Hai cinque minuti?

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Come regola generale il mio tempo in Sketchin è a disposizione di tutti coloro che pensano di averne bisogno. Tutto questo senza bisogno di passare senza alcun tipo di filtro particolare. Se hai bisogno di parlarmi, quale che sia il motivo, puoi alzare il telefono, scrivermi un messaggio di posta elettronica, mandarmi un SMS o scrivermi su Slack. Sono sempre a disposizione e non ho mai negato il mio tempo a nessuno.

Nella realtà dei fatti metto queste richieste in cima a tutte le altre cose che vanno a comporre la mia agenda. Se una persona in Sketchin ritiene di avere necessità di confrontarsi con il general manager su un qualsiasi tema io penso che questo debba avere la priorità su qualsiasi altra cosa. Sempre.

Sopratutto per i più giovani e meno esperti esiste comunque una sorta di timore nel farlo e quindi, generalizzo, si approcciano in maniera piuttosto timida. “Hai cinque minuti da dedicarmi?”

Tutti sanno benissimo che non saranno mai cinque minuti. Per quanto il tema da affrontare possa essere facile è ben difficile che possa essere discusso e risolto in un arco di tempo di soli cinque minuti.

Posso capire che abbiano una qualche ritrosia nel chiedere del mio tempo ma è un approccio sbagliato. La mia funzione principale è quella di essere di aiuto alle persone che lavorano con me. Ho sempre parlato di servant leadership e ci credo fermamente.

Per questa ragione non è utile che tu mi chieda cinque minuti. Devi chiedermi del tempo e la quantità di tempo sarà quella necessaria a risolvere il tuo problema.

A dire il vero la varietà di richieste è molto ampia. Dalla soluzione di un problema al consiglio puro e semplice. La richiesta del mio punto di vista su un progetto o la discussione di una esigenza legata alla sfera privata.

Raramente si tratta di cinque minuti.

L’unica cosa che chiedo è quella di essere diretti e trasparenti. Andiamo dritti al cuore della questione e parliamone, per quanto la questione possa essere “pelosa”. Girarci intorno non serve a nessuno dei due.

Quindi direi che la domanda è “Quando posso parlarti?” e non “Hai cinque minuti?”

Supermercato

Photo by Franki Chamaki on Unsplash

Sono le otto e trenta del mattino. Il cielo è nuvoloso e dal lago arriva un venticello freddo che fa dimenticare di essere già stati raggiunti dalla primavera. Sono in giardino a bere il primo caffè della giornata. Aspetto Beatrice. Abbiamo bisogno di comperare delle cose al supermercato.

Lo chiamano centro commerciale, e forse lo è davvero in relazione alle piccole dimensioni di tutto ciò che contorna il lago. In realtà ci sono pochi negozi e la varietà di scelte possibili è decisamente modesta.

Facciamo i nostri acquisti di generi alimentari e lascio che lei entri in libreria a scegliere le sue prossime letture mentre io mi dirigo verso la macchina per riporre i nostri acquisti.

Un macchina con targa Svizzera non si ferma per lasciarmi attraversare sulle strisce pedonali. E’ una BMW serie 5 grigia. Lui sulla cinquantina alla guida, lei un pochino più giovane occupa il sedile del passeggero. Nessuno dei due sorride. Entrambi hanno lo sguardo rivolto in avanti e ho come l’impressione che vivano in due mondi diversi.

Lui procede lentamente con la sua macchina. Sta cercando un parcheggio. Mi guardo intorno. C’è una quantità di posti liberi enorme data l’ora. Non sembrano piacergli. Alla fine si ferma poco più in là rispetto al passaggio pedonale. E’ un’area di passaggio e non è certamente segnata come area di parcheggio. Eppure ha il grande vantaggio di essere a pochi metri dall’ingresso del supermercato.

Ed alla fine rimane fermo lì noncurante del fatto che sta rompendo le scatole al transito delle altre vetture.

Lei scende dall’auto, apre il bagagliaio e ne tira fuori una quantità enorme di buste. Sta andando a fare la spesa al supermercato forte del fatto che i prezzi Italiani sono più vantaggiosi di quelli Svizzeri.

Si avvia lentamente verso la fila dei carrelli e ne estrae uno. Lui spegne la macchina e lei si avvia verso l’ingresso del supermercato. Lui non scende dall’auto. Abbassa il finestrino e si accende una sigaretta. Sarà solo lei a riempire il carrello di ogni ben di Dio, fare la fila alla casa, pagare e tornare all’auto per poi mettere ogni busta dentro il bagagliaio.

La osservo in volto mentre varca la soglia del supermercato. E’ scura in volto, nessun sorriso. Potrei dire che è triste. Forse scocciata. Probabilmente annoiata da questo rito che si ripete ogni sabato mattina e che deve sempre celebrare da sola.

Scuoto la testa.

Raggiungo Beatrice in libreria dove cominciamo a viaggiare in una infinità di mondi possibili fino al momento in cui non ne scegliamo qualcuno nel quale trascorreremo i prossimi giorni.

Sorridiamo.

Siamo felici. Noi.

E continuo a stampare

Photo by Osman Talha Dikyar on Unsplash

Sono diversi giorni che la mia stampante FLsun Q5 sta producendo oggi a flusso continuo. Nelle ultime 72 ore non si è fermata un secondo.

Dopo qualche mese di esperimenti, spesso malamente riusciti, credo di avere acquisito sufficiente esperienza per riuscire ad impostare i parametri ideali per ogni oggetto che intendo stampare. Non è stato un percorso facile.

In una stampante tradizione schiaccio il bottone “Stampa” e magicamente il mio foglio viene prodotto. Al massimo posso decidere di volere stampare in bianco e nero piuttosto che a colori.

La stampante 3D è un universo completamente differente. Il numero di parametri che influisce sulla qualità del risultato finale è veramente molto grande. Si parte dai parametri macro come tipo di filamento, supporti, infill e pochi altri e, se lo si desidera, si può entrare sempre più nel dettaglio.

L’acquisto della stampante è stato un acquisto d’impulso, complice l’ultimo black friday. Per questa ragione non pensavo che ne avrei fatto un uso particolarmente intenso.

Al contrario!

Ogni tanto mi faccio un giro su Thingverse o su Printables e scopro sempre delle cose interessanti che mi tornano utili. Quindi senza usare il classico Amazon me le produco io a casa mia senza l’intervento di nessuno.

La cosa più divertente è il fatto che tutti i modelli sono modificabili secondo le proprie necessità. Ecco, devo confessare che su questo sono ancora del tutto impreparato. Il processo che seguo è trial and error. Sino ad ora sono comunque riuscito a modificare i files secondo quello che mi serviva. Anche questa è una discreta soddisfazione.

Mi affascina l’idea che tu possa rappresentare un oggetto in tre dimensioni sullo schermo del tuo computer e qualche ora dopo puoi osservare l’oggetto vero e proprio formarsi sul piano della tua stampante. Nonostante io sia stato nutrito a tecnologia negli ultimi trent’anni, mi sembra ancora qualcosa di magico.

Mi piace anche l’idea che producendo questi oggetti in completa autonomia evito, nel mio piccolo, di inquinare. Se è vero che la stampante usa comunque dell’energia per funzionare e che comunque richiede del materiale per produrre la stampa è altrettanto vero che non ci sono imballaggi di sorta, non c’è nessun magazzino e non c’è trasporto. Mi sembra una considerazione interessante.

La stampa in tre dimensioni non è certamente un fenomeno di massa e non è alla portata di tutti. Richiede un pochino di studio e di applicazione per potere ottenere risultati soddisfacenti. Mi sono comunque convinto che le sue potenzialità siano molto grandi. Come sempre, quando parliamo di tecnologia, la cultura e l’educazione giocano un ruolo fondamentale.

Questo per parlare solo del mercato consumer. In altri contesti le opportunità sono altrettanto grandi ed affascinanti.

Shutdown

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In questi giorni pensavo ai vari oggetti che sono installati nella mia casa. Gli speaker Sonos, telecamere Blink e Netatmo, un termostato Netatmo, l’Apple TV, Philips HUE per l’illuminazione e tantissime altre.

Quasi ognuna di queste applicazione può essere controllata da una applicazione dedicata sul mio iPhone. In realtà non uso nessuna di esse dal momento che la mia casa è controllata da una istanza di Home Assistant che vive egregiamente su un Intel NUC con Debian Linux.

Questo non toglie il fatto che per controllare tutti questi sistemi è necessario che Home Assistant chiacchieri con le API dei vari vendor. Naturalmente tutte queste API vivono in cloud ed i vari sistemi sarebbero del tutto inutilizzabili se queste API venissero a mancare.

Riflettevo su questo tema dopo avere letto della chiusura della società Insteon per via di problemi finanziari. Insteon produceva e commercializzava prodotti per l’home automation e si trattava di prodotti di fascia media. Luci, prese, termostati, telecamere, campanelli, serrature e chi più ne ha più ne metta.

Fatto sta che con l’affidamento della società ad un curatore fallimentare tutti i servizi erogati in cloud sono stati sospesi. Gli utenti si sono ritrovati quindi nelle condizioni di non potere più accendere le lui di casa o aprire la porta al postino. Iperbole, ovviamente.

Oramai siamo così tanto abituati ad avere a disposizioni questo genere di servizi che non pensiamo più al fatto che dietro ai servizi c’è una azienda che sostiene dei costi e che deve fare profitti.

Da un lato possiamo immaginare che aziende come Amazon, proprietaria del marchio Blink, Apple con l’Apple TV ed aziende di simili dimensioni siano sufficientemente protette da una catastrofe economica. Su altre la confidenza si abbassa.

Di fatto questa considerazione non è sufficiente dal momento che ognuna di esse potrebbe decidere da un giorno all’altro di discontinuare un prodotto e terminare i servizi ad esso associati.

Questa è la ragione per cui, ad esempio, quando installai il sistema di illuminazione HUE in tutta casa, non sostituii gli interruttori ma mi limitai ad affiancarli a quelli tradizionali. Soluzione inguardabile dal punto di vista estetico ma necessaria per i motivi di cui sopra.

Ed ora i clienti di Insteon cosa faranno? Direi che non hanno molte opzioni a loro disposizioni. Il sistema cui si affidavano era proprietario ed è certamente uno degli asset che il curatore fallimentare cercherà di monetizzare per saldare i creditori. Non esisterà quindi la possibilità che il software che governava la baracca possa diventare Open Source. Allo stesso modo vedo piuttosto improbabile qualsiasi possibilità di fare reverse engineering e costruire qualcosa di parallelo ed alternativo.

Ho il sospetto che il denaro speso nell’acquisto di quei sistemi sia oramai perso per sempre.

Se qualcuno di voi ricorda il carissimo Nabaztag troverà delle similitudini.

Evviva LinkedIn!

Photo by Yogendra Singh on Unsplash

In questi ultimi anni frequento con una certa costanza, ed un certo fastidio, LinkedIn. LinkedIn rimane praticamente l’unico luogo digitalmente sociale che frequento. E’ il luogo dove scrivo questi miei sproloqui senza soluzione di continuità.

Negli anni mi hanno stupito molte cose di LinkedIn:

  • Per quanto si possa provare a cercare in profondità, su LinkedIn sono tutti geni, spesso incompresi, nella loro professione. Davvero, fateci caso. Tutti, me compreso, appaiono come l’emblema del successo e fratelli di sangue dell’oracolo di Delo. Non c’è un cretino nemmeno a pagarlo oro colato.
  • La maggior parte di coloro che hanno un job title eclatante ha seri problemi di muscolatura del collo. Tutti sostengono il mento con la mano. Evidentemente, il mento, non riesce a sostenersi da solo. L’alternativa è la posa di tre quarti con le braccia conserte… Non commento.
  • Tutti commentano su tutto, spesso prendendosi a pesci in faccia. La tua professione è quella di Direttore delle Risorse Umane? Nulla ti vieta di disquisire di fisica nucleare con un altro tizio che ha una laurea in fisica, una in matematica ed un PhD.
  • Corollario al punto di cui sopra sono quelli, e quelle, che scambiano LinkedIn per Tinder. Caratteristica principale dei soggetti è di avere la delicatezza, ed il buon gusto, di un aborigeno. E questo con tutto il dovuto rispetto per l’aborigeno.
  • I CEO che postano foto di quando vanno a fare la spesa e si confondono con gli “inferiori”, per citare Fantozzi.
  • Quelli che pensano di essere una succursale della Doxa e che lanciano un sondaggio dietro l’altro, tutti senza alcun senso per lo più.
  • Quelli che ti scrivono offrendoti un lavoro come Junior Agile Coach senza avere notato che il mio lavoro attuale è quello di Giovane Marmotta. Ops, General Manager. Oh, intendiamoci, io sono perfettamente certificato e se mi dai anche solo lo stesso stipendio che percepisco adesso io vengo subito a fare l’Agile Coach.
  • Quelli che ti scrivono storpiando il tuo nome. Che peste vi colga. Troppi segnali negativi. Record consegnato ad una HR Business Manager che è riuscita a sbagliarlo per tre messaggi consecutivi nonostante i mie vani tentativi di correggerla. Per fortuna si accorse dell’errore e si congedò con “La ringrazio ma non ce la posso fare.”
  • Quelli che scambiano i commenti con su un campo di battaglia dal quale si deve necessariamente uscire vincitori.
  • Quelli che ti chiedono un collegamento e dieci secondi dopo che tu hai accettato provano a venderti qualcosa. Aggravante il fatto che provi a vendermi qualcosa che non ha nulla a che fare con la mia vita professionale. Storico il tentativo di un account manager di una azienda cinese che voleva vendermi un servizio per la produzione di PCB. Ma me lo dici che cosa ti fa pensare che un pinguino che si occupa di design possa avere bisogno di un circuito stampato?
  • Quelli che si propongono per una posizione lavorativa e ti mandano una foto senza veli insieme al curriculum. Sì, mi è accaduto veramente.
  • Quelli che si propongono per una posizione lavorativa ma che vorrebbero approfondire con un pranzo di lavoro ma aggiungono “ma solo per un pranzo di lavoro!”. Ora, mia cara, non ho idea di quali personaggi tu abbia avuto la sfortuna di incrociare nel tuo percorso professionale ma dire che nel caso specifico non lo stai facendo bene. In primo luogo va detto che ogni volta che pubblichiamo un annuncio di lavoro riceviamo tra le cento e le duecento candidature. Se vengo a pranzo con te devo anche andare a pranzo con tutti gli altri per un criterio di equità. Questo significa che dopo sei mesi avrei bisogno di un trapianto di fegato, cosa che tenderei ad evitare. In secondo luogo per quale motivo pensi che io possa chiederti qualcosa in più oltre al pranzo? No, ditemi, rappresento l’immagine del satiro assatanato nel mio profilo LinkedIn. Fatemi sapere, che nel caso prendo provvedimenti. E comunque sì, mi è accaduto anche questo.

E comunque, evviva LinkedIn!

Macbook Pro stand in 3D

Macbook Pro Vertical Stand

In questo fine settimana stavo facendo un pochino di ordine nelle due scrivanie che si trovano nel mio studio. Diciamo che ogni due o tre mesi l’operazione è necessaria perché su di esse si stratificano le tracce dei miei interessi, spesso passeggeri.

Mentre stavo riordinando stavo realizzando che oramai utilizzo il mio Macbook Air quando sono in salotto od in giardino mentre uso il mio Macbook Pro 16″ quando sono in studio. Quest’ultimo ha sempre il lid chiuso dal momento che è perennemente collegato ad un monitor esterno. Data la veneranda età e la condizione di schiena ed occhi preferisco usare il monitor esterno.

Ho notato che lo spazio sulla scrivania ricoperto dal MacBook era un grande spreco e ho quindi preso in considerazione l’acquisto di un uno stand verticale che mi permettesse di posizionare il computer dietro il monitor guadagnando un sacco di spazio.

Ho aperto il mio browser e sono andato a verificare le opzioni disponibili su Amazon. Come ogni volta c’era l’imbarazzo della scelta. Si passava dai più semplici con un costo nell’intorno dei 20 Euro sino a quelli più fighetti con prezzi nell’intorno dei 60 Euro per arrivare a quelli che includono una vera e propria docking station che avevano prezzi decisamente più alti.

Casualmente ho rivolto lo sguardo verso la seconda scrivania e ho messo gli occhi sulla mia stampante 3D. Da quando è arrivata a casa ho stampato un sacco di roba che mi è tornata utile.

Mi sono quindi chiesto perché non potessi stampare il supporto in autonomia sulla mia stampante 3D. Mi sono messo alla ricerca di un modello che mi sembrasse sufficientemente stabile e con un design che non mi bruciasse le pupille.

Qualche minuto dopo ho scaricato il files .STL, lo ho caricato su Ultimaker Cura e ho lanciato la stampa. Il sistema mi dice che ci vorranno circa dodici ore per completare il lavoro. La Flsun Q5 in mio possesso non è un fulmine di guerra ma fa egregiamente il suo lavoro e non mi ha mai deluso. Sto stampando lo stand con del PLA nero non lucido che dovrebbe fare la sua porca figura una volta ultimato.

Ora sono sul divano del mio salotto e sto controllando la stampa dal mio telefono cellulare collegandomi alla webcam che si interfaccia con Octoprint. Molto nerd.

Diciamo che oggi ho risparmiato almeno un quindicina di euro e ho rafforzato la convinzione che ho fatto bene a comperare una stampante 3D.

In realtà ultimamente sto utilizzando la stampante 3D molto spesso. Ci sono piccole cose che mi sono servite in casa come sostegni, ganci, scatolette e cose anche un pochino più grandi che mi sono stampato in autonomia nel mio studio.

Tra l’altro è stato utile per capire come riuscire a farlo con una certa qualità, cosa che non è affatto banale. Non è come una stampante tradizionale dove lanci la stampa e vai a prendere il risultato. In funzione di ciò che devi stampare devi capire quali sono i migliori parametri per ottenere una qualità decente. Tutto sommato mi sono sempre divertito molto.

Stream Deck, una scoperta

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In questi due anni di più o meno grande lockdown mi è capitato di usare quasi ogni strumento di video conferenza creato dall’uomo. Google Meet, Cisco WebEx, Zoom, Skype ed altri di cui non riesco nemmeno a ricordare nemmeno il nome.

Ogni singolo cliente dello studio sembra avere le sue preferenze su questo tema e noi dobbiamo, obtorto collo, adeguarci se vogliamo avere il piacere di guardarci negli occhi.

Dal punto di vista della usabilità questo significa che di ogni applicazione devi capire come configurare microfono, speaker e webcam prima di iniziare la tua riunione. Durante la riunione stessa è invece necessario capire come zittire il microfono, disattivare la webcam, condividere lo schermo, approvare ingressi non invitati, leggere la chat, guardare chi ha alzato la mano per intervenire e via dicendo.

Alla fine mi sono stufato di tutto questo e mi sono comprato un Elgato Stream Deck.

Su questo sistema ho impostato tutti gli shortcut che mi servono durante le conference call e che sono ora a portata di dito. Con la sola pressione di un tasto posso dimenticarmi di dove si trovano i comandi sullo schermo e posso concentrami su quello che ascolto e, sopratutto, su quello che dico.

Mi sono poi detto che il sistema di cui sopra è un pochino overkill rispetto al problema che dovevo risolvere e quindi ho cercato di capire se potessi utilizzarlo in maniera più estesa per migliorare la mia interazione con la macchina che uso in studio.

In effetti è proprio così. Ho mappato le funzioni delle applicazioni che uso più spesso sul sistema ed ora ho migliorato di molto il mio accesso e la mia velocità nell’utilizzo delle applicazione. Dato che posseggo la memoria di un pesce rosso non devo più ricordarmi in quale menu o sotto menu si trova una particolare funzione. Posso guardare lo Stream Deck e la relative icone per avere accesso immediato alla funzione che stavo cercando.

Se è vero che lo Stream Deck nasce per coloro che vogliono fare live streaming e giostrarsi tra una camera e l’altra, lanciare effetti speciali, cambiare sorgenti audio e via dicendo devo dire che è uno strumento talmente versatile da riuscire a prestarsi ad altri usi altrettanto interessanti.

In prima battuta avevo deciso di utilizzare un Raspberry Pi e relativo touch screen da 8 pollici che stava a prendere polvere in un cassetto. Avevo verificato che esistono delle applicazioni che replicano in maniera quasi perfetta la funzionalità dello Stream Deck. Sarebbe stato un progetto interessante ed un risparmio notevole dato che lo Steam Deck non è che sia proprio economico.

Purtroppo dopo avere provato ad alimentare il Raspberry Pi ho scoperto che la permanenza nel cassetto lo ha ucciso e che quindi era inutilizzabile.

Alla fine non ho resistito e ho comprato lo Stream Deck. Sinceramente non avrei immaginato che un oggetto come quello potesse avere un impatto così grande sul lavoro di ogni giorno.

Non è, ovviamente, una cosa strettamente necessaria ma mi ha aiutato molto in queste ultime settimane. E poi è veramente divertente come oggetto.

Diciamo che appartiene alla categoria “gadget da bimbominchia di cui potresti fare a meno” ma una sua utilità ce l’ha.

E’ ovvio che sto cercando di giustificare l’acquisto alla mia coscienza ed al mio portafoglio.

Apple, ma perché?

Photo by Hussam Abd on Unsplash

Ho scoperto che Apple ha inviato un messaggio di posta elettronica agli sviluppatori dicendo che quelle applicazioni che non sono state aggiornate da una “significativa quantità di tempo” verranno rimosse dall’App Store.

In seguito Apple dice che gli sviluppatori avranno 30 giorni di tempo per sottoporre a revisione da parte di Apple una nuova versione della applicazione in modo da evitare la rimozione.

Si può trovare l’annuncio a questa pagina: App Store Improvements

Questo è il razionale secondo Apple:

To make it easier for customers to find great apps that fit their needs, we want to ensure that apps available on the App Store are functional and up-to-date. We are implementing an ongoing process of evaluating apps, removing apps that no longer function as intended, don’t follow current review guidelines, or are outdated.

Allora, questi ragazzi di Apple sono decisamente bravi ma in quale occasione ho il sospetto che facciano delle cavolate fuori dal mondo. Questa è una di quelle.

Ora, io posso anche capire che la quantità di applicazione pubblicate sull’App Store sia oramai diventata talmente grande da disorientare qualsiasi utente alla ricerca di qualcosa ma non capisco perché il criterio debba essere la data di aggiornamento della applicazione.

Ci sono applicazione che non necessitano affatto di essere mai aggiornate. Assolvono il compito per il quale sono state scritte e lo fanno bene. Lo sviluppatore le lascia come sono senza cercare di aggiungere funzionalità che la maggior parte degli utenti non userà mai.

Se penso a questo aspetto dal punto di vista dello sviluppatore mi sembra una buona cosa. Può lasciare la sua applicazione sull’App Store e continuare a guadagnare mentre può dedicare il suo tempo a produrre qualcosa di nuovo piuttosto che spendere tempo aggiornando qualcosa che era già perfetto. E’ perfettamente sensato.

Ad Apple questa cosa non va bene.

Il mio sospetto è che sia molto più semplice ripulire l’App Store in basa alla data, e quindi in maniera totalmente automatica, piuttosto che avere un enorme squadrone di pinguini umani che entrano nel merito di ogni singola applicazione. Si tratta quindi di un problema in casa Apple che viene ribaltato paro paro sugli sviluppatori. Per nulla bello e senza contare il fatto che quegli sviluppatori portano a casa di Apple una valanga di dollari in contanti.

40 anni di ZX Spectrum

By Self-made, Fair use, https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=3109532

Salto nel passato questa mattina.


Il mio flusso di notizie oggi mi informa che lo ZX Spectrum compie quarant’anni. 

Su questo computer ho speso ore ed ore nella mia infanzia. Su quel computer ebbi il mio primo contatto con i giochi di avventura trascorrendo un numero infinito di ore giocando e rigiocando con “The hobbit”. Quel gioco fece crescere in me una insana passione per i giochi di avventura.

Su quel computer continuai a scrivere del codice dopo avere cominciato con i suoi predecessori, ZX 80 prima e ZX 81 dopo. Cominciai con il suo Basic e poi, lentamente, mi spostai sull’Assembler e fu un grande avventura conoscitiva.

Da un conoscente tedesco riuscii a trafugare le fotocopie del disassemblato della ROM dello ZX Spectrum. Quelle fotocopie le studiai profondamente tanto che la rilegatura si squadernò dopo poche settimane. Pagine dense di appunti e di considerazioni che, purtroppo, sono andate perdute, probabilmente in uno dei tanti traslochi.

Lo studio di quello pagine mi fece nascere la passione per il software che era in grado di “parlare” con l’hardware e che poi, nel tempo, continuò con lo studio dei device driver su Unix. A me questa cosa che scrivendo un o più byte in una specifica locazione di memoria si poteva fare accadere qualcosa nel mondo fisico mandava fuori di testa e mi riempiva di eccitazione.
Devo molto a questo computer per quello che sono oggi, così come devo molto al Commodore Amiga 1000 che mi introdusse alle infinite meraviglie del linguaggio C.


Sì, con quel sistema mi divertii davvero molto.

Alla ricerca del CEO perduto

Photo by Dan Meyers on Unsplash

E’ notizia recente che Sandy Speicher, CEO di IDEO, abbandonerà il ruolo nell’immediato futuro dopo poco più di tre anni nel ruolo.

Sul sito di IDEO non trovo traccia dell’annuncio ma dal sito PRNewswire leggo questa affermazione:

IDEO, the global design and innovation company, today announced that by mutual agreement, Sandy Speicher has stepped down as Chief Executive Officer (CEO), and will be leaving the company. Paul Bennett, Chief Creative Officer, and Tim Brown, Executive Chair are assuming the responsibilities of interim co-CEOs in addition to their existing roles. They will lead a transition team with a mandate to design the next evolution of IDEO.

Direi, per esperienza diretta, che in questa frase c’è tutto.

Fare il CEO, od il General Manager, di una azienda non è di per sé un compito facile. Farlo di una azienda di design è ancora più complesso e delicato.

Sono fermamente convinto del fatto che farlo in un ambiente altamente tossico non sia possibile per una quantità di tempo superiore a quella dell’ex CEO di IDEO.

L’annuncio, in perfetto stile corporate, è molto equilibrato. Ci siamo lasciati di comune accordo anche se nella realtà ci siamo presi a pesci in faccia negli ultimi tre mesi. La transizione viene affidata al Chief Creative Officer perché, ricordatevi bene, questa è una azienda di design ed il CEO ce lo abbiamo giusto perché ce lo dobbiamo avere ma in realtà non conta una beata fava. E comunque stiamo cercando di capire quale è il passo successivo per l’evoluzione della azienda che altro non significa che rimarremo tali e quali sino al momento in cui non saremo in grado di sradicare la cultura tossica che ci pervade.

Già letto, già sentito e, sopratutto, già vissuto, purtroppo.

Uno studio di design è un organismo complesso da gestire. Lo è ancora di più nel momento in cui un qualsiasi studio supera le dimensioni di circa 30/40 persone. Credo che in Sketchin tutti ricordino una mia affermazioni, purtroppo poco delicata, ma che riporto fedelmente: “Qualsiasi studio di design più grande di trenta persone genera stronzi.”

Ne sono ancora assolutamente convinto.

E’ molto facile che superata quella dimensione si inneschino dinamiche molto poco virtuose che possono facilmente condurre ad un ambiente tossico, altamente tossico. A tutti è ben chiara la centralità della figura del designer all’interno di uno studio di design. In fin dei conti ai nostri clienti vendiamo proprio quella figura e le sue competenze.

Se sei parte di uno studio di design con un ben determinato pedigree da un lato e se sei gasato dal fatto che il design si è spostato dai confini dell’impero alle stanze dei bottoni, farsi prendere dall’entusiasmo è un attimo. Ti senti al centro del mondo e ti convinci di essere il salvatore della patria, deus ex machina che scende tra i comuni mortali a risolvere i problemi del mondo.

Ed ecco che il tuo ego deborda e concima il terreno per la crescita della cultura tossica. E questo sopratutto se, alla fine, un grande designer non sei ma stai solo cavalcando l’onda. Nani sulle spalle dei giganti.

Secoli professionali fa ero alla ricerca di un nuovo studio perché stavamo crescendo a dismisura e lo spazio fisico non bastava più. Naturalmente il mio capo di allora mi chiese il classico “business case” per mettere a budget i costi del nuovo studio. Nota a margine: i designer fanno i fighi ma i soldi per permettergli di fare i fighi li devono cercare il CEO ed il GM, mica loro. Fatto sta che nelle mie proiezioni di crescita stimavo circa 90 persone. Al mio capo mandai una ipotesi di uno studio che potesse contenere 180 persone. Era una provocazione. Mi chiamò pochi minuti dopo avere inviato quel messaggio di posta elettronica:
“Alessandro, perché 180 persone se stai proiettando un headcount di 90 persone nei prossimi dodici mesi?”
“Perché mi serve spazio per ospitare 90 persone insieme al loro ego”

Per un general manager l’ego è la cosa più difficile e complessa da gestire.

Attenzione, non voglio affatto sminuire il lavoro del designer. Sono assolutamente persuaso del fatto che con il design si possa cambiare il mondo. Deve essere, però, un design sano e non viziato e corrotto da ego, interessi personali e politica.

Gran parte del mio lavoro è cercare di fare capire alle persone che lavorano con me che il lavoro di tutti è importante. Non potrai fare il tuo lavoro di designer se non c’è qualcuno che tiene in piedi i nostri sistemi, che si occupa della contabilità, che porta a casa i progetti su cui lavorerai e via discorrendo.

Il nostro non è solo uno studio di design, è un ecosistema complesso che produce valore per i nostri clienti sotto forma di design.

Questa è la chiave di lettura sana e questa è la direttrice che ogni general manager di uno studio di design dovrebbe perseguire.

Quando lo racconto non ci crede nessuno ma fare il general manager di uno studio di design è un lavoro che ti consuma lentamente ma inesorabilmente. Oh, diciamo la verità, sempre meglio che andare ad avvitare bulloni in fabbrica o estrarre carbone in miniera. Mi sento comunque un privilegiato rispetto a tanti altri lavoratori.

Sei continuamente alla ricerca di un equilibrio tra la necessità di recuperare i fondi necessari per pagare gli stipendi alla fine del mese e creare il miglior ambiente dove si possa praticare design.

Non è un esercizio semplice.

In un certo qual modo è la classica lotta tra il cervello destro e quello sinistro che convivono nello stesso organismo e che si devono coordinare per farlo sopravvivere.

Quando una delle due parti si attiva per produrre tossine il general manager deve assumere la forma del sistema immunitario ed inviare i globuli bianchi a distruggere la tossina. Il più velocemente possibile, prima che la tossina possa aggredire in maniera irreparabile l’organismo. Questo ti rende impopolare, molto.

Naturalmente qualche tossina sfugge al controllo del sistema immunitario e comincia a minare l’integrità dell’organismo. Questo significa che il mio lavoro non è perfetto, non ho mai preteso che lo fosse.

E questo, sì, significa che anche da noi ci sono degli stronzi. E’ inevitabile.

Il sistema immunitario permette di identificarli e, prima o poi, di liberarsene più o meno “spintaneamente“.

Concludendo, cara Sandy, non sai quanto ti capisco in questo momento. In bocca al lupo. Vedrai che andrà meglio. Garantito al limone.

Sensazione

Photo by Alberico Bartoccini on Unsplash

In queste ultime settimane la guerra in Ucraina campeggia su tutti i media con grande dovizia di particolari. Tutto sommato mi sembra giusto dato che in buona sostanza è un affare che sta dietro la porta di casa nostra.

Quello che mi lascia un pochino perplesso è il fatto che dello stato della pandemia si parla veramente poco e, almeno io, faccio fatica a capire a che punto siamo.

Da un lato c’è un rilassamento dei vincoli. Lo scorso fine settimana il lago è stato invaso dai turisti. I ristoranti erano pieni all’inverosimile e la sensazione generale era che della pandemia non si ricordasse nessuno.

Immagino che la situazione fosse del tutto simile in altre località di villeggiature o nelle grandi città.

Mi sembra che il grande desiderio di normalità si sia trasformato in una falsa sensazione di sicurezza. Qualcosa del tipo “passata la festa, gabbato lo santo”.

Eppure uno sguardo veloce ai numeri dei contagi racconta un’altra storia. Il virus non sta affatto scomparendo. Nella giornata di ieri si sono sfiorati i 100.000 nuovi contagi. I ricoverati aumentano ed i morti sembrano essersi da tempo attestati nell’intorno delle 150 unità.

Se guardo questi numeri io non mi sento affatto al sicuro. Alla fine ho deciso che continuerò a mantenere l’approccio dei mesi passati. Cercare di ridurre al minimo i contatti sociali, continuare ad indossare la mascherina e via dicendo.

Da un lato si tratta forse di un approccio integralista e dall’altro mi sento ancora personalmente minacciato dalla eventualità di un contagio.

E’ vero che molte delle persone che sento contagiate sembrano manifestare sintomi lievi ma non vorrei finire nel cluster di quei 150 morti di cui si legge ogni giorno.

La mia personale sensazione è che non ne siamo ancora fuori.

Mi stupisce anche il rilassamento delle misure di prevenzione. Si parla anche di abolire le mascherine al chiuso a partire dal 1 Maggio.

Credo che nessuno possa dire che oramai ci siamo un pochino rotti le scatole delle limitazioni. Sono due anni che ci troviamo in una situazione critica con misure più o meno limitanti. Tutti proviamo il desiderio di ritornare ad una vita normale o, se non altro, ad una nuova normalità che dobbiamo costruire.

Mi domando solo se sia davvero arrivato il momento di abbassare la guardia spinti dalla repulsione verso qualsiasi limitazione.

Al di là delle raccomandazioni e dei divieti rimani comunque la possibilità di una scelta personale, come quella che ho fatto io.

Non desidero imporre nulla a nessuno, ovviamente.

La ricetta perfetta

Photo by Kara Eads on Unsplash

Non esiste la ricetta perfetta, se non nella teoria della ricetta stessa. Allo stesso modo non esiste nella realtà il concetto di “one size fits all”.

Quando eseguiamo una ricetta seguiamo una serie di passi che da un insieme di ingredienti ci conduce ad un piatto. La ricetta è una guida che dovrebbe permetterci di arrivare in fondo ottenendo lo stesso medesimo risultato cha ha ottenuto chi ha scritto la ricetta.

Chiunque ha mai messo mano ai fornelli sa benissimo che questo non è vero. Il risultato finale che otteniamo è sempre diverso da quello atteso e da quello che chi ha redatto la ricetta ha ottenuto.

L’aspetto, i colori, il sapore sono diversi.

Pur seguendo passo dopo passo tutti i passaggi della ricetta non otteniamo lo stesso risultato.

Questo perché il contesto è diverso. Sono diverse le temperature e l’umidità nei locali nei quali noi replichiamo la ricetta, sono diverse le materie prime che utilizziamo, sono diverse le quantità quando queste non sono bene specificate, sono diversi gli strumenti che usiamo per aggregare gli ingredienti, è differente la diffusione del calore nei vari tegami.

Potrei continuare all’infinito.

E’ quindi diverso il contesto in cui la ricetta si applica ed il naturale risultato è che otteniamo qualcosa di diverso.

Che cosa ci porta ad ottenere comunque un buon risultato? Direi che il primo discriminante è la conoscenza del nostro contesto. Sapere come si comportano i nostri ingredienti, le nostre pentole ed il nostro ambiente. Il secondo discriminante è l’esperienza che abbiamo accumulato e che ci permette di fare in modo che il contesto si adatti a quello che desideriamo ottenere.

La ricetta è quindi una linea guida che deve essere adattata al contesto in cui essa viene eseguita.

Non esiste quindi la ricetta perfetta.

Ho usato questa metafora per dire che non è possibile replicare un progetto di successo ad un contesto simile senza adattarlo alle nuove condizioni.

Avere condotto una serie di progetti di successo serve solo ed esclusivamente a garantire il fatto che hai ottenuto sufficiente esperienza per riuscire a superare i problemi che incontrerai nel nuovo contesto.

Se parliamo di digitale, o di design in senso più lato, la metafora continua a tenere.

Ci vuole pensiero, sempre. Non dobbiamo essere dei bravi esecutori ma dei pensatori dal cervello fino e le scarpe grosse.

Strumenti

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Nel corso degli ultimi anni ci sono tre cose che oramai sono parte integrante del mio metodo di lavoro sia per questioni professionali che personali.

Del primo ho già parlato diffusamente in un altro paio di scritti. Si tratta di Obsidian che è oramai il fulcro di tutte le mie note. ha soppiantato grandemente Evernote che ho anche smesso di pagare e disinstallato dalla mia macchina, così come altre applicazioni che usavo per prendete appunti. Draft in passato, Notion recentemente.

Trovo che Obsidian si adatti perfettamente al mio modo di pensare e di lavorare. E’ una applicazione gratuita e la quantità di plugin che sono oramai disponibile è talmente ampia da potere soddisfare le necessità della maggior parte degli utenti.

Il secondo oggetto cui non posso rinunciare è Remarkable 2. Questo è un oggetto preziosissimo perché nella mia natura non riesco a prendere appunti durante una riunione di persona senza scrivere con carta e penna. Remarkable 2 mi permette di prendere appunti in forma digitale pur riuscendo a non farmi sentire affatto la mancanza di carta e penna. E’ difficile descrivere quanto sia efficace se non avete avuto modo di provarlo direttamente. Quello che posso dirvi è che io sono un fanatico di carta e penna. Sono davvero un feticista sia per l’uno che per l’altra e per riuscire a convincermi ad abbandonare carta e penna ci voleva davvero uno strumento straordinario. Il fatto che poi tutto sia sincronizzato online su tutti i miei oggetti mi permette di avere sempre a portata di mano i miei appunti. Funzionalità che uso di meno ma che funziona con una certa qualità è la trasformazione dei miei appunti in testo. Nonostante la mia calligrafia sia piccina si riesce comunque ad avere una qualità sufficiente per essere utilizzata.

Il terzo, ed ultimo, oggetto che non manco mai avere con me è un taccuino di carta per gli appunti ed una penna. Questo mi segue ovunque vado e mi torna utile quando non posso mettere le mani sul mio computer o sul mio Remarkable 2. Dopo anni di esperimenti diversi ho trovato quello che per me funziona. Sono piccoli blocchi per appunti in formato A5. In genere porto con me il blocchetto appena terminato, quello corrente ed uno nuovo. Il tutto è raccolto in un contenitore di pelle di Paper Republic. Questa piccola azienda austriaca produce delle cose bellissime. A me piace il fatto che questo raccoglitore di pelle invecchia con me. Ci sono piccoli graffi sulla superficie, la pelle si è ammorbidita con il tempo e la qualità è eccelsa. Ogni tanto la nutro con qualche prodotto specifico e torna al suo splendore originale. Anche i notebook sono di Paper Republic. Ottima qualità della carta e molto robusti.

Insieme al notebook di Paper Republic uso una penna stilografica Kaweco Liliput che è piccolissima e di grande qualità. La sua dimensione si adatta perfettamente alle dimensioni del notebook e la qualità del tratto è di sufficiente qualità per soddisfarmi.

Carriera

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Qualche giorno dopo avere compiuto cinquantacinque anni e, incidentalmente, con l’arrivo della Pasqua che, in un certo qual modo, è un momento di rottura mi ritrovo a fare qualche considerazione sullo stato della mia carriera.

Ripenso a tutto il percorso che ho fatto in questi ultimi 31 anni di lavoro e mi rendo conto di essere stato molto fortunato.

Ero appena tornato dal mio anno di servizio militare quando lessi un annuncio sul Corriere della Sera. Internet non esisteva ancora, almeno non nella forma che conosciamo oggi. Risposi a quell’annuncio inviando il mio allora scarno curriculum. Sono sincero. Non avevo grandi aspettative di successo. Come dicono gli americani era un “long shot”.

Mi ritrovai a fare un colloquio dove parlai della mia esperienza con Unix System V e scoprii solo allora di avere preso la strada giusta. Non c’erano molte persone che avevano le stesse conoscenze allora. Fui assunto.

In quel momento, il 1 Febbraio 1991, cominciò la mia carriera.

Devo dire che sono sempre stato molto fortunato. Sulla mia strada ho sempre incontrato delle persone molto preparate. Persone che non hanno mai esitato a condividere con me le loro conoscenze e la loro esperienza. Forse allora c’era molta meno politica nel mondo tecnico e per questa ragione posso dire che i miei primi anni di lavoro sono stati anni di pura formazione.

In quegli anni mi sono veramente divertito molto ed ho imparato tantissimo. Sono tuttora convinto che la conoscenza di basso livello di Unix mi abbia condotto ad una approccio definitivamente sistematico all’informatica. Ancora oggi penso che quelle conoscenze mi permettano di navigare con una certa sicurezza nel mare magno di tecnologie che abbiamo oggi a disposizione.

Ero comunque molto ambizioso, almeno nei primi anni. Sì, l’aspetto tecnologico mi attirava in maniera esagerata ma quando potevo andavo a ficcare il naso nelle offerte che facevamo ai nostri clienti, nelle strategie di marketing della casa madre, nelle politiche di vendita e di pricing. Ero convinto che una cosa non potesse esistere senza l’altra.

Ho speso quasi dieci anni in quel contesto e poi, cosa che ha caratterizzato tutta la mia carriera, ho preso una direzione diversa.

Sono passato da una grande azienda che produceva hardware ad un’altra che si occupava di lettori di codici a barre e di terminali portatili. Mi affascinava l’idea del piccolo. Un piccolo computer che potevi tenere in mano e che poteva leggere codici a barre. In una seconda fase si cominciò a parlare di comunicazioni Wireless ed anche quella fu una grande occasione.

In quegli anni comprai il mio primo telefono cellulare e mi dissi che quella tecnologia era una figata pazzesca. Non più tardi di qualche mese dopo ricevetti una telefonata da parte di un head hunter che mi raccontava di una nuovo azienda di telecomunicazioni appena nata. Non indugiai un attimo e nel corso di tre colloqui nello stesso pomeriggio accettai l’offerta.

Un altro cambiamento radicale nel lavoro che avrei svolto.

Lì dentro feci delle cose altrettanto fighe. Quello dove lavoravo era uno dei pochi operatori di telefonia mobile che disegnava parte dei propri terminali mobili ed accessori. Fu allora che cominciai ad interessarmi di design e capii quanto questo elemento fosse cruciale per l’utente finale.

E poi un’altra inversione a u. Passai a fare il general manager di una grande azienda di design americana famosa per avere progettato, tra le altre cose, il design language “Snow White” per Apple ed il Sony Trinitron. Anche in quel caso accettai senza indugi. Con il senno di poi posso dire che non fu una grande idea. Sono stati i tre anni più difficili per la mia carriera e, se da un lato ho imparato molto, dall’altro ho sofferto altrettanto.

E poi una chiacchiera con Luca ed il mio passaggio in Sketchin. In un certo qual modo un’altra inversione a u. Uscire da uno studio affermato per entrare in uno studio piccolo ma di grande talento e con tanta voglia di crescere.

Questa sì fu una scelta giusta e, di fatto, ho speso in Sketchin più tempo di quanto non abbia mai speso in nessuna altra azienda. Sono sempre stato molto irrequieto ma qui credo di avere trovato la mia dimensione ideale.

Oggi sono molto meno ambizioso e non mi curo molto della politica che mi circonda.

Se guardo con attenzione la mia carriera è sempre stata come una corsa su un otto volante. Ho preso del tempo una serie di decisione che con il senno di poi potrebbero essere considerate ad alto rischio. E’ vero. Ho sempre scelto con la pancia da un lato e con il desiderio di divertirmi dall’altro.

Alcune scelte le ho pagate, alcune molto care. Eppure non le rinnego. Probabilmente le rifarei senza pensarci un attimo. Sono stato fortunato, molto. Le cicatrici che ho accumulato negli anni mi hanno condotto qui e quando le osservo oggi, sorrido.

Le mie persone

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Data la posizione che ricopro in Sketchin mi capita spesso di incontrare persone che ricoprono posizioni apicali all’interno delle loro organizzazioni. In questi incontri mi lascio sempre andare all’ascolto ed all’analisi del loro approccio nei confronti del lavoro che svolgono.

Una delle cose che mi colpisce maggiormente, in negativo, è l’uso della espressione “Le mie persone”.

Quando la sento proferire la tentazione è sempre quella di rivoltare gli occhi ed esclamare “Vade retro!”.

Ora se da un lato è vero che molte aziende sono organizzate come un esercito è altrettanto vero che lo schiavismo, ed il possesso di schiavi, è stato abolito parecchio tempo addietro.

Quando parlo del mio lavoro con altre persone del mio lavoro il mio approccio è sempre quello dell’understatement. Generalmente dico sempre che “Mi occupo di design per uno studio Svizzero.”. Non sento la necessità di fare show off del mio job title. Se la persona con cui sto parlando ne vuole sapere di più c’è Google pronto a dargli una mano.

Allo stesso modo io parlo sempre “delle persone che lavorano insieme a me.”

In fondo siamo tutti sulla stessa barca.

La metafora più prossima è quella dell’orchestra sinfonica. Tu potrai anche essere il migliore direttore d’orchestra dell’universo creato ma la bacchetta con la quale dirigi non produce alcun suono. Senza i musicisti non saresti in grado di eseguire nessun pezzo. E loro sono i musicisti che suonano con te, non sono “i tuoi musicisti”.