Tesla, Bitcoin e ambiente

black and gray nike logo
Photo by Austin Ramsey on Unsplash

Qualche giorno fa Tesla compra 1,5 miliardi di dollari di Bitcoin. La cifra è molto alta, seppure non altissima considerato il fatto che Bitcoin ad oggi capitalizza più di 700 miliardi di dollari.

Il razionale che Tesla espone nella sua comunicazione istituzionale è il seguente:

to provide us with more flexibility to further diversify and maximize returns on our cash.

L’effetto diretto di questa notizia è stato un aumento del 2,5% del valore delle azioni di Tesla ed un balzo in avanti di circa il 10% della valutazione del Bitcoin.

Rifletto qualche minuto su questa notizia e qualcosa non mi convince.

Visito il sito di Tesla e mi diventa ben evidente che cosa non suonava nella maniera corretta.

Sulla pagina About di Tesla si legge:

Tesla was founded in 2003 by a group of engineers who wanted to prove that people didn’t need to compromise to drive electric – that electric vehicles can be better, quicker and more fun to drive than gasoline cars. Today, Tesla builds not only all-electric vehicles but also infinitely scalable clean energy generation and storage products. Tesla believes the faster the world stops relying on fossil fuels and moves towards a zero-emission future, the better.

Ed ancora, più avanti:

To create an entire sustainable energy ecosystem, Tesla also manufactures a unique set of energy solutions, PowerwallPowerpack and Solar Roof, enabling homeowners, businesses, and utilities to manage renewable energy generation, storage, and consumption. Supporting Tesla’s automotive and energy products is Gigafactory 1 – a facility designed to significantly reduce battery cell costs. By bringing cell production in-house, Tesla manufactures batteries at the volumes required to meet production goals, while creating thousands of jobs.

And this is just the beginning. With Tesla building its most affordable car yet, Tesla continues to make products accessible and affordable to more and more people, ultimately accelerating the advent of clean transport and clean energy production. Electric cars, batteries, and renewable energy generation and storage already exist independently, but when combined, they become even more powerful – that’s the future we want.

C’è una chiara dissonanza tra le due cose.

Coloro che hanno una conoscenza del modo in cui vengono “creati” i Bitcoin sa quanto e quale impatto questa attività ha sul consumo energetico.

Recentemente si è letto di come la vasta numerosità di Bitcoin Farm abbiano causato enormi problemi energetici in Iran causando continui blackout della rete elettrica. Si legga ad esempio questo articolo di The Associated Press: Iran, pressured by blackouts and pollution, targets Bitcoin

Quindi se da un lato Tesla si dichiara estremamente attenta al suo impatto sull’ambiente dall’altro compra in grande quantità Bitcoin che hanno un impatto devastante.

Non c’è coerenza, ed è un peccato.

E tutto questo senza considerare il fatto che recenti studi hanno messo in dubbio il fatto che le auto elettriche siano davvero un bene per l’ambiente.


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Quello di seguito è l’ultimo episodio.

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Niente stampante…

black Canon photo printer
Photo by Joshua Fuller on Unsplash

Qualche giorno fa ho scritto del passaggio ad un Apple MacBook Air con architettura ARM per il mio computer personale.

Il processo di setup è stato semplice e veloce e praticamente tutto quello che mi serve gira senza problemi su questa nuova architettura, compreso il mio adorato package tmux.

Oggi mi sono ritrovato a dovere scannerizzare un documento sul quale dovevo apporre una firma autografa. La stampante multifunzione si è aggiunta senza problemi ma lo scanner sembrava del tutto morto. Cliccando sul bottone “Open Scanner” niente sembrava funzionare.

Dopo un quarto d’ora mi è venuto il dubbio che i driver e l’applicazione non fossero pronti per l’architettura ARM.

La soluzione è molto semplice:

  • Aprire il Finder.
  • Tenendo premuto il tasto option cliccare sul menu go del finder.
  • Selezionate la voce Library.
  • Cercate il folder Printers e cliccateci sopra.
  • Ora dovreste avere una lista di icone che rappresentano le stampanti configurate per il vostro sistema.
  • Cliccate con il tasto destro del mouse su quella che volete configurare e selezionate la voce Get Info.
  • Mettete un checkbox sulla voce “Open using Rosetta”

Il gioco è fatto. Lo scanner funziona.


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Ma vedi un pò l’Apple Watch

black smart watch with black strap
Photo by Simon Daoudi on Unsplash

Oggi mi è capitato sotto gli occhi un articolo pubblicato sul Journal of Medical Internet Research: Physiological Data from a Wearable Device Identifies SARS-CoV-2 Infection and Symptoms and Predicts COVID-19 Diagnosis: Observational Study

Confesso che ne sono rimasto molto colpito.

La potenza di quei piccoli oggetti che possiamo indossare al nostro polso diviene sempre più grande e, di fatto, sempre più utile al di là del solito paradigma dello status symbol.

Dopo una prima infatuazione con il primissimo Apple Watch sono diventato un fedelissimo di Garmin, ed in particolare della serie di prodotti Fenix. Tutt’ora sto indossando un Garmin Fenix 5x e devo dire che ne sono pienamente soddisfatto.

La realtà è che l’ultimo modello dell’Apple Watch è intrigante per le nuove funzionalità di misurazione che introduce. Prova ne è anche l’articolo che ho citato poco sopra.

Da questo punto di vista Garmin mi sembra che sia rimasta un pochino indietro in termini di funzionalità. Vero è che quello non è nemmeno il suo target, sopratutto per la serie Fenix.

Ad ogni modo l’usabilità di Apple Watch per quanto riguarda i pagamenti contactless è assolutamente superiore. Sul Garmin la funzionalità esiste ma è necessario autenticarti con un pin prima di potere pagare. Inserire un pin su un device privo di tastiera toglie quella immediatezza che invece hai su Apple Watch e la sua autenticazione biometrica.

Rimane poi il tema delle altre misurazioni che Garmin non ha e che sono il fondamento di quanto riportato nell’articolo. In un’era di pandemia globale non è un tema da sottovalutare.

Se stavo valutando il fatto di passare alla serie 6 per via della ricarica solare ora mi viene il dubbio…


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MacBook Air M1

closeup photo of silver MacBook
Photo by Evan Gebhart on Unsplash

Il mio MacBook 12″ ha cominciato a dare segni di grande sofferenza. Si tratta del mio computer personale e che uso praticamente ogni volta che sono in caso.

Piccolo, leggerissimo e con una durata delle batterie di tutto rispetto. Purtroppo comincia a fare fatica a stare dietro a quello gli viene chiesto di fare. Questo perché spesso lavoro con lui quando non ho voglia di stare in studio. Colpa la complessità delle nostre presentazioni ed alcune applicazioni che uso in altre occasioni era arrivato il momento di cambiare.

Lo avevo presto mentre aspettavo la riparazione del mio MacBook aziendale due anni fa e non avevamo a disposizione un muletto. Ha fatto il suo dovere.

Da allora lo ho usato sostanzialmente in sostituzione di un tablet perché comunque era estremamente maneggevole e la presenza di una tastiera fisica era per me molto, molto utile.

Inutile dire che sono stato tentato dai nuovi chip ARM di Apple. Per questo ho deciso di approfittare dell’occasione e della necessità e fare trade in del mio computer con un MacBook Air M1.

E’ arrivato ieri sera ed in meno di mezz’ora era una copia esatta dell’altra macchina.

Prime impressioni:

  • Ritorna la tastiera di una volta. Tutto sommato mi piace anche se la precedente non era affatto male se non per il fatto che sul mio pc aziendale ho dovuto sostituirla due volte, schermo compreso. Sto notando che in genere faccio molti meno errori su questa tastiera e sono generalmente più veloce nella battitura. Il feeling non mi entusiasma ma è questione di gusti. Non sono mai stato uno che pesta pesantemente sui tasti e la tastiera butterfly si adattava un pochino meglio al mio stile.
  • La macchina è di una velocità pazzesca. Non è una sensazione. Li ho messi uno vicino all’altro e praticamente i tempi medi di caricamento si sono dimezzati. Farò qualche esperimento più robusto in seguito.
  • La durata della batteria è impressionante. Ho cominciato ad usarlo ieri sera intorno alle 19.00 senza collegarlo alla alimentazione. Ora sono le 14.30 del giorno successivo e siamo ancora al 70% di batteria nonostante un uso intensivo. Direi che non è affatto male.
  • Tutte le applicazioni che uso di frequente sono supportate per la nuova architettura. Mi rimane fuori iTerm e poco altro che comunque girano a dovere con Rosetta 2.
  • Il display a 13″ pollici va molto meglio per un vecchietto come me.

Direi quindi che sino ad ora il cambio si è rivelato molto vantaggioso.


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Di digitale e vaccinazioni

person sitting on beige street bench near trees
Photo by Bruno Martins on Unsplash

Credo che tutti sappiano che il digitale contribuisce grandemente a portare il pane in tavola per me e per la mia famiglia.

Per questa ragione non posso che essere contento quando qualcuno pensa al digitale come soluzione ai suoi problemi di business.

Detto questo è ben evidente che il digitale non è la soluzione a tutti i mali.

In questo caso parlo delle prenotazioni per la vaccinazione contro il COVID-19 per le persone anziane. In questo caso parliamo di persone con ottanta anni o più.

Ora, io mi domando a quale mente geniale sia venuto in mente di far fare a queste persone una prenotazione online. Dai, su.

Qui non abbiamo bisogno di un PhD in Service Design per capire che è una cazzata colossale.

Ma quale confidenza con il digitale pensate possa avere una persona con più di ottanta anni? E questo senza contare il fatto che i vari siti saranno stati costruiti con il consueto livello di usabilità che oramai è una cifra della pubblica amministrazione.

Ancora. Questo quando i dati di queste persone sono arcinoti dato che tutti possiedono una tessera sanitaria.

Niente, non ce la possiamo fare. Non c’è davvero alcuna speranza. Siamo destinati a soccombere a causa di questa massa di burocrati ignoranti e presuntuosi.


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Presentazioni

turned on LED projector on table
Photo by Alex Litvin on Unsplash

Come credo tutti coloro che facciano un lavoro simile al mio capita molto spesso di dovere mettere mano a Powerpoint o Keynote e dedicarsi alla realizzazione di una presentazione.

Un pitch per un cliente, la descrizione di una iniziativa, una presentazione per un evento e via dicendo.

Negli scorsi giorni mi è capitato di leggere una intervista alla persona che collaborava con Steve Jobs per la realizzazione dei suoi interventi. Questo è il link all’articolo: The man who produced Steve Jobs’ keynotes for 20 years.

E’ una lettura molto interessante ed in molto di quello che viene scritto mi ritrovo nel mio approccio alla creazione di questi esempi. Attenzione! Non che voglia paragonarmi a Steve Jobs perché di Steve Jobs ce ne è stato solo uno ed è certamente irripetibile.

Parlo dell’approccio in senso lato.

In primo luogo Wayne Goodrich si definisce un “produttore”, quasi in senso cinematografica. Credo che questo sia davvero il senso profondo del discorso. Una presentazione deve raccontare una storia e come tale deve essere strutturata. Si tratta di una storia che ha un copione e le slides sono il tuo palcoscenico. Non sono il centro dell’azione, tu sei il centro dell’azione.

Per potere raccontare una storia è necessario esercizio e pensiero.

Pensare di lanciare una applicazione e mettersi a scrivere una presentazione per me non funziona. Non ha mai funzionato.

Il mio processo mentale mi impone di costruire quella storia prima nella mia testa, poi sulla carta e solo alla fine formalizzarla in un documento elettronico.

Se non la vedo prima nella mia testa non c’è verso di arrivare ad una conclusione.

In questo senso le mie presentazioni non contengono tutto ciò che ho da dire. Per me le slides sono un supporto a quello che sto raccontando. Sarebbe meglio dire un complemento. Così come lo è il mio tono di voce sulle differenti tavole che è funzione del punto in cui mi trovo.

In questo senso per me il momento della presentazione assume la forma di una rappresentazione teatrale. In ogni momento conosco le scene, il palcoscenico, gli altri attori, la scenografia ed il copione. E secondo questi elementi io lavoro raccontando quella storia.

Su questo punto insisto molto anche quando mi trovo a lavorare su una presentazione che coinvolge più persone. Se si tratta di un pitch ognuno fornisce il suo contributo e poi chiedo a tutti di fare una “prova generale” per decidere cosa dire e come e, sopratutto, chi lo deve dire. Mi piace decidere insieme come ci passeremo il testimone tra una slide ed un’altra.

In tutta sincerità ho sempre detestato quel genere di presentazioni in cui il più alto in grado si prende tutta la scena e ti frantuma le palle per un’ora con lo stesso tono di voce leggendo parola per parola quello che c’è scritto sulla schermo. Questo perché, generalmente, il più alto in grado non ha letto quello che è stato preparato. Spesso non ha nemmeno contribuito ma il suo ego gli impone di essere lui il protagonista pur non essendone capace.

Sorrido infatti quando vedo quelle classiche slide in cui ti viene detto qualcosa del tipo: siamo un team affiatato pronto a lavorare per te?

No, ma davvero?

Ma se è così per quale motivo non mi stai restituendo quella immagine di team mentre mi stai raccontando queste cose? La mia lettura è che mi stai supercazzolando e non va bene.

Ci deve essere consistenza tra quello che scrivi, quello che dici ed il modo in cui lo fai. In caso contrario stai barando, con chi ti ascolta e con te stesso.


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Ricordi

four person hands wrap around shoulders while looking at sunset
Photo by Helena Lopes on Unsplash

E’ stata una settimana particolarmente complessa e sono arrivato a questo fine settimana arrancando sui gomiti. Per questa ragione ho disabilitato la mia consueta sveglia all’alba decidendo che fosse il mio organismo a decidere quando fosse l’ora giusta per riaprire gli occhi.

Mi sono svegliato intorno alle nove del mattino e sono sceso per bere il mio caffé. Mi preparo e vado a recuperare il mio telefono cellulare.

Guardo il display è c’è la notifica di un messaggio da una persona. Un carissimo amico di gioventù che mi avvisa della scomparsa del padre di un altro nostro carissimo amico. Non sento entrambi da secoli sebbene abbiamo trascorso così tanto tempo insieme da non riuscire a stabilire quanto questo fosse. Erano le persone con le quali ho condiviso degli anni, abbiamo visitato una infinità di posti insieme e ci siamo visti crescere nei momenti più importanti della nostra vita.

In seguito ognuno ha preso strade diverse o, più semplicemente, siamo cresciuti e ci siamo persi di vista. Completamente.

Mentre leggevo quel messaggio ripensavo a questo nuovo me stesso che è cresciuto negli ultimi anni e mi sono rattristato nel constatare che in questo percorso ho sicuramente tralasciato loro.

Leggendo quel messaggio, e la conversazione che ne è seguita, c’era imbarazzo da entrambe le parti. Entrambi consapevoli del tempo che è passato senza abbracciarci e parlarci, anche delle cazzate che circondavano i nostri discorsi da ragazzi, ed entrambi con la sensazione di essere stati colpevoli nel non avere fatto nulla a riguardo.

Eppure è bastato quel singolo messaggio per fare un salto nel passato di trent’anni e ricordare una serie infinita di avvenimenti, di discorsi, di litigate, di confronti, di risate. Insomma, tutto quello che cementa una amicizia che, ritengo, esiste ancora.

E’ come la brace sotto la cenere che arde ancora sebbene non ci sia più fuoco.

E nonostante la grande tristezza della occasione non posso che ringraziare questa persona per avermi regalato i ricordi di momenti molto felici e spensierati.

Ora credo sia il caso di utilizzare questa occasione per rinnovare questa amicizia e vedere cosa ne è rimasto.

Un pensiero a Vittorio che, nonostante la sua scorza durissima, sono certo stia vivendo un momento complesso. Un abbraccio, di quelli vigorosi e sinceri. Come sempre è stato tra noi.

Un grazie a Riccardo per avere gettato questa fune. Cercherò di afferrarla.


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Sai quei giorni…

people sitting on chair with brown wooden table
Photo by Luis Villasmil on Unsplash

in cui non hai voglia di niente?

Ecco, oggi è proprio uno di quelli.

Salti senza soluzione di continuità da una cosa all’altra. Risolvi problemi, parli con le persone, scrivi documenti, prepari slides ed alla fine ti ritrovi a pensare che non hai fatto davvero molto.

Certamente non mi sono divertito.


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M…..a 30 anni!

4 Febbraio 1991 ore 9.00 ad Assago, Strada 1, Palazzo E1.

Ci arrivo con la mia Y10 con un larghissimo anticipo. Arrivavo dal mio piccolo paesello e non volevo rischiare di fare tardi al mio primo giorno di lavoro.

Giornata fredda e nebbiosa. Trovare parcheggio era stato un incubo e lo sarebbe stato per tutto il tempo a venire.

Allora ero un giovane virgulto pieno di belle speranze. Non ero a conoscenza della esistenza degli head hunter e per questa ragione mi ero affidato ai quotidiani. Mi ricordo che lessi questo annuncio su Il Corriere e mandai il mio scarnissimo curriculum vitae senza grandi aspettative.

Eppure quelle poche righe sul giornale parlavano esattamente di quello che sapevo fare e, sopratutto, di quello che volevo fare in quel momento.

Non esistevano i telefoni cellulari o, almeno, non erano così diffusi come oggi dato il loro costo esorbitante per l’epoca. Venni raggiunto sul telefono fisso di casa dei miei genitori. Mia madre mi disse che una azienda di Milano voleva parlarmi.

Era una delle assistenti del CTO, che allora si chiamava Direttore Tecnico, di Soft 85 srl, una software house strettamente legata a International Computer Limited S.p.A., multinazionale inglese che produceva, tra le altre cose, dei mainframe e dei sistemi UNIX di livello spaziale.

Proprio la mia conoscenza di UNIX mi portò ad essere assunto.

Mi guardo indietro e continuo a ritenere di essere stato molto fortunato. Era il secondo annuncio a cui rispondevo e dopo due mesi avevo tra le mani il mio primo contratto a tempo indeterminato.

Ricordo che ero felice come una pasqua.

Trent’anni fa esatti cominciò quindi la mia carriera e mai avrei potuto immaginare che mi avrebbe condotto dove sono oggi. E’ stato, ed è ancora, un viaggio incredibilmente eccitante.

Quella fortuna non credo mi abbia mai abbandonato, se non per qualche temporaneo rovescio subito risolto. Forse sempre grazie a quella fortuna.

Se dovessi fare un bilancio di questi trenta anni di carriera dovrei dire che ho incontrato sempre persone di altissimo livello e poche sono state quelle che non mi hanno lasciato nulla. Conto i coglioni totali sulle dita di una mano, con la grande consapevolezza che quelli che ho incontrato lo erano di livello assoluto. Ho una mia lista, la tengo stretta per aiutarmi ad identificare il fenotipo quando lo incontro.

Quasi tutte le persone che ho incontrato mi hanno insegnato tanto e senza risparmiarsi.

Vediamo. In ordine sparso a partire da quel 1991: Felice Ribaldone genio e sregolatezza, Gaetano Tufano persona gentile e di vasta conoscenza, Guido Umberto Torboli il primo CEO per cui ho lavorato, Sergio Scola con il quale ho la fortuna di lavorare anche oggi, Daniele Schinelli schietto, diretto e miglior animale politico che abbia mai incontrato, Roberto Meda, persona di valore assoluto, grandissimo amico, e con una enorme abilità di darmi la prospettiva giusta ogni volta che parto con le mie menate. Vincenzo Novari, un altro CEO che le sapeva tutte, Dina Ravera, COO tosto ma che mi ha insegnato molto, sopratutto sulle cose da non fare, Agostino Ruberto, “scienziato” romano che tecnicamente non lascia spazio a nessuno, Roberto Di Pietro il cui stile di management mi ha sempre affascinato. Marco Giannotti, grande stile e abilità politica sopraffina, Antonio Brunacci, intelligenza acuta ed affilata oltre che uomo di grandissima cultura. Luca Mascaro che è una delle persone più intelligenti, umili ed illuminate che io abbia mai conosciuto.

Mi perdonino tutti quelli che non ho citato direttamente ma siete veramente tanti.

Io mi auguro che in questi trenta anni sia stato in grado di lasciarvi qualcosa di utile. Spero di non essere uno di quelli che hanno solo preso e non hanno dato.

Ho fatto tutto quello che ho fatto in piena coscienza e solo in un paio di occasioni con voluta cattiveria.


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Caffè

Photo by Jakob Rubner on Unsplash

Io amo il caffè.

Mi piace il caffè espresso e non disdegno affatto quello che viene prodotto con la classica caffettiera. La mattina è però imperativa una tazza di caffè americano fatto con tutti i sacri crismi.

La mia sveglia viene gestita dal mio sistema di Home Automation che al momento giusto comincia ad alzare, lentissimamente e con un colore rilassante, la luminosità della stanza. Allo stesso tempo comincia a riprodurre una playlist con volume crescente sino a che non sono pronto ad alzarmi dal letto. Nello stesso momento viene inviato un messaggio alla mia caffettiera americana connessa ad Internet che comincia a prepararmi il caffè.

Dalla mia stanza sento il macinacaffè che comincia a fare il suo lavoro e dopo dieci minuti esatti l’aroma del caffè pronto arriva in camera e comincio a pregustare il mio primo caffè del mattino.

Si da il caso che io sia così fortunato da avere tra le mie conoscenze, purtroppo troppo poco frequentata rispetto alle cose che potrei imparare da lui, Antonio Tombolini.

Antonio è una persona che definire vulcanica sarebbe troppo poco. Tutti sono sempre travolti dalla sua capacità di coinvolgerti nelle sue passioni. E’ una persona di una cultura travolgente e dalle grandi passioni. I libri, la cucina, il digitale ed, ultimamente il caffè.

Sì, perché qualche mese fa Antonio aveva cominciato a pubblicare delle foto di macchine a noi del tutto sconosciute e questa era una chiara indicazione che stava per lanciarsi in qualcosa di figo.

Ecco, Antonio è una persona che fa.

Qualche settimana fa abbiamo scoperto che avrebbe tostato localmente del caffè e lo avrebbe messo in vendita. Sono stato subito attratto dalla sua iniziativa nello stesso momento in cui ha messo online la sua nuova creatura: The Smoking Tiger.

E’ una figata pazzesca perché non si tratta solo di caffè. Si tratta della esperienza del caffè, e questo è tutto un altro gioco.

Oltre a potere acquistare il caffè si possono acquistare una serie di accessori che, per chi è appassionato, sono quanto di meglio si possa trovare sul mercato.

Preso dalle mie menate quotidiane me ne dimentico sino a che non vedo ripassare un altro post. A questo punto mi fiondo sul sito ed ordino tre chili di caffè di tre differenti varietà.

Dr Congo, Ethiopia e Peru. Attendo con ansia l’arrivo del mio pacco e la spedizione è velocissima. Due giorni dopo il caffè è sulla credenza.

Apro per primo il pacco di Ethiopia anche se la scelta non è facile. Da qualche parte di dovrà pure cominciare. La prima cosa che mi colpisce è la qualità della confezione. Si tratta quasi di un’opera d’arte. Il logo è una vera meraviglia ed il materiale con il quale questa è confezionata è incredibile. Una confezione perfetta per mantenere integra la qualità del contenuto. La chicca è la presenza all’interno della confezione di una bustina con un preparato per assorbire l’ossigeno all’interno della confezione garantendo ulteriormente la qualità del prodotto.

Davvero, la hanno presa seriamente!

La prima cosa che mi colpisce è il profumo. Ora, non sono un esperto nella degustazione del caffè ma il profumo che si sprigiona da quella busta non è simile simile a niente che io abbia mai provato prima. E’ intrigante e stupefacente nell’aroma.

Carico i chicchi nella macchina del caffè dopo averla attentamente ripulita dai residui del caffè precedente e mi pregusto il mio caffè del giorno dopo.

Suona la sveglia e la macchina si mette al lavoro. Quasi subito arriva nella mia camera da letto l’aroma del caffè appena prodotto e ne sono immediatamente sedotto. Niente di paragonabile al caffè precedente. Un profumo del tutto diverso che mi spinge a fiondarmi fuori dal letto e correre in cucina per assaggiarlo.

La descrizione sul sito dice questo:

Caffè a bassissimo contenuto di caffeina, da bere in quantità, a qualsiasi ora del giorno, anche alternato a un ottimo tè, come fossero il cane e i gatti di casa mia. Al naso troneggia il gelsomino, accompagnato da effluvi di cioccolato al latte durante la macinatura. Lo versi in tazza e (marchigiani usi a correggere il caffè col Mistrà, udite udite!) spunta al naso netta una sferzata di anice. In bocca finalmente: tanta, tanta, tanta frutta tropicale, mango e pesca e molto altro. Ma non tutta insieme, e neanche una dopo l’altra: una alla volta, individuali e distinguibili, ma come in una giostra, man mano che le sorsate si succedono e la temperatura gradualmente si abbassa, fino a chiudere su note di melone.

Beh, è proprio così. E’ una delle cose più buone che io abbia mai assaggiato in vita mia per quanto riguarda il caffè.

Guardate la pagina dei prodotti. C’è la storia del caffè, del produttore, della zona in cui viene coltivato.

Ancora una volta, una esperienza.

Antonio ci ha preso un’altra volta è ha realizzato qualcosa di incredibile.

Preso dall’entusiasmo rivado sul sito ed ordino un macinacaffè in modo che possa usare lo stesso caffè in grani anche per la moka.

Faccio il mio ordine ed il giorno successivo vengo contattato proattivamente da Francesco che mi avvisa che il prodotto che ho ordinato non è al momento disponibile in magazzino.

Quindi, oltre a fare un caffè che è uno spettacolo per il palato, hanno un customer care che spacca.

Insomma, tantissima roba.

Ragazzi, fidatevi. Se vi piace il caffé da The Smoking Tiger trovate del caffè che è una vera meraviglia.

Io non vedo l’ora di potere provare gli altri.

Io ora divento cliente fisso!

Antonio, ma prevedere una forma di abbonamento?


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In macchina

Questa mattina, dopo lunghissimo tempo, avevo un impegno personale che non potevo più permettermi di posticipare e quindi sono salito in macchina per muovermi con la consueta calma.

L’applicazione di Mercedes non mi aveva dato alcun avviso, molto probabilmente perché quando la macchina è in garage non riesce a collegarsi ai sistema della sua casa madre.

Salgo quindi in macchina ed è un turbinio di messaggi dalla console.

Lo stato della batteria è critico. Arrestare l’autovettura e lasciarla accesa. Ok, ho capito il messaggio ma quanto deve rimanere accesa? Un’ora, un giorno, una settimana, un mese, sino a quando è necessario? Su, dai, datemi almeno una indicazione.

Arriva quindi “La manutenzione B è scaduta da 40 giorni”. E che cavolo, e come ci andavo dal meccanico se stavamo tutti in quarantena? Mi viene detto che sarei potuto andarci comunque ma ho scelto io di non farlo per starmene lontano da altri essere umani e non rischiare un potenziale contagio.

“I sensori sono sporchi. Leggere il manuale di istruzioni”. E va beh, questo non lo avevo mai visto prima. Evidentemente dopo tre anni sarebbe forse il caso di fare dare una lavata alla carrozzeria.

“Rabboccare ADBlue…” ecco un altro messaggio che si insinua nella mia mattinata.

Diciamo che forse dovrei prendermi maggiori cura di quell’ammasso di lamiera.

E’ ben evidente che mi sta inviando messaggi in cui mi dice che si sente trascurata.

A questo punto mancava solo: “Prendiamoci una pausa di riflessione. Non è colpa tua, è colpa mia.”


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Due facce della stessa medaglia

In quesi mesi di difficoltà mi sono trovato spesso a fare diverse considerazioni su come le persone stessero affrontando questo periodo complesso.

In sintesi mi sono ritrovato ad identificare due grosse categorie di persone.

C’è un insieme di persone che è perfettamente consapevole della difficoltà che tutto il sistema sta vivendo e dello sforzo che si sta facendo, o si è fatto per superarlo. In questo senso molte di loro si considerano fortunate nel ritrovarsi tra le mani un lavoro che è in grado di funzionare in maniera efficiente nonostante le limitazioni e le difficoltà. Il lavoro di Sketchin rientra sicuramente in questa categoria. Queste persone sono consapevoli della fortuna che hanno tra le mani e la riconoscono.

L’altra categoria di persone è quella che non riesce a percepire altro mondo che quello in cui vivono. Spesso è un mondo fortunato che non è stato colpito dalle vicende legate alla pandemia e, sostanzialmente, hanno continuato a fare la vita di prima. Spesso si sono lamentate delle limitazioni e spesso hanno avanzato pretese fuori da qualsiasi spazio di ragionevolezza. Diciamo persone che forse vivono in un mondo fatato che certamente non è quello reale.

Sinceramente non ho trovato molte varianti tra questi due estremi.


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E’ quasi ora

grayscale photo of motorcycle engine
Photo by Ian Taylor on Unsplash

Oggi qui sul lago abbiamo una meravigliosa giornata di sole. Una di quelle giornate che ti lasciano immaginare la primavera imminente.

Per la prima volta oggi abbiamo superato una temperatura di dieci gradi centigradi dopo un inverno freddo. Le giornate cominciano ad allungarsi e la luce invade il lago molto più a lungo di quanto non sia accaduto nei mesi precedenti.

Scendo in garage per salire in macchina ed andare a comprare i quotidiani della domenica che sono sempre una lettura che ritengo quasi obbligata.

Di fianco alla mia macchina vedo la mia moto e penso che ci siamo quasi.

E’ quasi ora di rimetterla in pista. Controllare la batteria, pulizia della carrozzeria. Sistemazione di alcuni dettagli che avevo in mente di perfezionare con la nuova stagione.

Mi manca sentirla sotto di me. Quell’insieme di vibrazioni e di suoni che puoi provare solo guidando una motocicletta essendo parte dell’insieme.

Mi manca la piega nelle curve, per quanto sia possibile piegare con una Harley Davidson Road King. Mi manca la sensazione che si prova quando apri la manopola del gas. Il vento sul viso e l’essere parte del paesaggio mentre ti muovi.

Per me usare la moto è sempre una scoperta continua. La finestra sul mondo che è tipica del viaggio in macchina scompare e tu diventi parte stessa del mondo. Ne sei completamente immerso.

La percezione di ciò che ti circonda aumenta. Devi stare più attento del normale perché il comportamento delle altre persone è imprevedibile e ritrovarsi con il sedere per terra è questione di un attimo. Nonostante questo questi sensi più pronti ti fanno cogliere quei dettagli che scompaiono completamente quando sei in macchina.

E poi l’incontro con gli altri motociclisti. Un saluto mentre li incroci e le consuete chiacchiere quando ti fermi da qualche parte.

Dai, ci siamo quasi. Davvero.


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Digital distancing

Subway message for commuters
Photo by Daniel Lee on Unsplash

Tra tutte le menate che questa pandemia globale ha introdotto nella nostra vita quotidiana c’è il social distancing. Lo chiamo così perché oramai ci piace troppo fare uso di termini di origine Inglese che dovrebbero farci sembrare più fighi.

Veniamo quindi ad una definizione:

Social distancing, also called “physical distancing,” means keeping a safe space between yourself and other people who are not from your household.

Attraverso la pratica del social distancing si riduce il rischio di contrarre una qualsiasi infezione di origine virale.

A me, personalmente, il social distancing piace a prescindere. Questa imposizione ha tenuto molte persone molto lontane da me ed in fondo io sono un pochino come Nanni Moretti che diceva: “Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone” – Caro Diario, 1993.

Quindi per me il social distancing è più che benvenuto e mi auguro che rimanga in circolazione a lungo.

Allo stesso modo, credo, si dovrebbe introdurre una sorta di digital distancing. Questo, ovviamente, non può essere introdotto da una autorità ma deve essere frutto di scelte personali.

Stare lontani da tutto quegli strumenti digitali che, per loro stessa natura, trasportano cariche virali che sono potenzialmente tossiche per il nostro cervello.

Che ne pensate?


Shameless self promotion ahead…

Nel caso non ve ne foste accorti qui in giro c’è anche un podcast con il quale potrete intrattenervi.

Quello di seguito è l’ultimo episodio.

Qui, invece tutti gli episodi pubblicati sino ad ora: Parole Sparse – Il Podcast


Elettronica di consumo ed obsolescenza

white ipod nano 3 rd gen
Photo by Batu Gezer on Unsplash

Credo che se tutti guardassimo nei nostri cassetti, sopratutto quelle meno visibili ed accessibili, troveremmo una quantità di oggetti di elettronica di consumo che sono oramai superati da modelli nuovi e più innovativi.

Io credo di avere sicuramente almeno una decina di telefoni, dei Kindle oramai obsoleti, vecchi router ed altri sistemi che oramai non uso più.

In fondo questo è uno spreco perché se è vero che questi oggetti sono ormai superati credo che si debba trovare il modo di dargli una nuova vita, magari per funzioni diverse.

Mi è venuto questo pensiero nella giornata di ieri quando leggevo di una persona che ha convertito un vecchio iPod in un oggetto capace di fare streaming musicale da Spotify su una connessione WiFi.

Premesso il fatto che trovo il vecchio iPod ancora un oggetto dal design superlativo e un perfetto esempio di interazione uomo macchina.

Qui sotto potete vedere un video dell’iPod funzionante:

Io la trovo una cosa fighissima. Un oggetto che sarebbe dovuto essere destinato allo smaltimento, nella migliore delle ipotesi, viene riconvertito ad altra funzione usando tecnologia e software moderni.

Guy Dupont ha rilasciato pubblicamente tutti i dettagli necessari alla realizzazione del progetto, software incluso. Anche questa è una cosa bellissima. Data l’iconicità del prodotto trattato, l’iPod, avrebbe potuto certamente capitalizzare su questa idea e certamente mettere insieme qualche migliaio di dollari.

Ha deciso di non farlo a dimostrazione del fatto che c’è ancora gente in giro disposta a donare il proprio tempo raccontando e documentando progetti personali.

La seconda considerazione che dovremmo fare è che dovrebbe essere imposto ai costruttori di rendere gli oggetti che compriamo modificabili e riutilizzabili. Ci sono certo in gioco questioni di proprietà intellettuale e tecnologia proprietaria ma credo che sia un tema che dovrebbe essere affrontato.

Siamo troppo abituati a non aggiustare o modificare e semplicemente buttare nella spazzatura. Non è l’atteggiamento corretto in un mondo moderno.

Oltretutto è vero che si potrebbe fare cose di una bellezza assoluta se questo fosse possibile.

Forse si potrebbe pensare a device che sono chiusi per un certo periodo della loro esistenza ma che vengono resi aperti nel momento in cui entrano nel loro naturale momento di phase out dalla produzione. Sarebbe bellissimo avere a disposizione tutta la documentazione necessaria per poterli modificare sebbene questo tolga un pochino di magia a quella fase di reverse engineering che è tipica di questo genere di progetti.


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