Suoni

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Quando ho bisogno di distrarmi un pochino mi capita di prendere in mano la mia chitarra e suonare per qualche minuto lasciando che le dita scorrano sulla tastiera senza pensarci troppo su.

Confesso di essere un collezionista compulsivo di chitarre. Non riesco proprio a resistere e negli anni ho accumulato una incredibile quantità di effetti, amplificatori, accessori, chitarre, plettri e via discorrendo.

Qui si deve essere sinceri. Sono un chitarrista mediocre e ne sono perfettamente consapevole. La musica non mi porta il pranzo e la cena sul tavolo. E’ solo una via di fuga.

Ci ho messo del tempo a realizzare che sono un chitarrista mediocre. Nel corso degli anni ho comprato degli strumenti costosi con la convinzione che uno strumento migliore avrebbe potuto aiutarmi ad avere un suono migliore, un tocco perfetto, una agilità diversa. Lo stesso vale per gli amplificatori e tutto il resto. Il mio suono non è quello che desidero perché non ho la strumentazione adatta e non perché sono una pippa.

La dura e cruda realtà è la seconda.

Se vuoi diventare un musicista migliore o, nella fattispecie, un chitarrista migliore l’unico modo è spellarsi le dita sulla chitarra e suonare, suonare, suonare e ancora suonare.

Scrivo questo perché nel fine settimana ho avuto dei carissimi amici a pranzo ed uno di loro è uno dei più bravi pianisti che mi sia mai capitato di incontrare. Chiacchierando ci raccontava che in alcuni giorni suonava anche per dieci ore al giorno. Ovviamente lui non è una pippa e sulla strumento ci ha sudato parecchio. Ennesima riprova della mia tesi.

Se, al contrario, hai ricevuto il dono, è un’altra storia.

In maniera del tutto casuale la sera stessa mi sono imbattuto in un video con un intervista a Jack Pearson. Chitarrista sconosciuto ai più ma, sostanzialmente, uno dei migliori.

Questo è il video dell’intervista che ho guardato:

Jack Pearson

C’è un segmento interessante in cui il signor Pearson parla della sua Stratocaster. Non un modello Custom Shop, non una chitarra degli anni 60… Una semplicissima Fender Stratocaster Squier assemblata in Indonesia e che ha pagato 80 (Ottanta!!!) dollari in un negozio di pegni.

Ecco. Ascoltate che cosa tira fuori da 80 dollari di legno e metallo.

E quindi non si tratta di quello che usi ma di come lo usi e di quanto tempo hai speso per imparare ad usarlo.

Mi sono reso conto di essere stato mosso per lungo tempo da una falsa illusione da un lato e dalla potenza del marketing dall’altra.

Nonostante questo la mia collezione di chitarre continuerà e non perché io sono convinto di potere diventare un chitarrista migliore ma, molto più semplicemente, perché mi piacciono da impazzire.

Cannoli siciliani

Photo by Louis Hansel on Unsplash

Nei giorni scorsi ho lasciato il lago per spendere qualche giorno in Veneto. Quasi ogni mattina andavo a bere un caffè in un centro commerciale prima di mettermi al lavoro.

Un centro commerciale come tanti sebbene non densamente frequentato.

Mentre facevo due passi ho notato un banchetto temporaneo che vendeva specialità siciliane. Sughi, olive, olio e, non ultimi, dei cannoli siciliani che facevano aumentare la mia glicemia solo a guardarli.

La mia dieta, ed il mio profilo, mi hanno suggerito di starne alla larga.

Dietro il banco un uomo ed una donna, tra i trenta ed i quaranta, che si occupavano della vendita dei prodotti esposti.

Mi è capitato di ripassare nello stesso centro commerciale intorno all’ora di pranzo. Avevo bisogno dell’ennesimo caricabatterie per l’iPhone. Avviandomi verso il negozio sono ripassato davanti al banchetto.

Quelli che immagino essere i proprietari stavano seduti dietro il banco principale e si stavano gustando alcune delle specialità esposte.

In quel momento ho pensato che non poteva esistere migliore pubblicità per il proprio prodotto che mangiare quanto esposto.

Mi sono fermato qualche minuto ad osservarli. Quello che volevo capire e se fosse un pranzo di opportunità o altro. Dopo un paio di minuti mi sono proprio convinto del fatto che stavano proprio godendo di quel cibo.

Metaversi

Photo by Muhammad Asyfaul on Unsplash

In questi mesi in cui sto smanettando nel tempo libero con i temi del metaverso attraverso il mio Oculus mi sono persuaso di un paio di cose.

Il metaverso sta diventando l’ennesima buzzword in cui poco scrupolose società stanno cercando di sfilare quattrini facili ai propri clienti. Tutti parlano di metaverso, pochi lo capiscono e ancora meno ci stanno mettendo dentro le mani per davvero. Oramai sono anni che si cavalca l’onda del momento con il solo risultato di svilire nuove opportunità e creare un alone di negatività intorno alle nuove tecnologie.

Il metaverso richiede pensiero. Molto pensiero. L’idea di costruire una propria presenza nel metaverso non può ridursi alla creazione di un ambiente in tre dimensioni che rispetti il linguaggio visuale della azienda che lo ha creato. Se questo è l’approccio, evitate di investire i vostri quattrini in iniziative di questo genere. Da questo punto di vista credo che dei nuovi approcci di Service Design, Interaction Design e, in qualche modo, Visual Design siano necessari. Mi sono reso conto che non è una cosa facile e per questo sono molto scettico riguardo tutti coloro che ci si stanno buttando a capofitto. I service designer bravi, così come gli interaction designer, sono merce rarissima e di assoluto valore. Sono loro che penseranno e progetteranno un metaverso nel senso compiuto del termine.

Sono convinto del fatto che esistano due differenti approcci al metaverso. Il primo è completamente immersivo e vuole trasportare l’utente in un universo alternativo rispetto a quello reale. L’altro vuole aumentare la realtà esistente con nuove modalità di interazione e di aumento dell’informazione. Uno non è preferibile all’altro. Tutto dipende dal pensiero che è stato fatto a valle.

Infine credo che possa esistere una stretta correlazione tra tutto ciò che compone l’universo Web3 o, in alternativa, blockchain, smart contracts, NFT e via discorrendo nel disegno di un metaverso.

Anche su quest’ultimo aspetto noto che tutti ci si stanno buttando a capofitto senza avere alcuna competenza con l’aggravante di mettere a rischio i propri sudati quattrini.

Bisogna metterci la testa, e con grande convinzione per poterci tirare fuori qualche che sia davvero di valore.

Rapporto segnale rumore

Photo by Dan-Cristian Pădureț on Unsplash

Sono anni che cerco di mettere una cura estrema nella selezione delle fonti dalle quali mi informo. Per anni sono stato un felice utente di Google Reader ed alla sua chiusura sono, quasi felicemente, passato a feedly.

Continuo a ritenere che il meccanismo RSS sia una delle cose maggiormente usabili che siano mai state concepite.

Sin da allora curo con precisione che cosa entra e che esce dal mio file OPML. Come ho scritto spesso ritengo che il mio tempo sia la risorsa più preziosa che possiedo e quindi non voglio perdere tempo appresso a notizie che non mi interessano.

Purtroppo negli anni questo lavoro diventa sempre più difficile, e non solo per quanto riguarda il flusso di notizie ma anche, semplicemente, per la ricerca su tutti i motori di ricerca oggi esistenti.

Siamo tutti daccordo che il SEO è una risorsa importante per chiunque si affacci sul web. Venire trovati è fondamentale per sopravvivere, sopratutto se lo fai per generare ricavi.

Eppure il rapporto segnale/rumore è veramente troppo basso.

Sono oramai innumerabili gli articoli che comunque contengono un qualche genere di offerta commerciale. Allo stesso tempo quando fai una ricerca troppo spesso compaiono risultati che poco hanno a che fare con quello che stai cercando.

Tutto questo erode tempo ed attenzione.

Se da un punto di vista del business è una necessità di sopravvivenza dal punto di vista dell’utente è un cancro inguaribile.

Strettamente necessario

Photo by Alexis Fauvet on Unsplash

A valle del birthday blues dovuto al mio compleanno sono arrivato alla conclusione che è necessario rivedere in maniera piuttosto pesante il mio approccio al minimalismo.

Mi sono reso conto che ho bisogno di spazio libero intorno a me e tutti gli sforzi che ho fatto sino ad ora non sono stati sufficienti, almeno per quello che ritengo essere il mio obiettivo.

La prima domanda cui è necessario rispondere è che cosa io intenda per minimalismo. Personalmente ritengo che minimalismo sia sostanzialmente un sinonimo di libertà. Pochi vincoli con persone e cose che sono strettamente necessarie e che possono potenzialmente condurti ad uno stato di coscienza più profondo.

Facciamo un esempio. I libri. Decisamente parte del concetto. Mi aiutano ad esplorare altri mondi e a creare consapevolezza verso temi che non padroneggio. E questo per non parlare della pura gioia della lettura. In questo senso trovo che il libro digitale mi aiuti. E’ sempre disponibile e non occupa spazio. Un Kindle può contenere centinaia di volumi in pochi grammi.

Un nuovo maglione? Probabilmente non necessario e decisamente contro il concetto che sto cercando di esplorare. Ci sono ancora cose in casa che non metto da anni e che, con ogni probabilità, mai metterò. Dato che non ho necessità di frequentare passerelle che richiedano moda all’ultimo grido ne posso certamente fare a meno. Oltretutto raggiunta la mia veneranda età posso dire, fare ed indossare quello che mi pare senza curarmi del giudizio degli altri.

Di esempi come questi ce ne sarebbero decine. Ognuno con un suo solido razionale.

Ho quindi deciso che entro le vacanze estive devo tirare fuori tutto quello che c’è in casa da armadi, bauli, credenze, stipi e stipetti e decidere se si tratta di una cosa necessaria o meno. Il principio è che se è stata chiusa in un armadio per mesi non è necessaria e quindi me ne devo disfare. Nessuna pietà. Nessun pensiero del tipo: “Sì ma un giorno potrebbe servirmi.”. Alla fine non ti serve mai, e quando ti serve sicuramente non la trovi.

Voglio disfarmi della maggior numero possibile di cose possibile e fare spazio, fisico e mentale.

Venderò, regalerò o donerò.

Lo stesso vale per i miei diversi abbonamenti digitali. Oramai sono comunque pochi ma farò una grande selezione per ridurli ancora di più.

In questo momento sento il bisogno di arrivare diritto all’essenza delle cose. Senza distrazioni e senza spinte che provengano dall’esterno.

Asseconderò comunque i miei desideri di esplorare cose nuove. Sempre e comunque con l’intenzione di disfarmi di tutto non appena riterrò che la mia curiosità sia stata soddisfatta.

Senza parole

Photo by Jon Tyson on Unsplash

Le notizie come quella della sparatoria nella scuola in Texas sono in grado di mozzarmi il fiato e lasciarmi senza parole.

Del paese che mi ha dato i natali e nel quale vivo si può dire tutto. Possiamo parlare di una classe politica del tutto incapace, della diffusa iniquità, della burocrazia folle ed inutile. La lista sarebbe infinita e potrei scriverne per ore.

Eppure, nonostante tutto, eventi come quello Texano da noi sono molto improbabili.

Quello che mi colpisce è che la soluzione del problema e ben evidente a tutti ma nessuno è in grado di fare in modo che diventi una realtà. E’ una cosa triste, molto triste.

Google Workspace Add On Debug

Photo by Markus Spiske on Unsplash

In questi giorni sto completando il porting di una serie di script Google App Script nella forma di Google Workspace Add On.

Di per sé non è una cosa molto complicata sebbene ci siano un paio di comportamenti che è necessario gestire in maniera diversa rispetto agli script originali.

Ad alto livello l’architettura dell’Add On è la seguente:

  • E’ possibile installare l’Add On solo da coloro che appartengono alla nostra organizzazione. Questa è una cosa semplice perché Google Marketplace ti permette di farlo senza passare dalla approvazione da parte di Google dell’Add On.
  • L’Add On funziona solo ed esclusivamente quando lavora all’interno di un Google Sheets dalla struttura ben definita. Di fatto l’Add On è scritto proprio per automatizzare alcune funzioni proprie di quella tipologia di spreadsheets ed in seguito conversare con Salesforce tramite delle REST API.

Da questo si deduce che l’Add On recupera delle informazioni presenti all’interno dello spreadsheet, le manipola e poi le deposita in altre sezioni dello spreadsheet o sulla piattaforma Salesforce. Niente di magico.

Per lo sviluppo vero e proprio si utilizza l’editor di Google App Script. Se il progetto è piccolo questo editor è sufficiente. Nel caso di progetti più ampi l’editor comincia a mostrare dei limiti e si devono trovare delle alternative più efficaci.

In questo caso ci viene in aiuto Google clasp (https://github.com/google/clasp) che è una utility che ci permette di duplicare sul nostro personal computer un progetto Google App Script per poterci lavorare localmente.

A questo punto è possibile utilizzare un qualsiasi IDE congiuntamente a clasp per lavorare in maniera più efficiente.

Io personalmente uso Visual Studio Code che è aperto sulla directory che ospita il codice e, contemporaneamente, uso il comando “clasp push -w” in una finestra del terminale sempre su Visual Studio Code. Ogni volta che salvo un file sul mio computer questo viene automaticamente modificato su Google Script ed è subito pronto per essere testato.

Dato che l’Add On funziona solo su un documento Google Sheets è necessario che questo foglio sia aperto per potere testare il proprio Add On. Questo implica che di base non è possibile testare l’Add On direttamente dall’editor di Google App Script. Questo è un vero peccato perché il debugger dell’editor non è nemmeno male.

Esiste però una alternativa, sebbene macchinosa.

L’Add On può essere in grado di capire se viene eseguito all’interno dell’editor o da uno spreadsheet. Se l’Add On viene eseguito all’interno di uno spreadsheet il flusso è quello normale. Se l’Add On viene eseguito all’interno dell’Editor si evitano tutte le interazioni con l’utente, ovviamente prendendo delle decisioni a priori rispetto al comportamento desiderato, e si usa uno spreadsheet di riferimento per il debug.

Dato che ci ho messo qualche tempo a capire in che modo discernere se l’Add On era in esecuzione su uno spreadsheet o sull’editor vi riporto la funzione che verifica questa cosa.

function uiCheck() {

    const scriptId = ScriptApp.getScriptId();

    const url = "https://script.googleapis.com/v1/processes?pageSize=1&userProcessFilter.scriptId=" + scriptId;

const res = UrlFetchApp.fetch(url, {
    headers: { authorization: "Bearer " + ScriptApp.getOAuthToken() }, });

const obj = JSON.parse(res.getContentText());

return obj.processes[0].processType;
}

La funzione ritorna null se l’Add On è in esecuzione in uno spreadsheet o ritorna ‘Editor’ se in esecuzione dall’editor.

In questo modo è possibile usare il debugger del Google Script Editor in maniera abbastanza semplice.

Avendo il codice sul proprio personal computer, ed avendo la capacità di discernere l’ambiente di lavoro, è possibile usare in maniera efficace degli strumenti di Unit Testing sul codice locale. Anche questo è un pochino macchinoso, ma funziona (benino).

Non è proprio una passeggiata di salute ma funzionicchia.

Ovviamente è sempre possibile scrivere dei log degni di questo nome per effettuare un debug un pochino agricolo se non si ha voglia di sbattersi con quanto ho descritto poco sopra.

Parcheggio

Photo by Sandy Millar on Unsplash

Questa mattina mi sono fermato in un centro commerciale per bene un caffè prima di iniziare a lavorare. La scelta del centro commerciale è stata opportunistica dato che non conosco per nulla il luogo in cui lavorerò per i prossimi due giorni.

Parcheggio la macchina e mi avvio lentamente verso l’ingresso alla ricerca del mio caffè. Prima di entrare indosso la mia mascherina e mi soffermo ad osservare dei parcheggi con le linee dipinte di rosa.

Sono cinque parcheggio situati proprio di fronte all’ingresso del centro commerciale e sono proprio posizionati di fianco ai parcheggi per disabili. Lo scopo è, ovviamente, quello di rendere più facile l’accesso al centro commerciale a chi ne ha diritto. Se per i disabili il diritto mi è perfettamente chiaro, per i parcheggi rosa ho qualche dubbio.

Per fugare questo dubbio mi incammino verso l’altro lato del parcheggio dove un cartello potrebbe essere illuminante.

Leggo. “Parecheggio Rosa – un gesto di cortesia – Area destinata alla sosta delle auto utilizzate dalle donne in gravidanza e dalle neomamme.”

Ora, che possa esistere un uomo in gravidanza è scientificamente impossibile per cui la prima parte del cartello mi torna. Quello che non mi torna è la seconda parte: “dalle neomamme”.

Ora chiunque si sia trovato nella necessità di gestire un infante sa benissimo quale incubo logistico si sia costretti ad affrontare ogni volta che ci si muovo. Borse, borsine, pannolini, talco, pomate, pappa, asciugamani e via dicendo. Per non parlare dei passeggini che richiedono una laurea in ingegneria meccanica per essere smontati e montati. Detto questo non capisco perché solo le mamme.

Un papà non potrebbe trovarsi nella necessità di dovere andare al supermercato con il proprio figlio neonato e avere bisogno di un parcheggio che gli eviti di iniziare una carriera da sherpa?

Sinceramente io avrei lasciato il cartello in rosa per distinguerlo ma invece che “dalle neomamme” io avrei scritto “dai genitori.”. Dai, dal genitore se proprio vogliamo rispettare lo use case in cui sia un singolo genitore ad avere bisogno di aiuto nel trovare parcheggio.

Rimane il tema dei nonni e delle nonne, ma questa è un’altra storia.

Documentazione

Photo by Erik Mclean on Unsplash

Devo dire che la documentazione di Google sulla loro libreria Oauth2 per Google App Script non mi è affatto chiara. Con ogni probabilità è un problema mio e della mia scarsa dimestichezza con il tema da un lato e con Javascript dall’altro.

Alla fine sono dovuto andarmi a leggere il codice sorgente per capire nel dettaglio il comportamento di un paio di funzioni, service.isAuthorized() per dirne una. Non avevo realizzato che essa stessa provvede al refresh del token nel caso in cui questo sia necessario.

Per questa ragione alla fine ho duplicato del codice che non era necessario.

E’ altrettanto vero che implementare in maniera corretta un processo di autenticazione con oauth richiede una configurazione “pensata” da entrambi i lati della barricata. Scope, validità dei token, formato dei token, endpoint, eccetera eccetera.

Mi sa che devo scrivere qualche test in più per essere sicuro di avere fatto tutto nel modo corretto.

Elettronica

Photo by Umberto on Unsplash

Mi è sempre piaciuto scrivere codice e mi dispiace che negli ultimi quindici anni, o giù di lì, non abbia più avuto modo di praticare in maniera seria. In passato una delle cose che maggiormente mi eccitava era il fatto che tramite del codice potevi intervenire sull’hardware.

Ma vuoi mettere l’emozione di costruire una richiesta IO SCSI per dire ad un disco rigido di smettere di girare e poi inviarla con una istruzione ioctl. Qualche attimo e puoi sentire, fisicamente, il disco che si ferma. Io la ho sempre trovata una cosa incredibile.

Per questa ragione non mi sono mai addentrato più di tanto nell’universo dell’hardware. Ho sempre ritenuto che il software fosse per me sufficiente a farmi divertire.

Eppure, ciclicamente, penso al fatto che sapere qualcosa di elettronica, anche puramente analogica, potrebbe essere interessante. Diciamo la verità, anche il saldatore ha il suo grande fascino. Saldatore che nella elettronica di consumo ora si usa veramente molto poco.

Il miglior proxy rispetto ad una conoscenza vera e propria dell’elettronica è, forse, Arduino e tutti i vari micro controllori che oggi affollano il mercato. C’è una quantità enorme di progetti che si possono studiare pur non avendo nessuna conoscenza dell’elettronica.

Eppure mi rimane il pallino che quel tipo di conoscenza deve essere interessante.

Quindi, come ogni volta, mi metto alla ricerca di materiale che possa introdurmi alle segrete cose. Dura poco perché non è una cosa banale. Per certi versi trovo il tema molto più complesso del software.

Nemmeno i libri del buon Paolo Aliverti sono riusciti a farmi fare qualche passo in avanti. Libri che consiglio vivamente perché sono ben scritti, densi di contenuto e provengono da una persona che certamente è animata dal sacro fuoco. E poi lui non se la tira sebbene ne sappia molto più di altre persone.

Adesso ci sono un paio di libri in formato PDF nella mia cartella Download. Ho la certezza che rimarranno lì a prendere polvere digitale fino a quando verranno archiviati in un’altra cartella che non consulterò mai più.

Elettronica, mi piacerebbe, ma mi sa che anche oggi ci vediamo domani.

Non finisce mai

Photo by Jamie Haughton on Unsplash

Mi è capitato di fare una occhiata ai numeri della pandemia e non posso fare a meno di notare un trend positivo di diminuzione dei contagi. Erano settimane che non mi informavo più di tanto a riguardo.

I numeri scendono ma non mi sembrano poi così bassi da permetterci di tirare un respiro di sollievo. Mi auguro che il trend continui, complice l’aumento della temperatura, immagino.

Nonostante questo non mi sento ancora pronto a smettere di comportarmi come mi sono comportato negli ultimi due anni e rotti. Di fatto continuo a mantenere i contatti sociali al minimo necessario e ad indossare la mascherina quando mi trovo in un luogo pubblico con altre persone.

Mi consola il fatto che non credo di essere il solo ad avere fatto questa scelta. Vedo molte altre persone che indossano la mascherina nonostante sia venuto meno l’obbligo.

Speriamo davvero che questo sia l’ultimo anno in cui dobbiamo gestire questa cosa.

E comunque non finisce mai… adesso abbiamo anche il vaiolo per cui preoccuparci. Qualcuno sta cercando di dirci qualcosa.

Excel in Google Drive

Photo by Giorgio Tomassetti on Unsplash

Il fatto che Google abbia reso possibile visualizzare e modificare i files in formato Excel all’interno di Google Drive e per mezzo di un web browser è una cosa decisamente interessante.

Ora non è più necessario scaricarli per potere fare delle piccole modifiche o, semplicemente, consultarli con una certa facilità.

Esiste un problema.

Oggi una persona mi ha evidenziato il fatto di non essere in grado di lanciare la nostra applicazione scritta con Google App Script da un paio di nostri fogli elettronici.

La cosa mi è sembrata molto strana e mi sono fatto mandare i link a Google Drive. Aprendoli non ho fatto nessun caso alla tipologia del file avendo il link diretto. In effetti sono rimasto un pochino perplesso nel momento in cui il menu “Extensions” non compariva tra le opzioni come al solito.

Ci ho perso una ventina di minuto prima di capire che il motivo del malfunzionamento era molto semplice. Per qualche ragione per me del tutto sconosciuta i files sono stati convertiti in Excel e quindi, ovviamente, non supportano Google App Scripts e Google Add On.

Non avevo pensato alla ragione più scioca.

Teenage Engineering

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Mi sono sempre piaciuti i prodotti di Teenage Engineering. Il loro design di prodotto è veramente spettacolare. Tanto spettacolare che il loro sintetizzatore OP-1 è ora esposto al MOMA di New York.

Sono tutti prodotti un pochino fighetti che tutti gli esperti del settore hanno sempre ritenuto del tutto fuori mercato.

Un sintetizzatore come l’OP-1 viene ora commercializzato con un prezzo nell’intorno dei 1.400 EUR. Se andate a leggere le specifiche e se siete un pochino impallinati con i sintetizzatori scoprirete che con quella cifra potreste comprare dei veri mostri con una potenza ed una versatilità molto, molto superiore a quella dell’OP-1.

Nonostante questo l’OP-1 era diventato un prodotto di tendenza e molto ricercato.

Qualche tempo addietro Teenage Engineering lo aveva tolto dal suo shop online e l’unica possibilità di portarsene a casa uno era quella di rivolgersi al mercato dell’usato. In questo mercato il prezzo dell’OP-1 arrivò a toccare i 2.000 EUR. Una vera e propria follia.

Vista la richiesta così alta Teenage Engineering ha deciso di ricominciare a produrlo e a venderlo insieme al suo fratello maggiore, l’OP-1 Field che viaggia ad un prezzo nell’intorno del 2.000 EUR.

Trovo questa dinamica estremamente interessante.

P.S. Lo stesso sta avvenendo con il loro ultimo mixer…

Obsidian e Kindle

Photo by Diana Polekhina on Unsplash

Di Obsidian ho scritto un paio di cose in passato e non posso che confermare che si tratta di uno strumento dalle potenzialità stupefacenti. Da quando lo utilizzo è diventato il centro di tutte le mie attività sul computer sia dal punto di vista professionale che personale.

Una sapiente selezione dei plugin, unita alla possibilità di scriverne di propri, mi ha permesso di costruire qualcosa che si adatta perfettamente al mio flusso di lavoro ed al mio modo di lavorare.

Una delle cose che maggiormente mi piace è la possibilità di sincronizzare in tempo reale in una serie di notte tutti i passaggi che ho evidenziato sul mio Kindle.

Era una cosa che facevo in modo non digitale praticamente da sempre. Quando leggevo un libro cartaceo avevo sempre a portata di mano una matita. Nel momento in cui volevo evidenziare un passaggio importante lo sottolineavo e riportavo nella ultima pagina del libro la pagina in cui avevo preso la nota insieme alla data.

Terminato il libro ricopiavo tutti i passaggi evidenziati in uno dei miei taccuini.

Ecco, oggi Obsidian mi permette di fare quesa operazione su Kindle in maniera del tutto automatica. Viene riportata la data e l’ora in cui la sottolineatura è stata create insieme ad autore e titolo del libro.

Ad oggi ci sono 470 note di questo genere nel mio “database” Obsidian. Certo è un pochino meno poetico della nota sul taccuino ma è estremamente efficace perché tutto è indicizzato, ricercabile e linkabile.

Una figata pazzesca.