, i dettagli delle mie carte di credito, le chiavi crittografiche di alcune applicazioni, i certificati SSL dei miei siti e via dicendo.
La ho sempre trovata una applicazione molto utile e molto ben fatta, sopratutto nella sua penultima versione.
Recentemente è stata rilasciata una nuova versione, la versione numero 8 che ha segnato il passaggio da una applicazione nativa ad una applicazione basata sul framework Electron.
In sostanza Electron permette agli sviluppatori di utilizzare una codebase simile e generare applicazioni che sono multi piattaforma. E’ un framework che va molto di moda ultimamente. Tanto per fare un esempio su Electron sono basate le applicazioni desktop di Microsoft Teams, WhatsApp, Twitch e tantissime altre.
Da un puro punto di vista tecnico la scelta non mi pare del tutto sbagliata. Usando lo stesso framework la vita degli sviluppatori si semplifica. Essendo basato su tecnologie che provengono dal web gli sviluppatori sono molto di più rispetto a quelli che sviluppano applicazioni native su Linux, Windows.e MacOS tanto per citare i tre sistemi operativi più diffusi.
Dopo il rilascio di questa nuova versione c’è stata una sorta di ribellione da parte degli utenti.
Vi dico come la penso, sopratutto in relazione ad una applicazione come 1Password.
La prima osservazione che faccio è che non è così vero che usando Electron mantengo una sola codebase. In parte è decisamente così ma 1Password utilizza alcune caratteristiche native dei sistemi operativi che necessariamente richiedono uno sviluppo dedicato che non può essere condiviso con altri sistemi operativi. Ad esempio su MacOS puoi sbloccare 1Password usando l’impronta digitale. E’ ben evidente che questo può funzionare solo su macchine Apple e non su altri sistemi operativi.
Come conseguenza dovrai comunque avere a disposizioni degli sviluppatori che conoscono profondamente il sistema operativo di destinazione.
E’ oramai circa un mese che uso la nuova versione e dal punto di vista dell’utilizzo non ho trovato particolari differenze che mi facciano rimpiangere la versione nativa.
C’è solo un punto che non è un problema ma più una sensazione.
Psicologicamente da una applicazione nativa mi aspetto una interazione ed un feeling che sia quello del sistema operativo per cui è stata sviluppata. Potremmo dire che quando quello è il caso mi sembra di essere a casa. Con Electron non ho questo feeling e, piuttosto, mi sembra di essere una pagina web incastrata in una finestra del sistema operativo. Nota margine: tecnicamente è proprio così anche se detta in questo modo è una semplificazione.
Se penso alla destinazione d’uso di una applicazione come 1Password io credo che non dare all’utente la sensazione di “essere a casa” è una perdita. Mi sembra ben evidente che l’applicazione è sicura tanto quanto lo erano le versioni native ma la mia sensazione di utente non è proprio la stessa.
Ad ogni modo non è per una spinta sufficiente ad abbandonare l’applicazione. In fondo ci si sono accumulati negli anni quasi 1.500 credenziali di accesso e portarli altrove sarebbe una rottura di scatole di cui non ho bisogno in questo momento.
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Diciamo la verità: quanti di noi leggono davvero, e fino in fondo, il documento “Termini e Condizioni” di tutti i servizi che usiamo sul nostro personal computer o sul nostro smartphone?
Se faccio un rapido conto posso dire di avere una trentina di applicazioni installate sul mio telefono e più o meno un centinaio sul mio personal computer. Al giorno d’oggi, giustamente, la lunghezza di un documento di quel tipo è mediamente compresa tra le 15 e le 30 pagine.
Questo significa che per essere tranquillo mi sarei dovuto leggere qualcosa come 3300 pagine di documenti per essere sicuro di cosa posso fare, o non fare, di quali sono i miei diritti, quali i miei doveri e capire come vengono maneggiati i dati dalla applicazione.
Se siete arrivati fino in fondo andate sulla home page web di WhatsApp. Scorretela e troverete questo:
Come fa osservare ProPublica nel documento di Termini e Condizioni viene scritto questo:
E’ chiaro che le due cose non sembrano parlarsi molto tra di loro.
Da quello che si capisce dal report di ProPublica WhatsApp ha a disposizione uno strumento di Intelligenza Artificiale che si occupa della scansione dei messaggi e dei metadati degli utenti ed in parallelo un team di persone che si occupano di analizzare le segnalazioni ricevute da un lato dallo strumento di cui sopra e dall’altro delle segnalazioni ricevute dagli utenti.
A questo punto sembra che in entrambi i casi il povero cristiano che è costretto per otto ore al giorno a leggere le fesserie degli utenti riceve gli ultimi cinque messaggi della chat incriminata per poi prendere una decisione sul da farsi.
E’ ben evidente che non tutto il male viene per nuocere. Se due delinquenti, per essere gentili, si scambiano online fotografia di pornografia infantile sono ben felice che il signor Zuckerberg gli mandi a casa una squadra SWAT armata di tutto punto e pronta a fare fuoco ma il tema rimane comunque delicato.
Potremmo quindi dire che nel caso di un crimine il tema della privacy decade a favore del bene comune. Questa la compro e mi sembra ragionevole.
Rimangono due elementi da considerare: la fallibilità dell’algoritmo di IA e la segnalazione da parte degli utenti.
Partiamo con il primo caso. Diciamo che sono una mamma che ha appena partorito l’erede così tanto atteso. Ho portato a casa l’infante e sto tempestando l’universo creato con le immagini del pupo. Diciamo anche che sto organizzando una festicciola a casa mia e lo scrivo ai nonni. Subito dopo avere mandato quel messaggio il pupo deve fare il bagnetto e tutti sappiamo che il bagno si fa senza vestiti. Colta da pulsione irrefrenabile mando ai nonni la foto del bagnetto del bimbo. L’algoritmo pensa che tu possa essere un pedofilo e segnala. L’omino che deve controllare il post si rende conto che si tratta invece di una cosa innocente e non procede a nessuna azione. Peccato che questo omino abbia avuto accesso ai cinque messaggi precedenti e che ora conosca l’indirizzo di casa della mamma.
Non mi sembra una cosa del tutto trascurabile.
Il secondo caso potrebbe portare a situazioni del tutto simili al primo.
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Sostanzialmente alcuni auricolari Bluetooth non implementano quella che viene chiamata MAC Address Randomization. Ogni oggetto che colleghiamo al nostre cellulare via Bluetooth ha una sorta di firma che lo identifica in maniera univoca, il MAC Address, appunto.
Ogni oggetto Bluetooth genera traffico radio per potere funzionare ed in ogni messaggio che viene scambiato è contenuta la firma che lo identifica.
Questi messaggi possono essere intercettati da chiunque spendendo pochi dollari o addirittura usando il chip Bluetooth a bordo di qualsiasi personal computer.
E’ abbastanza chiaro che il possesso di un oggetto è generalmente legato ad una persona, sopratutto per quanto riguarda gli auricolari. E’ molto difficile che io presti i miei auricolari a qualcun altro.
Esiste quindi un potenziale problema di tracciamento e di privacy.
Lo standard esiste e potrebbe essere implementato per evitare che questo sia possibile. E’ chiaro che quando si compete in un mercato superaffollato e molto competitivo sul punto prezzo si può essere tentati di lasciare indietro qualche feature che la maggior parte degli utenti nemmeno conoscono.
Se poi pensiamo a quanti oggetti possono oramai essere collegati al nostro smartphone credo che si possa pensare a questo come un potenziale problema di privacy. In questo momento al mio telefono cellulare sono colelgati i miei AirPods ed il mio Apple Watch. Tre oggetti che credo siano sufficienti ad identificarmi ed a tracciarmi se essi non implementassero la feature di cui sopra.
Il punto qui è che la privacy non insiste solo sul proprio personal computer e smartphone. E’ un concetto molto più ampio che riguarda tutta la tecnologia di cui ci circondiamo e che, spesso, confina in universi che con la tecnologia nulla hanno a che fare.
Gli oggetti connessi sono una figata, ed io ne sono sempre circodato. Questi oggetti parlano di continuo, ed ascoltarli non è poi una cosa così difficile. E’ vero che questi dialoghi sono (quasi) sempre inintellegibili perché protetti da crittografia ma spesso già sapere che due oggetti sono vicini e che stanno parlando tra di loro è una informazione sufficiente ad invadere la nostra privacy.
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Quando uscì la tastiera Roli Seaboard ne acquistai subito una. Da un lato mi piaceva l’idea e l’innovazione e dall’altro era un momento in cui ero impallinato con lo standard MIDI ed in particolare con MPE, MIDI Polyphonic Extension.
Insieme agli altri componenti della famiglia lo ho sempre trovato un prodotto eccezionale ed il sintetizzatore che veniva insieme al prodotto era veramente tanta roba. Si chiamava Equator ed era semplice e veloce da utilizzare e con una quantità e qualità che valevano tutto il prezzo.
Ho letto ieri che Roli è entrata in amministrazione dati problemi finanziari in cui sta incorrendo.
Ho sempre sospettato che il prodotto fosse un pochino troppo di nicchia per avere il successo che i fondatori probabilmente si aspettavano. La conferma arriva da una intervista a Roland Lamb, CEO di Roli che dice esattamente questo. Prodotto che non aveva sufficiente customer base per poter sopravvivere.
Vero è che Lamb cita anche le difficoltà legate a questo periodo di pandemia ma questo mi convince meno.
E’ un vero peccato perché la qualità dei loro prodotti era semplicemente eccezionale. Purtroppo il punto prezzo era veramente alto. Competere con tastiere che costano poche decine di dollari proponendo un prodotto nell’intorno dei 250 dollari non è banale.
Mi domando quale tipo di ricerca sia stata fatta prima di lanciarsi in questa iniziativa. Problema comune a molte startup, sopratutto nell’universo dello sviluppo del prodotto.
E’ molto probabile che si siano talmente innamorati della loro idea da non rendersi conto dell’effettiva richiesta del mercato.
Io rimasi assolutamente impressionato dalla performance di Jordan Rudess, storico tastierista dei Dream Theater, che provò una Roli Seabord 49.
Il video è questo:
Il problema di ROLI è stato proprio quello. Di Jordan Rudess ce ne è uno solo.
Vorrà direi che la tastiera entrerà nella mia grande collezione di hardware che è scomparso dal mercato.
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Qualcuno mi ha detto che potrei tirarci fuori qualche soldino, e proprio di lirette si parlerebbe in questo caso ché i lettori si contano sulle dita della mano.
La realtà è che la cosa richiederebbe un impegno che non sono disposto a spendere. Giù con il podcast sono rimasto indietro rispetto alle mie intenzioni sopraffatto da una serie di impegni, non ultimo il cane, che mi hanno impedito di mettermi davanti al microfono.
E poi perchè?
Praticamente in questo luogo contraddico tutto quello che vado raccontando ai miei clienti quando parlo di fregnacce digitali.
I miei articoli non hanno praticamente SEO. Quella è un’arte e non ho intenzione di impararla.
Non faccio promozione alcuna se non implicitamente per le cose che personalmente ho usato, mi piacciono e di cui scrivo.
Personal branding? Non penso di averne bisogno. Non tanto perché sia già ben posizionato ma che perché non ne sento l’urgenza ed il mio ego è già sufficientemente soddisfatto così.
Scrivo in Italiano perché è la lingua che amo e questo tagli fuori il 90% di chi quelle lirette sarebbe disposto a darmele.
Scrivere per essere invitato a conferenze, eventi, party privati e feste di compleanno? Ma per carità. Già vengo invitato troppo spesso data la mia misantropia in regolare e costante crescita
Sto conducendo un esperimento con gli NFT ma giusto per cultura che per temi di monetizzazione vera e propria. Di questo, credo, parlerò nei prossimi giorni.
Faccio cross posting su Twitter, LinkedIn, Medium e Facebook ma non monetizzo nemmeno là. Ognuna di queste piattaforme richiede altro impegno che, ancora una volta, non sono disposto a spendere. Facciamo il caso di Medium. Se volessi essere pagato per quello che scrivo dovrei pubblicare gli articoli al di fuori di WordPress e quindi spendere del tempo per farlo. No, non fa per me.
Ed infine, monetizzare cosa? Queste parole sono una accozzaglia di argomenti diversi e, spesso, volontariamente, totalmente disgiunti. Mia madre avrebbe detto senza capo nè coda. Questo semplicemente perché scrivo quello che mi passa per la testa quando ho cinque minuti liberi. Non c’è un fil rouge, una linea editoriale, un campo di interesse. Sarebbe contrario al principio con il quale ho cominciato questo esperimento e non servirebbe affatto i miei scopi.
Ricordo un commento di qualche giorno fa in cui parlavo di caffé e degli strumenti che io uso. Il commento sosteneva che il post in questione era simile a quello di un blog di altri tempi. Quei tempi in cui non esistevano gli influencer e le promozioni, non c’era AdSense e comagnia cantante. Quei tempi in cui scrivevi semplicemente la tua opinione e la lanciavi in rete come un sasso in un lago.
La ragione per cui Corrente Debole non è monetizzato è proprio questa. Da un lato il costo che devo sostenere per mantenere in piedi questa baracca è marginale ed, ancora, me lo posso permettere. Dall’altro non desidero che ci sia nulla che faccia sospettare che quello che scrivo è influenzato da interessi economici.
In realtà quello che scrivo è ovviamente influenzato. E’ infuenzato dalla mia sensibilità, dalla mia cultura, dal contesto in cui vivo e dalle mie convinzioni personali. Questa è la sostanza di queste righe. Può piacere o non piacere ma non c’è dentro null’altro che questo.
Come ho detto in passato questa baracca è un esperimento. Un esperimento che serve più a me che a voi. Se poi ci trovate qualcosa di utile, meglio così.
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Sono sempre stato affascinato dai numeri e dalle storie che i numeri raccontano.
Storie, appunto.
In questi mesi mi capita di leggere molti interventi, più o meno informati, sulle statistiche che riguardano la pandemia e la campagna vaccinale. Molte di queste si basano sulla lettura di numeri che sono a disposizione di chiunque sia in grado di maneggiarli.
“Maneggiare con cura”. Avvertimento apposto sulle preziose scatole che ci vengono consegnate a casa ma che si applica nello stesso preciso modo ai numeri. Qualsiasi numero.
In effetti i numeri raccontano una storia e, per grande fortuna, non esiste una sola storia.
Marc Bloch in “Apologia della storia” sosteneva che non esiste la storia, ma solo una interpretazione della storio. Questo perché il passato viene letto secondo la sensibilità e la cultura di chi la maneggia.
Qui ho tirato le definizioni un pochino per i capelli. “La storia che raccontano i numeri” e la “storia dell’umanità” non sono propriamente la stessa cosa ma il parallelo è evidente.
I numeri che ci vengono proposti vengono interpretati secondo la sensibilità, la cultura e, non ultimo, l’interesse personale di chi le legge. Certo, anche interesse personale. Lo facciamo tutti i giorni. Se leggiamo il bilancio di una azienda lo leggiamo e cerchiamo di trovarci dentro quello che ci aspettiamo o, per interesse, lo manipoliamo in modo che possa sostenere le nostre tesi.
In questo modo i numeri vengono usati secondo convenienza e, purtroppo, spesso in maniera assolutamente involontaria.
Se voglio sostenere che ci sono più infetti tra i vaccinati che non non tra i non vaccinati lo posso fare. Se voglio direi che il numero degli infetti è molto basso nonostante la viralità della variante Delta lo posso fare. I numeri sono proprio gli stessi.
Quei numeri raccontano le storie più diverse e l’unico augurio che mi faccio è che chi deve maneggiarli per prendere delle decisioni gravi per le persone e per il paese abbia la sensibilità, la cultura ed una assenza di interesse personale che gli permettano di fare la scelta giusta quale che sia la storia che i numeri sembrano raccontargli.
Mi rende relativamente tranquillo il fatto che, a pancia, il nostro Primo Ministro, Mario Draghi, con i numeri un pochino ci ha giocherellato negli anni e non mi sembra che lo abbia fatto in maniera disastrosa.
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Nel caso non ve ne foste accorti qui in giro c’è anche un podcast con il quale potrete intrattenervi.
Dovrei fare di questo genere di post una sorta di rubrica fissa.
A me, personalmente, queste cose fanno veramente impazzire.
Oggi parliamo di Sam Zeelof che è un ragazzo che si è messo in testa di produrre circuiti integrati nel suo garage. Sì, avete capito bene. Circuiti integrati.
In un video su YouTube Sam descrive il processo che lo ha condotto a produrre un circuito integrato completamente fatto in casa. Il risultato che ha raggiunto è stata la produzione di un circuito integrato con a bordo 100 transistors.
Se lo guardiamo in prospettiva ha prodotto qualcosa di molto più potente dei primissimi circuiti integrati prodotti da Intel negli anni 60.
Che dire, chapeau!
Ecco il video per chi di voi è interessato all’argomento:
Questo, invece, è il suo canale su YouTube. C’è della roba altrettanto figa.
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Ma il caffè piace, ma proprio tanto, ma è possibile ottenere un caffé perfetto a casa?
La risposta è, ovviamente, sì. Seguitemi.
Negli anni sono diventato sempre più esigente. Ancora di più da quando Matteo, titolare di rinomato bar in Abruzzo, mi ha spiegato i segreti del buon caffè al bar. Miscela, pressione, acqua, macinatura e tutti i segnali che sono indicatori del fatto che stai per bere una ciofeca.
Il tipo di degustazione è per me dettato dal momento in cui lo bevo e dalla sua funzione in quello specifico momento.
La mattina non riesco a fare a meno di un caffè americano. Dai, su, anche se sono Italiano e non dovrei avvicinarmi ad altro che non sia un espresso a me il caffè americano piace, sopratutto se fatto con tutti i sacri crismi.
Durante il giorno sono più tipo da espresso, a meno che non mi debba concentrare su qualcosa e allora torno al mio caro caffè americano.
Vediamo cosa per me compone un caffè degno di essere bevuto.
In prima istanza le miscele. Su questo non posso fare altro che lodare l’iniziativa di Antonio Tombolini che ha fondato e dirige The Smoking Tiger. Ha delle miscele eccezionali, la cura delle confezioni è maniacale ed il customer care una vera e propria bomba. Da lui ho comprato quasi tutto quello che ha prodotto in questi mesi ma ultimamente mi sono decisamente innamorato di una miscela proveniente dall’Honduras: HONDURAS (CELAQUE) – FINCA CAJA DE AGUAS BLACK HONEY
Uno spettacolo per il palato.
La descrizione recita:
Questo sembra gridare la tazza di questo spettacolare Honduras Black Honey. Ricco, carnoso, intrigante e pieno di sfumature. Dapprima, a caffè caldo, appena fatto, fuse in un tutt’uno armonico, poi via via che la temperatura si abbassa si rivelano ben distinte: su un denso strato di caramello leggermente salato si adagiano a ondate successive le arance e il mandarino candito, e un profumo di biscotto fragrante. Finché tutto si ritrova unito nel lungo finale di bocca fatto di dolcissimo cioccolato al latte elegantemente fruttato.
La sottoscrivo dalla prima all’ultima riga. Detto questo anche gli altri hanno un loro grandissimo perché. Non consigliato, consigliatissimo.
Le macchine per il caffè.
Qui il discorso si fa un pochino più articolato. Per il caffè americano uso Smarter Coffee. Due le ragioni fondamentali:
Usa caffè in grani che viene macinato ad ogni preparazione.
E’ connessa ad internet ed in questo modo non appena la mia sveglia suona la macchina comincia a preparare il caffè.
La qualità è ottima e la manutenzione minima. Sono oramai due anni che la macchina sta sulla mia credenza e non ha mai fatto cilecca nonostante l’uso intensivo.
Quando invece desidero un espresso rifuggo cialde ed affini. Uso Kamira, prodotto siciliano che è eccezionale. La ho conosciuta grazie a Matteo e non ho esitato un secondo ad ordinarla. E’ semplicemente eccezionale ed è la cosa che maggiormente si avvicina ad un espresso del bar. Genio siciliano all’opera!
Ecco, Signor Nino Santoro, mi piacerebbe davvero avere l’occasione di stringerle la mano perché ha realizzato una cosa eccezionale. Dovrebbe avere molto più successo di quanto credo immagino abbia. E questo senza contare il fatto che non inquini l’universo con decine di cialde usate. Tralasciando la qualità, ovviamente.
E’ difficile che io mi spenda per consigliare un qualsiasi prodotto ma Kamira è veramente una cosa eccezionale. Al di là della manualità della operazione di produzione del caffè non potete avere idea della qualità di ciò che esce da quel piccolo capolavoro. Oserei dire che è molto, molto meglio di qualsiasi caffè espresso io abbia mai bevuto in un bar. E questo per non parlare del fatto che puoi decidere quanta schiuma far finire nel tuo caffè e dosare la quantità finale di liquido che finisce nella tazzina.
Infine la tazzina viene riscaldata quel tanto che basta dato che è appoggiata direttamente alla caldaia.
Oltre a questo va detto che il processo è molto, molto più veloce di quanto non sia quello di una moka tradizionale. In due minuti scarsi il tuo caffè è pronto.
Insomma, una esperienza da provare perché è davvero difficile da gestire.
Antonio, se mi leggi, chiama il signor Santoro e metti a listino il suo prodotto sul tuo sito!
Kamira richiede la macinazione del caffè prima di potere funzionare e la macinazione è affare complicato e delicato.
Il caffè non si deve surriscaldare nel processo e per questo conviene farlo a mano. Dopo un pochino di ricerca mi sono deciso a comperare il ROK Manual Coffee Grinder che funziona alla perfezione ed è decisamente un oggetto di design che non guasta per nulla sulla mensola della cucina.
La combinazione di questi quattro elementi mi restituisce sempre un caffè che una esperienza unica e, in fondo, le esperienze sono le cose per cui vale la pena vivere.
Esperienza che comincia con l’apertura della confezione del caffé che comincia con il suo aroma che arriva direttamente dalla tostatura di Antonio. Continua con l’aroma che si sprigiona mentre, lentamente, macini il caffè con il macinino ROK e termina con il profumo che si diffonde mentre la caffettiera Kamira fa il suo lavoro. E, finalmente, il caffè pronto che raggiunge il tuo palato. Sublime. Davvero, non esistono altre parole.
Per rispondere alla vostra domanda: Ma tutto questo è necessario? No, non è necessario ma è molto, molto piacevole.
P.S. No, nessuno mi ha dato una lira per scrivere queste cose. Al contrario, ne ho date io a loro per avere questi prodotti. Influencer, lèvati, ché mi fai un baffo.
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