Sono oramai decine d’anni che per una ragione o per l’altra mi trovo a fare colloqui alle persone che potenzialmente potrei assumere. In realtà in questi ultimi anni molto meno che non in passato dato che prima di arrivare da me passano per altri canali.
Va detto che noi lavoriamo in un universo molto verticale in cui le competenze tecniche sono molto facili da determinare e valutare.
Quello che ho sempre dato per scontato quando ho intervistato qualcuno è che le sue competenze tecniche fossero presenti e della qualità che viene richiesta dai nostri standard.
Per questa ragione quanto intervisto qualcuno mi focalizzo su altre cose.
Voglio capire chi è la persona che ho davanti a me.
Per questa ragione credo che spesso i candidati non si trovino perfettamente a loro agio quando parlano con me. Si sono sicuramente preparati per un colloquio standard e si trovano davanti uno che gli chiede quali sono i titoli che ha nella libreria che ha dietro le spalle e che vuole sapere per quale motivo li hanno comprati e cosa gli hanno lasciato.
Cosa fai nel tuo tempo libero quando non lavoro e perché. Con quanto coraggio sei disposto a difendere una posizione?
Voglio sapere che cosa ti farebbe dire di no ad una azienda, per quanto prestigiosa, o che cosa ti farebbe dire di sì saltando di gioia anche di fronte ad una struttura traballante.
Mi piace capire se hai il coraggio di interrompermi e dirmi che ho appena detto una sciocchezza. Voglio capire se hai il coraggio di negoziare sino allo sfinimento il tuo ingresso da noi.
Vorrei capire che cosa ti spinge a superare i limiti? Qual’è la passione che ti muove e, in ultima analisi, per quale motivo vuoi, davvero, venire da noi?
Insomma, mi piace sondare i limiti e la cultura della persona che ho davanti. A noi serve un pirata, non un marinaio.
Quando poi si tratta di colloqui che sostengo io, rarissimi negli ultimi dieci anni dato che tendo a rimbalzare la qualunque, tendo ad essere estremamente aggressivo. Perché mi hai chiamato? Perché pensi che io possa essere adatto alla tua azienda e cosa può offrirmi la tua azienda, non economicamente, che oggi io non ho? Insomma, sono un pochino stronzo, ma questo me lo dicono tutti.
E’ vero che Corrente Debole ricopre un ruolo abbastanza importante nella mia vita online e credo che chiunque abbia a cuore il valore di ciò che scrive, e condivide, dovrebbe avere qualcosa di simile.
Poco importa quale sia la tecnologia che viene usata. Quello che conta è che si abbia a disposizione un luogo del quale si ha il completo controllo.
Corrente Debole è casa mia e proseguendo lungo la metafora dell’edificio è un luogo che io ho acquistato. Ho affittato uno spazio fisico su un server da qualche parte nel mondo che posso riempire di tutto quello che desidero. Nel caso in cui venissi sfrattato da questo luogo ne potrei trovare facilmente un altro nel giro di pochi secondi.
Con Corrente Debole sono stato molto fortunato. Insieme allo spazio fisico ho potuto comperare anche un indirizzo, https://correntedebole.com che è mio e solo mio, almeno sino al momento mi ricordo di rinnovare il dominio.
E’ vero, qui dentro sono ospitate solo delle parole, ma sono le mie parole ed io ci tengo molto. Avrei potuto evitare di spendere quei pochi euro al mese per avere una casa tutta mia e scrivere altrove. Le alternative non mancano. Medium, LinkedIn, Facebook, WordPress. Ci sono decine di luoghi online in cui viene permesso di depositare i propri pensieri. Molti di questi non hanno alcun costo associato.
Non li uso perché non sono casa mia.
In casa mia posso fare tutto quello che desidero senza dovere rendere conto a nessuno. Posso scrivere qualsiasi cosa senza temere di contravvenire ai termini e condizioni validi in casa d’altri. Oltre a questo c’è da considerare il fatto che tutti gli altri luoghi sono legati ad aziende il cui fine è quello di guadagnare del denaro. Come tutte le aziende, oggi ci sono, domani chissà. Se una azienda chiude e dentro quella azienda ci sono le mie parole, le perderò per sempre. Fino a che potrò permettere di spendere quei pochi euro che mi permettono di mantenere viva questa baracca le mie parole sono al sicuro tra le mura di casa mia.
Se è vero che una casa è la rappresentazione materiale del carattere della persona che la abita è vero che Corrente Debole è una rappresentazione di me stesso verso l’esterno. C’è veramente molto poco che non ho scritto quando volevo, per lo più questioni decisamente molto private che avrebbero avuto scarsa rilevanza nel quadro generale. In questo senso casa mia è semplice e non c’è pubblicità o altro che ne inquina o altera il contenuto.
E’ una casa semplice, volutamente.
Se varchi la soglia di ingresso trovi un ambiente semplice e, mi auguro, accogliente. Entri, ti siedi, prendi un caffè e prosegui per la tua strada. Questo è il senso di Corrente Debole.
In casa d’altri questa dinamica spesso non è possibile perché prima di raggiungere il caffè devi superare una serie di ostacoli che sono tesi a fare guadagnare quattrini al padrone di casa. Qui il caffè lo offro io.
Della mia casa posseggo le chiavi e solo io posso entrare in quelle stanze che sono precluse al resto del mondo. Qualche malintenzionato prova costantemente a forzare la serratura ma, sino ad ora, senza successo. Anche quando riuscisse ad entrare sappia che della mia casa posseggo i progetti e posso costruirne un’altra identica in una decina di minuti. Anche dei mobili, ovvero le mie parole, posseggo delle fotografie e posso replicarli in tempo zero in caso di necessità. Non capisco per quale motivo stai provando ad entrare in casa mia. Non credo che ci sia nulla di valore per te. Per me c’è un sacco di valore, ma non è il valore che tu vai cercando.
Questa casa non è un albergo. Questo significa che ci puoi entrare, e rimanere, senza dovere sostenere il costo di una camera. Questo è un luogo dove io vivo e che non mi serve per mettere il pane in tavola la sera. Per questa ragione a casa mia non c’è pubblicità e non tento di venderti niente. Può capitare che ti dica quanto sia contento del macinacaffè che ho appena comprato ma solo perché è la pura e semplice verità. Non ho bisogno di venderti il macinacaffè.
Ogni tanto casa mia è chiusa perché vado in vacanza. Non ti preoccupare, le vacanze non durano per sempre. Tornerò.
Corrente Debole durerà sino a che durerò io. Poi non sta a me decidere che cosa succederà di questa casa. Credo debba scomparire con me e vivere nel ricordo di chi si è fermato per un caffè. Poco importa.
Tutto questo per dire che credo che tutti dovremmo avere un dominio di proprietà su internet ed uno spazio che sia solo ed esclusivamente di nostra proprietà.
In queste ultime settimane sto giocherellando con Unity scrivendo un pochino di codice da fare girare sul mio Oculus Quest 2.
Alla fine mi sono risolto ad usare Unity al posto di Unreal Engine, nonostante la versione 5 di quest’ultima sia spaventosamente potente, essenzialmente per due ragioni. La prima è che mi trovo molto più a mio agio con C# che con C++ e la seconda è che non voglio certo diventare un indie developer di giochi. Quindi se è vero che Unreal Engine sembra essere molto più potente di quanto non sembri Unity alla versione attuale è altrettanto vero che sono una pippa in entrambi gli ambienti e quindi non sarei comunque in grado di sfruttarne appieno le potenzialità.
La prima cosa di cui ti rendi conto dopo avere installato lo Unity Editor è che hai appena installato un mostro. Hai appena occupato quasi sei gigabyte di spazio su disco e sei solo all’inizio.
Lanci lo Unity Editor e ti si apre una finestra tutto sommato accogliente. Pensiamo ad esempio a cosa si vede quando si apre per la prima volta Blender e ci possiamo fare una idea della differenza. La semplicità è solo apparente perché da qui in avanti le cose si complicano, specialmente sei vuoi sviluppare per Oculus Quest.
Ti rendi subito conto che sviluppare giochi non è una cosa banale. Esattamente il contrario. C’è una enorme complessità di programmazione e design anche dietro al più semplice gioco che sia stato scritto.
Dopo circa un’ora capisci che da solo non ne vieni fuori perché la complessità è troppo elevata. YouTube non si adatta a me per questo genere di cose e quindi mi dirigo verso qualche libro. Dopo qualche ora comincio a comprendere i concetti fondamentali e riesco a mettere insieme qualche oggetto che si muove non di vita propria ma per mia volontà.
La documentazione di Unity è tutto sommato ben fatta ma è ben evidente che è stata scritta per qualcuno che già maneggia con una certa maestria le segrete cose. Anche gli esempi sul repository GitHub di Unity sono piuttosto datati. Sono comunque utili se riesci a capire come il sistema sia evoluto negli anni. Una cosa per tutte, ma fondamentale. Recentemente Unity è passato ad un nuovo input system completamente diverso da quello precedente ed assolutamente incompatibile a livello di codice. Questo rende tutti gli esempi datati assolutamente inutilizzabili.
Ci si rende conto che Unity è un prodotto in continua evoluzione e cambiamento. Certo, un suo nucleo rimane sufficientemente stabile ma la periferia cambia di continuo. Da quando ho installato Unity la prima volta ho già notato due aggiornamenti. Anche tu che stai imparando devi quindi abituarti a capire che cosa è cambiato da una versione all’altra.
Presa una certa familiarità decido di fare una cosa che ritenevo semplice: riprodurre in tre dimensioni il mio appartamento e fare muovere un attore in FPS all’interno dandogli la possibilità di interagire con gli oggetti che lo circondano.
Dopo tre ore capisco che il progetto è ambizioso. Forse troppo.
In primo luogo capisco che oltre ad essere una pippa con Unity sono anche una pippa nella modellazione 3D. Fortunatamente scopro che esiste un package gratuito che si chiama ProBuilder che mi può aiutare. Subito dopo ti rendi conto di quanto lavoro sia necessario per modellare un ambiente in tre dimensioni. Dopo quattro ore di lavoro questo era il punto dovere ero arrivato.
Ora capisci il motivo per il quale sono necessari anni per lo sviluppo di un gioco complesso e capisci anche per quale motivo la produzione di un gioco possa superare il costo di una produzione cinematografica.
Alla fine decido che non voglio spendere troppo tempo a modellare e voglio scrivere un pò di codice. Rimango con la stanza immersa nel vuoto che vi ho mostrato poco sopra.
E qui comincia lo studio di vettori, quaternioni, rigid body, collider, shader, interactable, differenza tra Update e FixedUpdate e via verso un universo che sembra non finire mai e probabilmente è così.
Dopo circa due giorni di studio e di sudore riesco a compilare la mia applicazione e scaricarla sul mio Oculus Quest. Finalmente posso vedere il mio personaggio muoversi con una certa eleganza all’interno della stanza. Riesco a fare visualizzare le sue mani che seguono il movimento dei controller e sono in grado di interagire con il mondo fisico. Si possono aggrappare alla ringhiera delle scale, possono premere l’interruttore sulla parete per accendere e spegnere la lampada e possono raccogliere una palla di gomma da terra e lanciarla contro il muro.
Diciamo che tutto sommato è stato tempo ben speso per potere avere una prima impressione delle potenzialità di Oculus e per avere una idea della complessità dello sviluppo su quella piattaforma.
L’unica cosa che non mi piace è che lo sviluppo su Mac è un palla perché la simulazione di Oculus funziona solo su sistemi Windows. Per questo devi compilare la tua applicazione, mandarla su Oculus, inforcare Oculus e vedere cosa succede. Io che porto gli occhiali soffro molto senza contare il fatto che su Oculus non puoi vedere i messaggi di debug sulla console. Per questo mi sono risolto a scrivere qualche riga di codice che si collegasse ad un server UDP sul mio Mac per ricevere via rete gli eventuali messaggi di errore.
La cosa che mi fa impressione è che la cartella che contiene questo progetto contiene quasi sessantamila files ed ha una dimensione di quasi sette gigabyte.
Sino ad ora è stato tutto piuttosto divertente ed ho sicuramente imparato qualcosa di nuovo. Non ho idea di quanto tutto questo mi possa servire in futuro ma credo che imparare sempre cose nuove sia fondamentale.
Mi chiedi un collegamento su LinkedIn ed in genere non sono solito rifiutarlo perché in rarissime occasioni salta fuori anche qualche conversazione piacevole.
Passa un minuto e mi scrivi offrendomi non so quale prodotto o servizio. Oltretutto usando un tono che nemmeno il mio testimone di nozze.
Davvero, basta.
Metto il naso su Facebook per autorizza il mio Quest 2 ed arrivano richieste di contatto di ragazze in abiti succinti che desiderano parlarmi. Ora, lasciatemi dire, non sono un adone ed è piuttosto difficile che una ragazza con quelle foto nel profilo non trovi altro pretendente che non sia io.
Davvero, basta.
Mi bombardi di messaggi sul mio blog offrendomi vantaggiose collaborazioni come se il mio blog parlasse ogni tre per due di digital marketing. Quindi non hai nemmeno letto quello che scrivo. Al di là del fatto che sei uno script kiddie e stai semplicemente sparando nel mucchio.
Davvero, basta.
Io sono stanco di tutta questa pletora di persone che vorrebbero essere amici miei.
Davvero, basta.
E a te che sono tre giorni che stai cercando di entrare in uno dei miei server che, apparentemente, ti trovi in Nigeria ma potresti anche essere seduto di fianco a me al bare dico solo una cosa.
Davvero, basta.
Non ce la fai ad entrare e ad occhio e croce non sai nemmeno quello che stai facendo a giudicare da quello che stai tentando di fare. Per tua informazione, nel caso passassi di qui, non si tratta di WordPress ma di una applicazione custom. Se poi lo vuoi sapere sta sulla porta TCP 8193. Ora prova in maniera un pochino più focalizzata. Hai visto mai che un buco lo trovi.
E a tutti coloro che si sono trasformati da virologi ad esperti di politica estera o consiglieri di guerra, davvero, basta!
Tutti abbiamo fatto indigestione di ogni sistema di videoconferenza possibile ed immaginabile. Avendo spesso a che fare con clienti che “impongono” il loro standard aziendale credo che in due anni li ho installati ed utilizzati quasi tutti.
“Mi sentite?” “Mi vedete?” “Vedete il mio schermo?”
Non se ne può davvero più. E’ necessario mettere in piedi una nuova etichetta per questo genere di eventi.
Oltre a questo sto notando che è diventata abitudine mettere in agenda appuntamenti che usano una di queste tecnologie quando sarebbe molto più facile prendere il telefono e fare una chiamata.
Davvero, pensiamoci. Una grande quantità di cose cui sono chiamato a partecipare si potrebbe risolvere molto più in fretta con una conversazione telefonica, per non dire un messaggio di posta elettronica ben scritto.
E’ fuori di dubbio che io ho la memoria di un pesce rosso. Per questa ragione quando si tratta di elaborare la strategia per la gestione delle mie password ho sostanzialmente due sole alternative a disposizione:
Usare le due o tre password che ricordo con una certa facilità su tutti i siti.
Usare un password manager.
Alla fine ho deciso di optare per la seconda ipotesi e uso 1Password ormai da quasi tre anni con grande soddisfazione.
Non chiedetemi come, perché non è ho la minima idea, ma sono in grado di ricordare perfettamente la master password di 14 caratteri pseudo casuali, con tanto di maiuscole, minuscole e caratteri speciali che sblocca 1Password quando mi serve.
In realtà da quando ho ricominciato ad usa l’Apple Watch non ho nemmeno bisogno di ricordarmela dato che mi basta premere due volte un bottone sull’Apple Watch per sbloccarlo.
Nonostante la loro decisione di passare a Electron nell’ultimo rilascio io mi ci trovo davvero benissimo. All’ultima conta avevo memorizzate quasi 970 differenti password con un livello di complessità molto elevato.
Oltre a questo ho abilitato l’autenticazione a due fattori su tutti i siti che lo permettono e sempre grazie all’aiuto di Apple Watch e della applicazione Authy mi sento relativamente sicuro nella gestione efficace delle mie credenziali.
Una domanda lecita sarebbe chiedere per quale motivo non uso direttamente 1Password per gestire l’autenticazione a due fattori. In effetti 1Password supporta la generazione dei codici OTP e la user experience è veramente seamless. La mia risposta è che non lo uso per introdurre un altro layer di sicurezza. Se qualcuno venisse in possesso dei miei dati su 1Password, eventualità che non si può escludere a priori essendo un servizio cloud, avrebbe immediato accesso a tutti i miei account. Avendo il generatore di codici OTP su un’altro sistema, nella fattispecie il mio telefono, dovrebbe essere in possesso di quell’oggetto per avere accesso agli account protetti da autenticazione a due fattori. A me sembra sensato.
1Password è disponibile su tutte le piattaforme che uso, macOS, iOS, Linux e Windows ed è perfettamente integrato con il sistema operativo.
Per questa ragione l’usabilità è ottima e non ho mai riscontrato frizioni particolari durante l’utilizzo.
Alla fine sono tre dollari al mese spesi benissimo.
All’interno della applicazione c’è anche una bella funzione che si chiama WatchTower che tiene sotto controllo la situazione delle password e che mi avvisa in particolare di due cose:
Elenco dei siti di cui si ha notizia siano stati compromessi. Questo mi permette di sapere dove andare a modificare la password quando serve.
Elenco dei siti su cui viene resa disponibile l’autenticazione a due fattori e questo mi torna utile per aggiungere un altro livello di protezione.
Infine mi permette di memorizzare in maniera sensibile informazioni che altrimenti dovrei crittografare localmente come ad esempio la copia dei miei documenti di identità od i dati delle mie carte di credito che non so mai dove sono. Oltre a questo ha una utility da linea di comando che in alcuni casi mi torna molto utile.
Ho provato diversi sistemi di gestione delle password in passato ma alla fine sono sempre ritornato su 1Password.
Per alcune cose che per me sono vitali uso invece cose che ritengo, personalmente, essere più sicure come ad esempio una coppia di Yubikey 5 NFC.
Nota a margine: non mi danno una lira per scrivere questa roba. Parlo solo della mia esperienza personale con il prodotto. Giusto a scanso di equivoci, neh.
Una cosa che grandemente invidio agli hacker che popolano l’universo è la fantasia e la capacità di scovare modi efficaci per riuscire a mettere le mani nei nostri portafogli.
Per questo ogni volta che mi imbatto in notizie come quelle di cui sto per raccontarvi mi ritrovo a fissare la schermo a bocca aperta ripetendo a me stesso: “Cavolo, io non ci avrei mai pensato”
La storia è questa.
Il dipartimento di polizia di San Antonio, in Texas, ha scoperto che qualche malintenzionato ha posizionato dei codici WR falsi sui parchimetri della città. Quanto un utente legge il codice a barre per pagare il parcheggio, viene portato su un sito web diverso da quello legittimo ed il denaro del pagamento viene, ovviamente, sottratto. Pare che 29 dei 900 parchimetri della città abbiano subito questo trattamento.
No, davvero. Sarò io che possiedo una fantasia delinquenziale limitata ma confesso che non ci avrei mai pensato.
E’ ben evidente che per fare il delinquente hai bisogno di uno spirito creativo di tutto rispetto. Questi personaggi potrebbero tranquillamente lavorare in qualsiasi azienda di consulenza o di strategia senza correre il rischio di non sfigurare (no pun intended…)
Certo che forse l’idea di usare dei QR code per reindirizzare l’utente verso un portale di pagamento non è proprio il massimo dal punto di vista della sicurezza. Se da un lato l’usabilità e la praticità sono assoluti dall’altro la facilità con cui si può produrre un QR code contraffatto, ma del tutto simile all’originale, è assoluta.
Oltretutto si fa leva sul caso d’uso.
In una città grande con San Antonio è molto probabile che non sia facile trovare un parcheggio libero. Come utente sono di corsa e non appena trovo un parcheggio libero mi ci fiondo, pago il parcheggio e corro ad occuparmi delle mie cose.
Non faccio certo caso all’URL del portale di pagamento verso il quale sono stato indirizzato attraverso il QR code.
I nostri delinquenti sono quindi anche degli User Researcher di tutto rispetto.
Come qualcuno di voi sa, sono solito ripubblicare i contenuti di CorrenteDebole su Medium, Facebook e LinkedIn. La realtà è che ho lettori sparsi su queste altre piattaforme e mi fa piacere riuscire a raggiungerli anche laggiù.
Come ho spesso scritto non mi interessa affatto monetizzare questi contenuti. Per questo non mi curo poi molto di che diffusione abbiano sugli altri siti.
Allo stesso tempo ritengo CorrenteDebole il luogo d’elezione dove questi contenuti devono vivere. Essendo il server su cui vivono pagato con i miei quattrini sono io a decidere che cosa deve essere pubblicato e cosa no. In sostanza, qualora venissi bannato dalle altre piattaforme potrei comunque continuare a pubblicare sul mio server dedicato. Questo ovviamente fino che non sia una autorità giudiziaria ad oscurarlo. Caso decisamente improbabile dato che non pubblico nulla che possa essere considerato un reato, almeno sino ad ora.
Ogni tanto vado a dare una occhiata alle statistiche sugli altri siti giusto per vedere se il cross posting continua a funzionare come si deve e durante una di queste visite ho notato un comportamento interessante.
I post che contengono dei link che portano il lettore altrove rispetto alla piattaforma su cui sono ospitati ricevono un numero di visite molto inferiore rispetto ai quei post che non contengono nessun link.
E’ quindi evidente che l’algoritmo che si occupa di pubblicare i miei post sui feed degli altri utenti ha la tendenza a penalizzare i posto che contengono link che portano al di fuori della piattaforma. Ovviamente si tratta di una mia personale lettura del comportamento. In fondo potrebbe essere il fatto che scrivo delle “immani cazzate” (cit. Alex Drastico) e quindi l’algoritmo decide che non sia il caso di pubblicizzarle più di tanto.
Ritengo comunque più valida la prima ipotesi.
Trovo il comportamento piuttosto ragionevole se lo analizzo dal punto di vista della piattaforma. Io, come piattaforma, guadagno molti più quattrini se i miei utenti rimangono nel mio ecosistema. Perdo delle potenziali opportunità di guadagno se l’utente prende e se ne va a visitare un link che lo trasporta altrove.
Detto questo io rimpiango il web per come era una volta. Guadagnava lettori chi scriveva cose fighe ed io, come utente, avevo la possibilità di saltellare da un sito all’altro seguendo i miei interessi. Avevo la mia dose quotidiana di siti che visitavo e da lì partiva la mia esplorazione dentro la rete.
Ora tutti cercano di confinarti dentro un giardino recintato più o meno bene.
Che sante palle.
Penso anche al fatto che di questi tempi lo spazio sul mio monitor è aumentato ed è ora capace di ospitare informazioni in tutta la magnificenza dei suoi 2560×1140 pixels. Peccato che le informazioni vere e proprie sono contenuto in una frazione di quello spazio, tutto il resto è pubblicità. Pur avendo un monitor fighissimo continuo a navigare con una risoluzione di 800×600 pixels.
In fondo non è cambiato nulla dall’inizio degli anni 2000.
Nel corso degli ultimi giorni stiamo consolidando i risultati della nostra azienda in previsione della approvazione del bilancio. Niente di cui non fossimo, ovviamente, a conoscenza e quindi nessuna sorpresa.
Come mi è capito spesso di scrivere i numeri raccontano delle storie, ed alcune di queste storie sono importanti.
I risultati dell’anno appena trascorso sono stati semplicemente straordinari, nonostante il perdurare della pandemia.
Tutti parametri fondamentali hanno ampiamente superato il budget che avevamo stabilito all’inizio dell’anno. Fatturato, ricavi, EBIT ed EBITDA sono cresciuto molto di più di quanto ci aspettassimo.
E’ una bella storia quella raccontata da questi numeri?
Direi proprio di no. E’ sufficiente fare parlare questi numeri con altri numeri per scoprire che non si tratta di una vista particolarmente piacevole quella che stiamo osservando.
Osservo quindi la numerosità dei team di lavoro nel corso dell’anno e scopro che, fondamentalmente, è stata la stessa dello scorso anno. Alessandro, ma per quale motivo ti stai lamentando? Con una pandemia globale ancora in corso ti stai lamentando del fatto che hai aumentato tutti i parametri a parità di costi?
Sì, mi sto lamentando proprio di questo perché non è una cosa sana.
Quando decisi di fare un pochino di strada insieme a Sketchin chiesi esplicitamente a Luca se volesse solo fare soldi, a discapito di tutto e di tutti, o se volesse creare qualcosa di veramente figo. Gli dissi che la prima cosa la sapevo fare ma non mi è mai interessata mentre per la seconda mi sarei speso volentieri in tutta la mia competenza. La sua risposta è sotto gli occhi di tutti.
Vengo al punto.
Chiunque si sia trovato a svolgere un lavoro “di concetto”, come si diceva una volta, ha potuto approfittare del lavoro remoto e della possibilità di lavorare da casa. La cosa non ci ha creato particolari problemi perché noi siamo sempre stati strutturati in modo da poterlo fare.
Quella che ha creato problemi è stata la velocità di esecuzione dei team che è andata aumentando sensibilmente giorno dopo giorno. Ma cavolo, Alessandro, ancora ti stai lamentando? La velocità dei tuoi team aumenta e a te non va bene.
No, non va bene perché questa velocità che ormai abbiamo raggiunto è costata cara a tutti e, potenzialmente, costerà cara anche nel prossimo futuro.
Due le considerazioni fondamentali.
La pandemia ha generato in tutti noi la paura di potere perdere il proprio posto di lavoro e questo ci ha condotto a spremerci di più per evitare che accadesse.
Lo smart working ha contribuito a rendere disponibile una maggiore quantità di tempo con meno distrazioni rispetto al lavoro in ufficio. Il tutto condito dalla alienazione di non avere altro da fare che non lavorare. Fosse anche solo per simulare il contatto umano con i propri colleghi che era venuto meno per via del distanziamento.
Questi due elementi sono valsi per tutti. Clienti e fornitori. Nessuno escluso.
E’ una situazione che non è sostenibile.
Per questo il mio obiettivo principale per il 2022 è quello di cercare di fare smaltire una parte della energia cinetica che abbiamo accumulato nel 2021 e fare tornare tutto a regimi più naturali.
Se poi guardiamo questo problema dal puro punto di vista del design va osservato che il design ha bisogno di respiro, di spazi vuoti, di vero e proprio cazzeggio perché sia in grado di dare il meglio di sè. Passare da una attività all’altra senza soluzione di continuità è quanto di peggio possa vivere un designer di talento.
Ovviamente non si parla solo di designer. Tutte le funzioni hanno subito questa dinamica nel corso del 2021. Ripeto, non va bene.
Come General Manager sono più che disposto a sacrificare parte di fatturato, ricavi, EBIT ed EBITDA per fare in modo che sia ristabilito un sano equilibrio all’interno dell’ecosistema.
Tutti gli ecosistemi muoiono se il loro equilibrio si rompe.
Passo la domenica a fare programmi per la settimana che sta per cominciare. Metto in fila le cose da fare perché sono tante e tutte sono molto importanti. Non meno importanti sono le cose personali che vorrei riuscire a portare qualche passo avanti. E tutto questo senza dimenticare che ci sono delle relazioni che desidero coltivare e mantenere così vive come lo sono ora.
Sono molto diligente. Trovo un ottimo spazio per tutto e ci infilo anche le passeggiate quotidiano con Buzz. Non ci ho ancora infilato la corsa perché fa ancora troppo freddo e poi, in fondo, non ne ho davvero voglia anche se il fisico, ed anche il cervello, ne avrebbe bisogno.
Ho finito e sono soddisfatto del mio lavoro.
E poi arriva quell’evento che ti costringe a rivedere tutto quanto.
La settimana diviene istantaneamente un incubo logistico che, secondo me, vale un dieci pieno della scala Schiavone delle rotture di coglioni.
Per una settimana, e forse di più, sarò costretto a passare molto più tempo in auto di quanto non abbia fatto negli ultimi sei mesi. Provo a sistemare gli impegni in modo che tutto possa tornare in uno stato di grazia ma so benissimo che è un esercizio impossibile.
Alla fine mi rassegno a togliere di mezzo la maggior parte delle mie cose personali. Non vedo altre soluzioni. Ci sono cose urgenti che devono essere fatte e i miei impegni possono permettersi di aspettare.
Sì, però, che palle.
E tanto per rendere le cose ancora più facili, Anas ha deciso che era nuovamente il caso di restringere la carreggiata tra Como Centro e la mia uscita. Questo aggiunge un’altra mezz’ora di coda ad un tragitto già sufficientemente lungo. Grazie di cuore. Ne sentivo davvero la mancanza dopo la continua tortura dei mesi passati. Ma poi, che cavolo ci dovete fare in queste gallerie?
E questo giusto per dire che per quanto si possa desiderare di programmare le proprie giornate, l’imprevisto è sempre dietro l’angolo.
Mi sono persuaso del fatto che una entità superiore si diverta a complicare le cose per vedere l’effetto che fa. Io mi auguro che un giorno ci potremo ritrovare faccia a faccia per scambiare quattro chiacchiere. Provo davvero il desiderio di chiederti lumi su un paio di cosette che sono avvenute.
Nei giorni scorsi discorrevo con una persona a me molto cara del fatto che dall’inizio di Gennaio mi sembra di vivere in un tritacarne lavorativo che mi fa passare da una cosa all’altra senza soluzione di continuità.
La stessa osservazione è stata fatta durante un nostro board meeting in cui ci dicevamo che la pandemia ci ha lentamente portato a sostenere dei ritmi che prima non eravamo affatto in grado di sostenere.
Credo che questo sia un punto interessante. Al di là di questo grande pippone del nuovo modo di lavorare su cui scriverò un altro posto dedicato in futuro è proprio vero che i nostri ritmi lavorativi sono aumentati, non fosse altro per la maggiore quantità di tempo a disposizione.
Vero è che se dovessi andare in miniera con casco e piccone forse starei anche un pochino peggio che non dovermi fare una call al sei e mezza del pomeriggio.
Durante la conversazione che intrattenevo con la persona di cui scrivevo nel primo paragrafo mi sono ritrovato a dire: “Passerà”. Affermazione che contiene un universo.
Perché è vero che questo momento così denso e carico passerà ma la vera e dura realtà è che è passato anche il tempo che ci ho speso sopra. Mai come ora sono consapevole del fatto che il tempo è la risorsa più preziosa che ho a disposizione e sono perfettamente consapevole che, primo o poi, altro tempo non ci sarà.
Non che ci si possa fare molto ma la consapevolezza di questo fatto è già un traguardo importante da raggiungere.
Penkēsu (Japanese: ペンケース) dovrebbe significare “cancella la penna”. Almeno questo è quanto mi suggerisce Google Translator che non so quanto si possa ritenere affidabile.
Penkēsu è il nome che è stato dato al progetto di un personal computer “do it yourself” che è stato recentemente reso di pubblico dominio. Chiunque abbia un pochino di dimestichezza con l’elettronica e con la stampa 3D dovrebbe essere in grado di realizzarlo senza grosse fatiche.
Le specifiche della macchina in questo non fanno certo girare la testa. Una schermo con una risoluzione di 1280x 400 pixel, una tastiera meccanica da 48 tasto ed il tutto guidato da Raspberry Pi 0.
Nonostante questo se osservato l’immagine in cima a questo post noterete che l’oggetto ha un suo grande fascino, almeno per me.
L’autore del progetto è un tale penk da cui immagino derivi anche il nome del progetto stesso.
Nel repository github del progetto ci sono tutti i file necessari per la stampa 3D dei gusci, il firmware della tastiera ed i file necessari per la produzione del circuito stampato così come la lista di tutti i componenti elettronici per poterlo assemblare.
Potrebbe essere un progetto personale da realizzare.
Esiste anche un sito dedicato al progetto che è quasi completamente una copia di quanto presente su github: penkesu
Nelle scorse settimane mia figlia si è trovata impegnata in un tema in classe. Niente di particolarmente eclatante per chiunque si ritrovi a frequentare la seconda media. Abbiamo avuto modo di parlarne e si è detta molto soddisfatta di quanto aveva scritto. Come tutti gli adolescenti non ha speso una grande quantità di parole sull’argomento. Si è limitata a dirmi che ne era soddisfatta e non ha fatto alcuna menzione sull’argomento.
Non ho chiesto. Mi piace che sia lei a parlare se lo desidera. Non desidero che si senta costretta a parlare quando non ne ha voglia. Questo ovviamente non riguarda argomenti dei quali si deve necessariamente parlare. Accaduto raramente, per fortuna o per merito nostro e suo.
Trascorre qualche tempo e ricevo un messaggio in cui mi rende edotto del fatto che nel tema ha preso nove. Entusiasta, ovviamente. Provo a chiedere qualche informazioni in più ma non si sbottona. Rinuncio.
Ieri pomeriggio, trascorsa qualche settimana mi invia un copia del tema che ha svolto.
Scopro che la traccia del tema era questa: scrivi una lettera ad una persona cara che si trova al fronte italiano nella prima guerra mondiale.
Me lo manda durante la giornata lavorativa e subito penso che non voglio infilare la lettura del suo scritto tra una cosa e l’altra. Voglio dedicargli il tempo che si merita quando non corro il rischio di essere disturbato.
Lo leggo e lo rileggo. Molte volte.
Rimango senza parole. Uno scritto di una sensibilità unica. Toccante e molto intimo.
Ne stampo una copia con l’intento di tenerlo con me. In questo caso una copia elettronica non mi sembra abbastanza. Per una cosa così ci vuole la carta, quella vera.
Prendo il foglio dalla stampante. Leggo di nuovo, e poi ancora.
E’ scritto bene e la ragazza sa bene come usare le parole.
Le scrivo di quanto mi ha emozionato leggere le sue parole e di quanto le abbia trovate profonde sincere. Le dico che sono fiero di lei, ma questo lo dico spesso.
Lo leggo ancora.
E’ una meraviglia che illumina la serata a giorno.
Non sono sicuro del motivo per cui quello che sto per raccontarvi accade ma mi capita piuttosto frequentemente di ricordare episodi puntuali della mia giovinezza e, molto spesso, mi ritrovo a riderci sopra.
Questo perché la maggior parte di questi ricordi sono legati a momenti imbarazzanti di cui sarebbe stato meglio eliminare qualsiasi memoria per non ricordare quanto ero stupido.
Ricordo ad esempio il momento in cui entrai nella mi classe al liceo con un permanente di tutto rispetto. Dei capelli ricci che Branduardi, lévati.
Ieri sera mi sono ricordato della cartella che utilizzavo nei primi anni di liceo. Era un momento in cui ero impallinato con gli zaini militari e mi ricordo che andai in non so quale negozio sui navigli milanesi a comprare uno zaino militare da usare a scuola.
Lo zaino lo ricordo ancora bene. Era uno zaino di seconda mano che pagai poche lire ma che era pieno di buchi e rappezzato in più parti.
La mia signora madre già tollerava poco l’uso di questo zaino che riteneva non adatto ma, sopratutto, non tollerava la presenza dei buchi. Corse in merceria a comprare delle toppe di varia forma e natura. Ricordate quelle toppe che si applicavano con il ferro da stiro? Ecco, quelle.
Implorai che comprasse solo ed esclusivamente delle cose astratte e non di senso compiuto. Nonostante tutto ebbe la sensibilità di darmi retta e mi fece anche scegliere quali usare prima della loro applicazione sullo zaino.
Ce ne era un in particolare. Una immagine che mi sembrava senza significato. Immagine rossa in campo blu. Avevo notato una certa simmetria, ma vi assicuro che non mi disse nulla di particolare nel momento in cui la guardai. Continuò a non dirmi nulla anche nelle settimane successive.
Tutto questo sino a che la professoressa Renso, che tentava invano di insegnarmi Italiano e Latino, non passò tra i banchi durante un tema in classe. Va detto che io ero assolutamente terrorizzato dalla professoressa Renso. Le sue quattro ore filate il giovedì mattina erano quanto di più vicino alla tortura medievale io avessi mai passato. Inutile dire che i miei risultati era molto, molto scarsi. Davvero, scarsissimi.
Vi dico solo che in un’altra occasione mi disse esplicitamente che per me prevedeva un futuro lavorativo sotto la media. Non riporto esattamente quello che mi disse, anche se me lo ricordo perfettamente, perché non desidero offendere la categoria professionale che lei prevedeva io sarei andato a rimpolpare.
Camminando tra i banchi vide il mio zaino, e con lui la toppa rossa e blu.
Con il suo consueto tono perentorio esclamò: “Signor Galetto vedo che ha deciso di portare in classe del materiale pornografico. Le sembra che sia il caso?”. Io credo di essere rimasto ammutolito e sorpreso. Vero è che del materiale pornografico poteva essere passato nel mio zaino ma non in quel giorno. La professoressa Renso aveva anche poteri divinatori?
Credo che lei notò il mio sguardo smarrito e con l’indice indicò la toppa rossa e blu.
In quel momento mi resi conto di cosa rappresentasse il disegno sulla toppa. Un uomo e una donna con la schiena inarcata che si congiungevano carnalmente proprio nel centro della mia toppa. In realtà credo che questa fosse l’interpretazione che sia la professoressa Renzo che io demmo al significato di quella immagine. Con il senno di poi immaginai che si trattasse di una qualche immagine stile New Age.
In quegli anni ero piuttosto turbolento ma comunque piuttosto timido e quindi diventai paonazzo e tentai di giustificarmi in maniera piuttosto imbarazzante e sicuramente goffa.
In quel momento immagino che le mie quotazioni nel ranking della professoressa Renso scesero al livello più basso mai raggiunto e che la sua convinzione che mi sarei dedicato professionalmente ad attività poco gratificanti diventò una certezza.
Al suono della campanella strappai la toppa e la buttai in un cestino. Avevo appena dato l’ennesimo colpo alla mia reputazione. Questo era il colpo di grazia.
Mi rimasero due domande che non ebbero mai risposta:
Ma come era possibile che in un paese di diecimila abitanti come era quello in cui vivevo ci fossero questo genere di immagini in vendita in una merceria?
Mamma era un segugio di prima categoria. Come fece a non accorgersi del significato di quello che stava comprando per il suo primogenito?
Professoressa Renso, alla fine il ricordo del tempo che mi ha dedicato è comunque un ricordo piacevole e devo ammettere che quello che tentò di insegnarmi mi è stato molto utile in questi anni. Davvero, le sono grato.
Mi piacerebbe poterla incontrare per avere l’opportunità di contraddirla, almeno una volta. Alla fine dal punto di vista professionale è andata un pochino meglio di quanto lei avesse previsto in quegli anni. In parte credo che sia anche merito suo e degli schiaffi virtuali che mi ha dato nel tentativo di farmi ragionare.
Non so dove lei sia in questo momento, ma mi piacerebbe poterle offrire un caffè e dirle grazie. Davvero.
P.S. Nel caso capitasse mai su queste pagine già me la vedo con la matita rossa e blu a correggere queste righe e darmi un voto alla fine. Tremo.
In queste ultime due settimane sto giocando con l’Oculus Quest2 di Meta.
Cominciamo con le cose noiose e noiosissime.
Per fare funzionare la baracca ti devi ricollegare alla applicazione Facebook sul tuo telefono. Per quello che ne so è l’unico modo per potere prendere il completo controllo dell’oggetto, scaricarci applicazioni e svilupparci sopra.
Confesso che la cosa mi disturba parecchio perché erano quasi due anni che non mettevo pieve nell’universo creato da Mark Zuckerberg e compagni. Per fortuna non sono costretto ad interagirci e una volta installata l’applicazione Oculus sul telefono ed effettuato il login non è più necessario metterci piede.
La seconda cosa noiosa è che usare un visore per la realtà virtuale quando si indossano degli occhiali è una rottura di palle almeno al livello nove della scala Schiavone.
E’ vero che nella dotazione c’è un distanziatore dedicato a risolvere questo problema ma devo confessare che fa veramente pena ed è decisamente inutile. Oltre a questo l’esperienza con gli occhiali è decisamente molto poco piacevole.
Per questa ragione mi sono andato a cercare la prescrizione medica delle mie lenti da vista ed ho ordinato una coppia di lenti da vista Virtuclear da installare direttamente sul visore. Con questo accessorio la vita cambia radicalmente anche se ci sono comunque degli effetti negativi.
L’effetto negativo è che se su Oculus ci sviluppi qualcosa e vuoi testare quello che stai producendo ti devi esibire in un continuo metti la cera, togli la cera. Ovvero, inforca gli occhiali quando stai scrivendo codice e togli gli occhiali quando vuoi verificare quello che hai fatto sul visore. Una rottura di scatole.
Dato che non posso resistere ho cominciato a fare qualche esperimento con le SDK di Oculus ed in particolare usando il game engine Unity. Quando mi sono trovato a dovere scegliere mi sono detto che tutto sommato C# fa meno schifo di C++ che invece è usato su Unreal e quindi ho scelto Unity. Vero è che Unreal sta facendo delle cose impressionanti, sopratutto guardando le prime demo della versione 5. Detto questo non mi interessano particolarmente le prestazioni e quindi per quello che devo fare Unity è più che sufficiente.
Va detto che la curva di apprendimento è piuttosto ripida. Unity è un sistema molto complesso e non bisogna farsi spaventare dalla complessità. In fondo una sua logica ce l’ha e una volta compresa si procede abbastanza spediti.
La configurazione per lo sviluppo su Oculus è ancora piuttosto macchinosa tanto che alla fine mi sono deciso a scrivere un template per non fare le stesse cose un milione di volte. Per chi è interessato ho scritto un post ieri sul tema.
In un paio d’ore si può riuscire ad aver qualcosa di funzionante sul proprio Oculus.
Un’altra cosa che non trovo particolarmente piacevole è la maschera di silicone che dovrebbe adattarsi al tuo viso. Sarà che ho una configurazione facciale prossima all’uomo di Neanderthal ma la maschera di default la trovo veramente fastidiosa. Il peso del visore non è irrilevante e grave tutto sul mio naso che, pur essendo simile in dimensioni a quello di Cyrano de Bergerac, ne soffre. E’ probabile che esista qualche accessorio di terze parti in grado di risolvere questo problema.
Anche lo strap che tiene il visore sulla testa non è il massimo ed è evidente che quello di default è stato progettato per ridurre il costo complessivo dell’oggetto. Mi sono risolto a comprare quello che loro chiamano Quest 2 Elite Strap che tra l’altro contiene anche una batteria aggiuntiva che male non fa.
Con questo l’ergonomia d’uso migliora moltissimo ed anche il peso che grava sul mio naso diminuisce leggermente.
Va detto che questo oggetto ha un problema. Nel caso stiate sviluppando delle applicazioni sappiate che l’unico collegamento possibile per fare il sideloading delle applicazione è quello con il visore nativo. Almeno nel mio caso se collego il PC al connettore dell’accessorio non c’è modo di farlo funzionare. Mi sembra strano ma per il momento non ho trovato soluzioni.
Un’altra cosa pallosissima è il fatto che quando si sviluppa su MacOS non puoi lanciare l’applicazione direttamente dallo Unity Editor come è invece possibile su Windows. Per questa ragione è necessario compilare tutta la baracca in una applicazione Android e caricarla sul visore utilizzando adb. Noiosissimo.
Personalmente credo si siano fatti dei grandi passi in avanti rispetto a quanto avevo sperimentato con PS4 VR.
Sono diversi giorni che sto giocando con Resident Evil ed è veramente un port interessante. Divertente e coinvolgente senza nessun problema di motion sickness.