Il mito del Company Profile

Chiunque si trovi nella necessità di lavorare a stretto contatto con dei clienti ha nel propria borsa degli attrezzi questo strumento chiamato Company Profile.

Che sia fatto con PowerPoint, Keynote, Adobe Acrobat la sostanza non cambia.

Ogniqualvolta ti ritrovi a dovere raccontare chi è la tua azienda e cosa fa, alzi lo schermo del tuo portatile, apri il documento che contiene il company profile, spendi diversi minuti a capire per quale cavolo di motivo non riesci a connetterti al proiettore, tv, schermo di turno e poi cominci ad uccidere di noia i partecipanti a quella riunione con la tua presentazione.

Dite la verità ci siete passati tutti.

Dopo anni che lo fate è oramai diventato un automatismo. Potreste fare una presentazione della vostra azienda mentre state cucinando una pasta alla carbonara senza sbagliare una parola.

Ecco, è questo il problema.

Credo che molti dei miei clienti potrebbero testimoniare sul fatto che io raramente uso quel documento. In genere seguo lo script di cui sopra sino al punto in cui dovrei iniziare la mia presentazione. A quel momento dico sempre “Bene, siamo pronti. Non mi piace usare questo documento come una presentazione non interattiva e poi, avete mai visto un company profile che faccia schifo? Se usassimo come riferimento solo questo documento saremmo tutte delle aziende fighissime.”

In qualche occasione mi capita di leggere un pò di disorientamento nella platea. Questo accade ogni volta che esci dagli schemi predefiniti della relazione cliente fornitore. Riprendendo le tesi del dottor Paul McLean potremmo dire che succede perché il cervello rettiliano reagisce immediatamente ad una situazione di pericolo: “Attenzione: questo non si comporta come tutti gli altri. Scappo o combatto?”

Ovviamente lo faccio di proposito. In primo luogo per divertirmi dato che mi annoierebbe da impazzire ripetere come una scimmia poco senziente sempre le stesse cose. In secondo luogo perché voglio trovare un punto di contatto vero con chi mi ascolta. Una via che voglio trovare io e che non mi piace mi venga indicata da un navigatore come il company profile.

Per questo motivo uso quel documento come un grande contenitore di informazioni che uso saltando da una parte all’altra secondo necessità usando spesso altri strumenti quando trovo che abbia un senso.

E’ chiaro che un approccio di questo genere richiede uno sforzo maggiore. Richiede uno sforzo prima dell’incontro perché devi studiare e conoscere bene di che cosa andrai a parlare. Richiede un sforzo durante la riunione perché devi sapere improvvisare.

La chiave di tutto è metterci delle emozioni. Rendere vivo un oggetto che preso cosi come è algido. Può contenere tutto e niente. E’ neutro rispetto all’uso che tu ne farai. Il fatto che abbia la forma di prensetazione e quindi con una struttura completamente lineare lo rende molto poco flessibile. Sono anni che sto pensando a qualcosa di diverso ma la mia naturale pigrizia mi ha impedito di venirne a capo. Almeno per il momento.

Il secondo punto chiave è che devi parlare solo di quello che è rilevante per lo specifico incontro. Se vendi mele, pere, formaggio e pesce e stai visitando un pescivendolo è del tutto inutile raccontargli di quanto bene sai fare la scamorza. A lui interessa solo quanto buono è il tuo branzino. Se esci dal contesto stai solo alimentando il tuo ego o quello della tua azienda.

Il terzo punto riguarda un consiglio che mi dette uno dei miei primi mentori intorno agli anni novanta: “Devi sempre andare dal cliente con una valigetta piena”. Ai tempi non si usavano gli zaini, si usavano le valigette. La sua teoria era che si dovesse sempre andare da un cliente con qualcosa destinato a lui sin dal primo incontro. Una proposta, una ipotesi di progetto, un punto di vista. Qualcosa che gli dimostrasse che tu avessi già cominciato a lavorare per lui anche se non esiste ancora un contratto. Anche solo la conoscenza, per quanto superficiale, della sua azienda. Lo ho sempre trovato un grandissimo consiglio.

Un’altra cosa che mi turba molto osservando questo genere di documenti è che non si parla mai del fallimento. Possibile che in una azienda che ha oramai decine di anni di storia sia sempre andato tutto per il verso giusto? Tutti clienti soddisfatti e progetti di successo? Inverosimile, non trovate.

Confesso che nemmeno io ho trovato il coraggio di mettere i fallimenti dentro quel documento ma, se non altro, non trovo grande difficoltà a parlarne quando me ne viene fatta esplicita richiesta. Fa parte della natura di ogni lavoro.

Così come ho scritto ieri si tratta di riempire le parole di contenuto e non solo di forma.

La Digital Transformation è una cagata pazzesca

“Per me… la Corazzata Kotiomkin… è una cagata pazzesca!” – Seguono novantadue minuti di applausi.

Rag. Ugo Fantozzi – Il secondo tragico Fantozzi

Oramai da diverso tempo il termine Digital Transformation ha scalato la vetta dei termini che detesto con tutto me stesso scalzando il termine Innovation.

La prima cosa che mi sento di dire riguarda l’uso della lingua e quel costume, tipicamente italico, secondo il quale usando la traduzione Inglese di un termine Italiano lo rendi immediatamente più figo, spendibile e, sopratutto, vendibile.

Siamo in Italia e, grazie al cielo, la nostra è una lingua ricca, piena di sfumature e densa di poesia. Perché non usarla?

Quindi, perché la trasformazione digitale è una cagata pazzesca?

Per certi versi la risposta è piuttosto semplice. Come qualsiasi altra cosa se non riempi di contenuto la forma, non hai nulla tra le mani.

Parlare di trasformazione digitale non significa nulla, per sé. Il modo corretto di affrontare la questione è quello di parlare di trasformazione in senso lato. La componente digitale di questa trasformazione è solo uno degli aspetti.

Dobbiamo quindi parlare di trasformazione di aziende, processi, metodi, prodotti e servizi. Parte di questi possono sfruttare il digitale come strumento, altri non ne hanno affatto bisogno.

A questo punto per quale motivo si parla quasi esclusivamente di trasformazione digitale? Perché tutti ne parlano e tutti la vogliono pur non sapendo cosa sia e non conoscendo cosa voglia dire.

Perché è figa. Si vende facile. Tutti la vogliono.

Se il tuo scopo è distribuire corpi non senzienti presso le sedi dei tuoi clienti è il nuovo El Dorado. Questo assurda dinamica ha generato, e continua a generare, mostri terribili e poco efficaci. Tutte le aziende in forsennata ricerca di altre aziende che hanno la parola digitale da qualche parte nel loro statuto. Acquisizioni a nastro, spesso poco sensate.

Ho sempre sostenuto che il denaro non deve essere il fine ultimo di una azienda. Nel nostro caso ho sempre sostenuto che il denaro, quello che ci paga gli stipendi, è un sottoprodotto delle soluzioni che troviamo ai problemi che i nostri clienti ci chiedono di risolvere.

Torniamo quindi al concetto principale. Si tratta di trasformazione ed il primo punto da cogliere affinché questa trasformazione sia efficace è che deve essere una trasformazione che parte dalla cultura aziendale.

La cultura interna deve essere la prima cosa che deve essere cambiata se si desidera affrontare un processo di trasformazione radicale del proprio modo di condurre gli affari. Se questo non accade, si tratta solo di cosmesi. E, si sa, la cosmetica dura lo spazio di una giornata.

Il mio caro amico Marco Piscitelli mi disse un tempo che molte aziende sono spesso governate da minaccia, ricatto e corruzione. Non posso essere più d’accordo. Se questi sono i meccanismi che regolano un azienda non c’è trasformazione che tenga.

La trasformazione culturale impone che si modifichi il rapporto tra l’azienda ed il cliente ma, allo stesso tempo, richiede che cambino i rapporti interni. La cultura, appunto.

Ecco il più grande vulnus della trasformazione digitale se proposta in maniera non opportuna. Spesso la trasformazione digitale si dedica solo ed esclusivamente a quest touchpoint verso il cliente finale lasciando intatti i meccanismi ed i touchpoint interni. Non esiste via migliore per il fallimento.

Non esiste una ricetta per la trasformazione. Se volessimo usare una analogia è come quando andiamo dal medico. Ogni organismo è diverso e quindi ogni cura è diversa dall’altra. La stessa cosa vale per un processo di trasformazione.

Chiunque dica, e proponga, una ricetta sta raccontando una grandissima bugia. Ogni processo di trasformazione deve essere studiato e affrontato caso per caso. Non esistono approcci diversi.

Dobbiamo quindi parlare di trasformazione. Una trasformazione nella quale il digitale è una delle componenti che può giocare un ruolo fondamentale nella efficienza economica della trasformazione ma che non può prescindere da tutte le altri componenti. Si tratta di un viaggio, spesso lungo, che impone la creazione definizione di un ecosistema. Un ecosistema che, come tutti gli ecosistemi, si fondi su un equilibrio sano tra tutte le sue componenti.

Forse è il caso di cominciare a mettere del contenuto dentro le parole.

Lago

Una scelta avvenuta quasi per caso, del tutto inconsapevole sotto certi aspetti. Trovare un luogo che fosse equidistante da Milano, Lugano e Buccinasco.

Quando mi trasferii qui non avevo grandissime aspettative. Mi confortò, molto, la presenza del lago, meglio dire dell’acqua, davanti casa. Il suono della risacca che potevo sentire dal giardino di casa. Fu un succedaneo del mare che, sfortunatamente, era troppo lontano da quei luoghi intorno ai quali gravitano i miei interessi.

Fu una grande scelta.

Questo luogo è incantevole e non finisce mai di stupirti e di nutrirti.

E’ un luogo che si trasforma costantemente e possiede infinite chiavi di lettura che sembrano adattarsi allo stato d’animo del momento. Può essere chiassoso e veloce o malinconico e silenzioso.

E’ quel luogo dove arrivi la sera e tutto si normalizza nella quiete della brezza che si leva. Non senti la cacofonia della città, il traffico si diluisce in nulla e quando spegni il motore della macchina chiudi tutto fuori.

Circondato da persone che possono essere molto silenziose, in principio restie a dare confidenza, ma che presto si aprono e se non proprio ti accolgono ti fanno sentire a tuo agio.

Quasi ogni mattina o, talvolta, la sera fai una corsa sul lungolago. Poca roba. Cinque sei chilometri con te stesso. Il tempo giusto per iniziare la giornata con il cervello sgombro da pensieri o chiuderla riconoscendo che tutto è ancora possibile.

Corri e ti guardi intorno. Ogni giorno scopri qualche dettaglio in più. Una decorazione su un muro, un giardino, una pianta. Quasi tutte le persone ti salutano quando passi. Qualcuna la riconosci e basta un cenno del capo. In pochi chilometri c’è tutto. Un tesoro dietro l’altro in attesa di essere scoperto.

A me questo posto piace da morire.

Ho trovato degli amici, molto cari e anche questa è una sorpresa. Non immaginavo che quella dimensione in cui sono nato esistesse ancora nel duemilaventi. Eppure c’è. E’ tangibile. Esiste.

Venite a farci un giro. Aprite gli occhi e non ve ne pentirete.

Corrieri e Service Design

Il lavoro del corriere è molto semplice: prendi una cosa da un posto e la consegni in un altro. Ovviamente sto semplificando in maniera volutamente esagerata.

Sappiamo bene quanto può essere complessa la logistica di un corriere. Quanti documenti sono necessari, sopratutto quando si parla di spedizioni tra stati diversi. Quanta cura e attenzione richiedono le spedizioni di merci speciali.

Nonostante tutta questa complessità la promessa del servizio è quella contenuta nel primo paragrafo. Quella è la promessa che devi mantenere come azienda.

Mi trovo nelle condizioni di dovere partire per l’Riyadh, in Arabia Saudita. Per potere accede al paese è necessario un visto che si ottiene attraverso una procedura che non è complessa ma che richiede attenzione nell’insieme di documenti che devi produrre. Una serie di eventi sfortunati ha fatto sì che io abbia il volo per Riyadh questa sera e che non sia ancora in possesso del mio passaporto con il visto.

Ieri sera il sito del corriere mi dicevache il passaporto è in transito. Questa mattina il mio passaporto è in consegna, entro le diciannove.

Da ieri provo a contattare il supporto clienti del corriere per cercare di fermare il mio passaporto in deposito in modo che possa andare a prelevarlo di persona senza attendere la consegna.

Come direbbero gli Americani: long story, short. Non ci sono riuscito.

Il servizio clienti online non mi permette di scegliere il fermo deposito. A direi la verità non mi permette nemmeno di modificare l’indirizzo di consegna. I dati in mio possesso mi permettono di rintracciare e seguire la spedizione ma il sito non sembra riconoscermi come il destinatario finale della spedizione. Un vicolo cieco.

Cerchiamo di parlare con qualcuno tramite il call center. Servizio a pagamento. Come quasi tutti i call center ti accolgono con un IVR e questo fa esattamente questo. Sono in grado di rintracciare la mia spedizione e anche qui capisco che il mio passaporto è in consegna, oggi. entro le 19. Dopo avermi consegnato questa informazione, che già conoscevo, la dolce voce del sistema mi ringrazia e riaggancia. Non riesco a parlare con un essere umano.

Richiamo. Provo diversi rami dell’IVR ma il risultato è sempre lo stesso. Nessun essere umano sembra essere disposto ad ascoltarmi.

Rinuncio. n shāʾ Allāh come direbbero da quelle parti.

ʾIn shāʾ Allāh (Arabic: إِنْ شَاءَ ٱللّٰهُ‎, is the Arabic Language expression for “God willing” or “if God wills”. The phrase comes from a Quranic command which commands Muslims to use it when speaking of future events. The phrase is commonly used by Muslims, Arab Christians, and Arabic-speakers of other religions to refer to events that one hopes will happen in the future. It expresses the belief that nothing happens unless God wills it and that his will supersedes all human will.

Ovviamente questi servizi di aiuto al cliente sono stati progettati da qualcuno più o meno versato nella oscura pratica del Service Design.

In casi come questi il discorso è complesso. E’ un delicato gioco di equilibrio tra la qualità del servizio che eroghi al tuo cliente finale ed i costi che sei costretto a sostenere per erogare quel livello di servizio.

Dal punto di vista economico la scelta dell’IVR e del self care online è oramai quasi uno standard. Un sistema costa molto, molto meno di un insieme di essere umani che rispondono al telefono. Non c’è nulla di male. In casi di ordinaria amministrazione il servizio risponde esattamente alle necessità della clientela: sapere dove si trova la spedizione e sapere in che data arriverà. Nel novantanove per cento dei casi è una informazioni sufficiente.

Poi ci sono i casi come il mio. L’eccezione. Quello che si è deciso di non implementare nel sistema perché da un alto è un caso raro, dall’altro sarebbe troppo costoso gestirlo data la potenziale bassissima numerosità.

Eppure il caso memorabile è quello per cui il tuo cliente finale ti ricorderà più di ogni altro. Gli avrai risolto un problema urgente. Egli diventerà il tuo più grande advocate e tesserà le tue lodi per gli anni a venire. Ne parlerà con chiunque e tu stesso potrai usarlo nella tua comunicazione.

Quando si progetta un servizio io ritengo che l’aspetto economico sia assolutamente determinante. Negli anni mi sono veramente rotto le palle di designer idealisti convinti del fatto che con il design si possa risolvere tutto nel miglior modo possibile. Il design non è la soluzione, è parte della soluzione.

Nonostante questo, investire qualcosa per affrontare gli use case più rari trovo che sia una cosa che andrebbe fatta.

Io ne sarei stato molto contento.

Nel frattempo il mio passaporto non è ancora arrivato.

Domenica

E poi ci sono quelle domeniche. Quelle domeniche in cui ti alzi con addosso un velo di tristezza che sei certo sarà una fatica rimuovere dal tuo viso. Quelle domeniche in cui non hai voglia di farti la barba e che immagini scorreranno via senza lasciare traccia di sé.

E invece senti il suono di una notifica sul tuo telefono. Degli amici, cari, che ti invitano ad una passeggiata seguita da un aperitivo e tutto cambia direzione, inaspettatamente.

Chiacchiere, risate, confronti, punti di vista.

Vieni invitato a pranzo e ti fai degli scrupoli. Sei solo, disturberai? Si tratta solo di cortesia?

No, non è così. Capita che possano esistere ancora delle amicizie sincere in cui il valore della compagnia significa ancora qualcosa.

Altre chiacchiere, altre risate. Un pranzo, qualcosa da bere, un dolce. Ti senti a casa. Sei sereno come raramente capita quando sei solo.

Nessuna cosa materiale può essere efficaca come il calore che queste giornate lasciano dietro di sé. Nulla che potresti comprare. Il sapore genuino della compagnia che non ha secondi fini. Ancora risate, l’ultimo bicchiere. Queste righe.

E’ stata una bella domenica.

Al cinema

Questo fine settimana sono solo e decido di andare al cinema. Primo spettacolo del pomeriggio e quindi parcheggio facile e nessuna ressa particolare.

Scelgo un drammone e quindi la sala che potrebbe contenere circa centocinquante persone ne conta si e no una trentina.

Mi siedo al mio posto e vedo entrare una coppia. Sono anziani. Lui è sulla settantina e veste con una discreta eleganza. Lei dimostra qualche anno di meno. Anche lei è vestita molto bene e si muove con una grazia non comune. Entrambi hanno dei capelli bianchissimi. Si tengono per mano.

Il caso vuole che si siedano di fianco a me durante la proiezione.

Li osservo. Si tengono ancora per mano. Ogni tanto la mano di lei scivola sull’avambraccio del suo compagno con un gesto tenerissimo. Mi sento quasi un intruso in un momento di intimità.

Finisce il primo tempo. Cominciano a chiacchierare allegramente discutendo del film, della trama, di quale attore o personaggio gli sembra maggiormente riuscito. Ogni tanto ridono, di gusto. Quelle risate cristalline e sincere che denotano complicità.

Sorrido anche io.

Il film termina. Lui aiuta lei ad indossare il cappotto e lasciano la sala.

Ognuno per la sua strada.

Qualche volta funziona. Sì, qualche volta funziona.

5am

Da più di un anno a questa parte ho preso l’abitudine di puntare la mia sveglia alle cinque del mattino. Di conseguenza mi alzo sempre molto presto.

L’idea è quella di ricavarsi una spazio personale e tranquillo in cui dedicarmi alle cose che mi piacciono di più. Può essere la lettura, la consultazione di pagine web che ho salvato ma che non ho avuto il tempo di leggere, la musica, suonare la chitarra in cuffia e via dicendo.

Ogni giorno riesco a ritagliarmi due ore che altrimenti non avrei a disposizione.

Altre volte esco di casa prestissimo per andare in studio. Come oggi.

Mi piace arrivare in studio quando non c’è ancora nessuno e l’unico suono che senti sono le tue dita che scorrono sulla tastiera. Il telefono non suona, non hai alcun appuntamento di cui ti devi occupare o che devi preparare. Nessuno bussa alla tua porta chiedendoti un pò del tuo tempo. Hai il tempo fisico e mentale di fare mente locale sulle cose importanti. Impostare la tua giornata in maniera efficace.

Anche il tragitto verso lo studio sembra cambiare natura. Questi sono giorni di luna piena. Ho la grande fortuna di vivere sul lago di Como e mentre aspetto l’ascensore vedo la luna piena riflessa nel lago. Il fresco della mattina punge le guance. Sali in macchina e costeggi il lago. Non c’è traffico. Tutto sembra così tranquillo e sereno.

In giornate come questa evito di utilizzare l’autostrada. Mi piace passare per i piccoli paesi che separano Laglio da Manno. A quest’ora molti stanno ancora riposando. Tutto è tranquillo.

Continui a vedere la luna sopra le montagne Svizzere ed in alcuni momenti ancora riflessa nel lago. La sua luce illumina il paesaggio e, forse, sei un pochino più sereno.

Potrebbe essere una bella giornata.

In cucina

Lorenzo continua ad essere attratto dalla cucina e, come sempre, potrebbe essere una passione cocente e passeggera. Credo che sia una cosa naturale per un tredicenne.

Lo osservo coltivare questo suo interesse e mi stupisce il suo modo di fare ricerca sul tema. Io personalmente mi sarei messo alla ricerca di libri da leggere o, al massimo, blog a tema. Per Lorenzo il principale strumento di ricerca e informazione è YouTube e Instagram. Cifra dei tempi mi verrebbe da dire.

La stessa cosa era successa quando ci siamo avvicinati all’universo della magia con le carte. Io libri e articoli, sopratutto di Genii, lui YouTube e Instagram. Considerando quello che abbiamo imparato a parità di tempo speso direi che non esiste una sostanziale differenza tra i due approcci.

In questi giorni stavo cercando un libro di cucina per principianti da regalargli in modo che provassa anche l’ebbrezza della parola scritta.

La prima evidenza è il fatto che la cucina è molto trendy in questi anni. Deve essere l’effetto MasterChef. Ci sono centinaia di libri sul tema e scegliere è difficile.

L’altra cosa che mi ha stupito è il fatto che molti dei libri ruotano intorno a due aggettivi: facilità e velocità.

Il titolo classico è qualcosa de genere: “Cento ricette di [genere di cibo a scelta] facili e veloci per impressionare i vostri ospiti”

Questo approccio mi turba. Vero è che il libro lo devi vendere e quindi non devi allontanare i tuoi clienti dicendogli che per usare le ricette devi essere Carlo Cracco. Altrettanto vero è che non tutto può essere facile e veloce.

E’ un trend comune di ogni hobby od interesse, ma anche di qualsiasi professione. Oramai si sprecano i corsi in cui diventi specialista di qualcosa in una settimana.

Oramai sono molto sensibile a questo genere di stronzate e mi si alza sempre il sopracciglio quando le leggo.

Ogni cosa ha la sua complessità e richiede tempo e costanza per poterla padroneggiare. Non tutto può essere reso semplice e veloce.

La sostanza secondo me è che qualsiasi cosa può essere resa semplice nell’approccio, nella narrazione, nei contenuti e nel modo di esporla ad un pubblico non preparato. Non può per sua natura essere un percorso veloce.

Ultima cosa interessante nessuno dice che per diventare un maestro di qualsiasi disciplina il fallimento è uno degli strumenti principali. Provare e riprovare a fare qualcosa fino al momento in cui ogni momento è efficace e senza spreco. In questo campo i giapponesi insegnano.

Insomma, ci vuole sudore.

Aspettative

In fondo si riduce tutto ad una precisa gestione delle aspettative.

Le aspettative delle persone cui vuoi bene e che non ti vogliono bene, quelle di coloro che ti vogliono bene ma a cui tu non vuoi bene e le aspettative verso te stesso.

Nient’altro. In ultima analisi è inutile parlare di ricerca della felicità ma, piuttosto, di ricerca di un equilibrio verso le aspettative.

Lo stratagemma consiste nell’avere pochissime aspettative. Meglio ancora, nessuna aspettativa. Sono giunto alla convinzione che non avere aspettative è l’unica strada verso una esistenza serena. Si evitano una enorme quantità di delusioni, di rabbia, di rancore.

L’unico sensato approccio solido è avere aspettative solo verso sé stessi. Se si è maturati a sufficienza e si è smesso di raccontarsi delle bugie la scena è chiara. Verso te stesso puoi costruire delle aspettative ragionevoli che non rischiano di essere deluse.

Concentrandosi solo su quelle si elimina tutto il rumore di fondo e si può arrivare al nucleo. Tagliare tutto il superfluo e tutti i bisogni creati ad arte da altre persone, società o industrie.

Rimane solo l’essenziale. L’unica cosa per cui valga la pena.

Tutto il resto sono solo chiacchiere ed invenzioni.

“Grazie a Dio sono nato Italiano”

Ricomincio questo nuovo anno lavorativo con un piacevolissimo viaggio in auto alla volta del centro di Milano.

Mi accoglie la classica coda infinita in A4 fino alla uscita di Cormano condita dei classici comportamenti poco virtuosi degli automobilisti. Oramai sono convinto che il Codice della Strada si sia trasformato da un insieme di regole da rispettare strettamente ad un insieme di raccomandazioni: “Io ti dico quale è il comportamento richiesto per ogni situazione e poi tu fai come cazzo ti pare.”

Sono quindi in lenta discesa verso la città. Velocità media quindici chilometri all’ora. La fila si muove e senza alcuna indicazione del cambio di direzione una vettura si fionda nella mia corsia a velocità sostenuta. Se non avessi frenato mi sarebbe certamente venuto addosso.

Ora, io in auto non mi arrabbio mai e negli ultimi venti anni non credo di avere mai usato l’avvisatore acustico di cui, credo, sia dotata la mia vettura. Mi limito a scuotere la testa in segno di sdegno.

Mi incuriosisce un adesivo attaccato al paraurti della macchina colpevole del comportamento poco virtuoso. Questo adesivo recita: “Grazie a Dio sono nato Italiano”.

Sono perplesso. Quale motivo può spingere un essere umano senziente ad attaccare un adesivo come questo alla sua vettura? Mi incuriosisco e guardo l’autista della vettura: un signore attempato sulla sessantina con occhiali leggeri, decentemente vestito. Il classico vicino della porta accanto.

Non riesco comunque a spiegarmi perché abbia quell’adesivo sulla sua macchina. Mi sembra una cazzata di dimensioni inenarrabili e priva di qualsiasi contenuto. Che cosa significa? Pubblicizzi una cosa sulla quale non hai avuto alcuna influenza e comunque reputi utile darne notizia. La trovo una cosa populista e banale. Certamente tendente ad una visione fascista della vita comune. E poi, una volta che io ho compreso che sei Italiano, che cosa dovrebbe comportare nei confronti del potenziale giudizio che io ho di te?

Se dovessi usare il sillogismo che il tuo adesivo suggerisce dovrei dire “Io sono Italiano. Io guido di merda. Tutti gli Italiani guidano di merda.”

E’ ben evidente che io e quell’autista non abbiamo niente da spartire.

Le probabilità che quel signore appartenga alla categoria dei “Coglioni totali” è molto, molto alta.

Vacanze finite

Finite queste lunghe vacanze natalizie.

Concludo con un meraviglioso colpo della strega che mi ha bloccato a letto tutto il giorno. Per qualche arcano motivo a cavallo delle festività incorro sempre in qualche guaio fisico che poi si trascina per qualche settimana.

A questo giro è toccato alla schiena. Se non altro non rischio di rimetterci un braccio. Evidentemente la pausa dal quotidiano è difficile da sostenere per il mio organismo.

Continuo a leggere di buoni propositi per l’anno nuovo e, sinceramente, ne sono grandemente infastidito.

Per me il 2020 sarà un anno come un altro. Si prosegue con le consuete sfide giornaliere, la logistica complessa, i pensieri, le paure ed un sacco di sogni.

Sì, perché a cinquantadue anni suonati ho molti più sogni di quanti non ne avessi da ragazzo. Sono tutti molto raggiungibili a differenza di quelli di allora. La sostanziale differenza è una maggiore consapevolezza unita ad un cinismo che aumenta giorno dopo giorno.

Forse cinismo non è la parola giusta. Forse sarebbe più corretto usare il termine realisimo. Consapevolezza del fatto che la maggior parte delle persone deluderanno le tue aspettative. Piena convinzione del fatto che la stupidità, la scarsa ragionevolezza, l’egoismo rispettano pienamente la seconda legge della termodinamica.

Una decisa mancanza di aspettative nei confronti degli altri.

Per il resto sarò quello di sempre. Più presente dal vero, meno presente virtualmente in una realtà che non mi rappresenta.

E adesso vado a mettere le mani su una delle mie chitarre che sono giorni che non suono. Schiena permettendo.

Ai fornelli

Con i ragazzi ancora per casa, ieri sera abbiamo deciso che questa mattina non avremmo messo la sveglia per regalarci qualche ora di sonno in più.

Intorno alle otto del mattino vengo risvegliato da rumori che provengono dalla cucina. Il classico suono dei piatti che vengono rimossi dalla lavastavoglie e che vengono impilati prima di essere messi a posto. Il clangore delle posate che sbattono una contro l’altra prima di finire nel casetto. Lo sportello del frigorifero che si apre.

Rumore di uova che vengono rotte e poi sbattute.

Non mi preoccupo più di tanto e lascio fare. Mi alzo con calma e vado a farmi una doccia subito seguita da una bella rasatura.

Dopo una ventina di minuti scendo in cucina.

Trovo Lorenzo ancora in pigiama davanti ai fornelli.

Questa mattina ha deciso di preparare la colazione per tutti e si è messo a cucinare delle crepes. Mi stupisce per due ordini di motivi.

Il primo è che non ho idea di come lui possa sapere come cucinare delle crepes. In realtà si è cercato in cucina tutti gli ingredienti ed è stato anche piuttosto abile a trovare delle alternative per ingredienti che mancavano. Da tempo non più zucchero raffinato ma solo zucchero di canna. Lui ha sostituito lo zucchero raffinato con lo zucchero di canna comprendendo anche che doveva dosarane un pochino di più perché è meno dolce dello zucchero normale.

La seconda cosa che mi stupisce sta nel fatto che ha preparato la colazione per tutti e non solo per lui. Fino a qualche tempo fa questo non sarebbe successo. Lui si sarebbe preparato la sua colazione e gli altri si sarebbero dovuti arrangiare.

Ora è ancora in cucina e sono curioso di vedere il risultato finale.

Vediamo se il mio sogno si realizza: sistemerà tutto in lavastoviglie alla fine dell’impresa?

Service Design…

Mi trovo costretto a recarmi presso una istituzione che rilascia visti di ingresso per un paese arabo. Il sito online è di una lentezza inenarrabile ma, dopo diverse traversie, arrivi alla fine e riesci ad ottenere il tuo appuntamento.

La lettera finale ti ricorda di presentarsi almeno quindici minuti prima dell’appuntamento ma non con un anticipo superiore ai trenta minuti. Ci sta. Giusto non sovraffollare la sala di attesa.

Manca un piccolo particolare… mi avete fatto scegliere la città dove richiedere il visto ma nella lettera con l’orario dell’appuntamento, la lista dei documenti necessari e diverse altre informazioni, manca il luogo nel quale mi devo recare.

Ricerca nel sito web e deduzione che quello potrebbe essere l’indirizzo giusto.

Arrivo con venti minuti di anticipo e quindi esattamente nella finestra richiesta. Un simpaticissimo totem all’ingresso dell’ufficio mi chiede di fargli leggere il codice a barre della prenotazione per emettere il bigliettino che attesta che sono arrivato nel posto giusto e per farmi capire quando sarà il mio turno.

Sottopongo il mio bellissimo codice a barre ed il totem risponde: “Non è possibile la stampa del ticket con un anticipo superiore ai quindici minuti rispetto al proprio appuntamento”.

Ecco…

Perché???

E comunque per la seconda volta non sono riuscito ad ottenere il mio visto.

Pasta alla carbonara

Il periodo di festa oramai volge al termine.

Sono stato molto con i miei figli in questi giorni e ci siamo divertiti un sacco.

Il maggiore, e più soddisfacente, traguardo è stato insegnare a Lorenzo a cucinare una egregia pasta alla carbonara.

Stranamente il ragazzo è particolarmente attratto dalla cucina e devo ammettere che gli riesce anche bene. Ha cucinato in totale autonomia un risotto allo zafferano e salsiccia di tutto rilievo.

Grandi soddisfazioni!