Premetto che non sono mai stato un grandissimo fan delle liste delle cose da fare. Ultimamente un pochino meno, più per venire incontro alla mia memoria che per un amore spassionato. Di fatto ne uso due. La prima per le cose che riguardano la mia sfera professionale e la seconda per la mia sfera personale.
In genere classifico le cose da fare in un quadrato che ha sulle ascisse le voci importante e non importante e sulle ordinate le voci urgente e non urgente. Se non mi ricordo male era uno strumento utilizzato dal generale Eisenhower. Ad ogni modo, poco importa l’origine.
Non ho necessità di una tassonomia più vasta di quella.
In realtà nella mia testa esiste un ulteriore livello di tassonomia che distingue tra le cose che voglio fare io e quelle che qualcun altro vuole che io faccia. Questo non è un distinguo da poco.
Ultimamente mi sono imbattuto in un concetto che ho trovato interessante e che mi sono deciso ad utilizzare.
La lista delle cose da non fare.
Nella sua semplicità trovo che sia un concetto interessante da aggiungere al tema della lista delle cose da fare.
E’ abbastanza evidente che fare una cosa che non dovresti fare toglie tempo alle cose che dovresti fare per davvero.
Io ritengo che la lista delle cose da non fare sia molto più importante della lista delle cose da non fare.
Sto trascorrendo qualche giorno di vacanza in un piccolo paese della Liguria. Qualche giorno di distanza dalla quotidianità e dal lavoro.
Mi alzo la mattina presto e scendo a bere il secondo caffè della giornata in un piccolo bar al centro del paese. Due chiacchiere con le persone che stanno dietro al bancone per iniziare la giornata.
Faccio quattro passi e mi muovo verso il giornalaio dal quale compro i quotidiani che leggo sempre in gran numero quando sono in vacanza. Due chiacchiere anche lì.
Intorno all’ora di pranzo faccio un giro al mercato e guardo la merce sulle bancarelle. Ascolto di discorsi delle altre persone e osservo i frequentatori. Mi fermo in un banco di frutta e verdura. Compro due meloni e delle ciliegie.
Sulla strada verso casa entro in macelleria e compro del prosciutto. Due chiacchiere anche con il macellaio.
Ho pagato tutto con la carta di credito, che mi sembra già un successo.
La lentezza di questi giorni mi affascina e mi rilassa.
Credo che la maggior parte di noi abbia ormai la piena consapevolezza del fatto che i propri dati vengono raccolti e analizzati da qualche entità ogni volta che facciamo qualcosa online.
Google, Facebook, Amazon, Netflix e, praticamente, ogni servizio che utilizziamo in forma più o meno privata.
Alcuni di questi servizi permettono di scaricare il set di dati che vengono trattati. In altri è necessaria una richiesta esplicita dell’interessato perché questi dati vengano forniti. L’ultima affermazione è un diritto sancito dalla normativa GDPR.
E’ qualche settimana che mi frulla in testa una idea per un progetto personale che mi permetta di scaricare in maniera automatica tutti i miei dati personali dai vari servizi per poi poterli analizzare offline.
Mi interesserebbe capire quale mole di informazioni ho ceduto, più o meno inconsapevolmente, e mi piacerebbe riuscire a fare un qualche tipo di analisi sulle correlazioni tra i vari set di dati.
Non ho ancora dato una forma precisa a questa idea ma mi ritrovo a pensarci su con una certa frequenza.
Ritorno la rubrica “Perché si può fare” che è, in tutta sincerità, una delle cose che mi diverte di più.
Io sono sufficientemente anziano per ricordarmi i “padelloni” dalla astronomica capacità di 5 Mb che si usavano sui mainframe di ICL nei primi anni novanta. Pesavano un botto e li dovevi mettere a manina dentro il disk drive che aveva le dimensioni di una lavatrice. Facevano un rumore infernale e quando una testina del drive si andava a schiantare sulla superficie del padellone sembrava di assistere ad uno schianto automobilistico in autostrada.
Non sono però sufficientemente vecchio per avere utilizzato le schede perforate, o puch card, come le chiamavano gli americani.
Il signor Michael Kohn ha replicato il concetto delle schede perforate utilizzando dei mattoncini lego. Un mattoncino bianco rappresenta uno zero mentre un mattoncino nero rappresenta un uno. Ovviamente in codice binario. A questo punto su una lastra che ospita i mattoncini possiamo metterne in fila otto ed ottenere un byte. Più file possono quindi rappresentare delle informazioni che possiamo immagazzinare.
A questo punto è sufficiente costruire una rotaia, motorizzare la nostra lastra e fare uso di un array di sensori per leggere il contenuto della singola fila e trasformarlo in una informazione digitale.
Questo è il video in cui viene dimostrato il funzionamento del sistema:
Tutte le volte che vedo qualcosa di questo genere mi rattristo per la mia scarsa capacità di immaginare cose di questo genere.
Mi ritrovo a riflettere a valle della moderazione dell’evento Human 2 Human durante la Milano Design Week.
La prima cosa che mi ha colpito è stata la grande partecipazione all’evento nonostante le non enormi dimensioni del luogo dove avevamo scelto di stare. Purtroppo non siamo stati in grado di soddisfare la lista di attesa per non infrangere nessuna regola riguardo l’occupazione dello spazio.
Parlare di nuovo davanti alle persone mi ha emozionato. In questi due, e più, anni di pandemia e relativo isolamento avevo dimenticato queste sensazioni. Incrociare lo sguardo delle persone mentre parli, osservare le posture, vedere le reazioni al tuo discorso. Tutte cose del tutto dimenticate stando davanti ad una webcam. Ancora, una grandissima emozione.
Mi ha fatto piacere come il design sia in grado di attirare persone. Giovani e meno giovani che si sono ritrovati per ascoltare quello che avevamo da dire. Ho iniziato il mio discorso dicendo che non avevo nulla da vendere se non le nostre idee. E quello era veramente il caso.
Io stesso ho seguito attentamente tutti gli interventi con grande interesse e partecipazione. Ho detto che ho sempre cercato di assumere persone più sveglia di me e, cavolo, è stato proprio così. Ho sentito degli interventi veramente straordinari. Racconti che era evidente fossero stati pensati con il cervello e raccontati con il cuore. Ogni volta sono stupito dalla qualità delle cose che riusciamo a fare quando abbiamo la giusta quantità di tempo a disposizione.
E poi un sacco di chiacchiere con ragazzi appassionati di design che sono un venticello fresco che ti accarezza l’anima.
Dai, lo confesso. In principio ero preoccupato del costo che avremmo dovuto sostenere per questa settimana. Viviamo in un periodo di grande incertezza e sono stato un pochino restio ad accettare la spesa. Devo dire che, invece, è stato un ottimo investimento, sopratutto per le persone che hanno avuto l’occasione di dedicarsi alla organizzazione e alla produzione dei contenuti. Avere l’opportunità di staccare dai progetti e dai clienti per lasciare libero spazio al proprio pensiero è impagabile. Credo di avere imparato la lezione.
Credo di avere scritto in passato del mio approccio alla posta elettronica. Ad esempio non sono mai stato un grande fan della tassonomia. La mia posta elettronica, sia personale che personale, non è suddivisa in un insieme di folder. Tutti i miei messaggi di posta elettronica siedono beati nella inbox vita natural durante.
Per il momento uso ancora gmail come principale account personale e la posta di Sketchin vive anch’esso sotto la longa manus di Google.
In passato ho sempre avuto un client di posta elettronica sui miei personal computer. Non so perché ma ho sempre pensato che fosse la cosa più naturale del mondo. Copia dei messaggi rimanevano sempre e comunque sui relativi server, a futura memoria.
Questo fino a che le dimensioni delle mie caselle di posta elettronica sono diventate ingestibili.
Da molti mesi a questa parte uso solo ed esclusivamente l’interfaccia web di gmail. Non è perfetta ma nel tempo è diventata sufficientemente adatta alle mie esigenze.
Devo dire che non sento affatto la mancanza di un client di posta elettronica.
Mi ritrovo molto spesso a dovere cercare dei messaggi e quello che Google mi offre è sempre all’altezza della situazione. Questo è vero sopratutto quando si impara ad usare in maniera efficace i diversi filtri che vengono messi a disposizione.
In occasione della Milano Design Week e di un evento presso il nostro pop-up studio in Via Farini a Milano devo fare un breve intervento.
Non ho mai avuto difficoltà a parlare davanti alle persone, anche quando il numero superava qualche centinaio. Mi sono sempre trovato particolarmente a mio agio in quelle situazioni. Maggiore era il numero di persone ad ascoltare, maggiore era il mio entusiasmo nell’affrontare il palco.
Dopo questi più di due anni di quasi completo isolamento è la prima volta che faccio questa cosa fisicamente. Ho parlato ad alcuni eventi durante la pandemia ma sempre attraverso il filtro di una webcam e di un microfono.
Oggi, finalmente, sarà di persona.
Ho venti minuti a disposizione.
Venti minuti di chiacchiere sono tanti e subito dopo di me ci sono diversi colleghi con i loro interventi. I loro interventi sono una figata pazzesca. Ho sempre cercato di assumere persone che fossero più intelligenti e capaci di me, e credo di esserci riuscito.
Questo significa che devo raccontare qualcosa che valga la pena di ascoltare.
La realtà delle cose è che non sto cercando di vendere niente se non idee. Idee che saranno esposte senza alcun costo e che tutti potranno portare via con sé senza mettere mano al portafoglio.
Non credo che preparerò qualcosa se non una lista di punti chiave che vorrei cercare di trasmettere alla platea.
Sono arrivato un pochino tardi a fare una prova con Github Copilot. Mi ero messo in lista di attesa mesi e poi mi ero completamente dimenticato di verificare se la mia richiesta fosse stata accettata o meno.
Durante il fine settimana mio figlio mi ha fatto vedere del codice Python che ha scritto per una sua applicazione. In particolare stava usando il framework flask dal momento che si trattava di una applicazione web con un pochino di backend ed accesso ad un database.
Ho visto che aveva Copilot attivo e mi ha detto che aveva ottenuto accesso qualche settimana prima.
Quando ho avuto qualche momento libero sono andato a verificare se la mia richiesta fosse stata accettata e dopo avere ottenuto una risposta affermativa lo ho installato su PyCharm e Visual Studio Code.
Confesso che ne sono rimasto decisamente impressionato.
Ho usato come test il progetto Javascript che fa chiacchierare i nostri fogli Google Sheets con Salesforce tramite REST API.
Ho quindi scritto un commento all’interno del file che implementa le richieste verso le API. Qualcosa del tipo: “Write a function that gets Opportunity data from Salesforce and returns it”.
All’interno del mio codice c’è già, ovviamente, una funzione simile. Copilot ne ha scritta una praticamente identica. Già questo sarebbe impressionante di per sè.
La cosa che mi ha stupito di più è il fatto che la funzione scritta da Copilot aveva il mio stesso stile di scrittura del codice. Le funzioni che si occupano del logging avevano la stessa architettura. Nel caso specifico Copilot ha capito che la stessa funzione può essere utilizzata sia all’interno dell’Editor di Google Script che all’interno di un foglio Google Sheets.
Incredibile. Mi sembrava di avere una copia di me stesso di fianco a me. Una sorta di pair programming virtuale.
Detto questo posso affermare con certezza che non siamo ad un livello di perfezione tale da potere dire che Copilot può sostituire un programmatore.
In alcune occasioni ha fatto degli svarioni non male ed ha introdotto dei bug piuttosto subdoli nel codice. Questo significa che non ci si può affidare completamente a Copilot. Diciamo che è un ottimo suggeritore.
Un altro uso che ho trovato particolarmente efficace riguarda la sintassi del linguaggio e l’uso di alcune funzioni. Iniziare a scrivere una funzione per poi andare a cercare su Google la sintassi esatta di cui mi ero dimenticato è molto più veloce con Copilot. Da questo punto di vista l’aiuto è enorme.
Per ora mi ci sto divertendo parecchio anche se sono solo poche ore che lo sto utilizzando.
Per la prima volta dopo tanto tempo ho l’occasione di rivedere dei colleghi fisicamente. Quest’anno con la scusa della Milano Design Week abbiamo organizzato una serie di eventi per celebrare il nostro mondo ed un relativo ritorno alla normalità.
Abbiamo aperto un pop-up studio nel quartiere Isola, in via Farini 60.
Ci sono diversi interventi che vale la pena ascoltare. Io personalmente li ascolterò tutti dato che non ho avuto grandi occasioni di ascoltare il pensiero recente di alcune persone.
Un pochino mi sembra una cosa normale, per altri versi ha tutto il sapore della eccezionalità
L’algoritmo di raccomandazione di YouTube colpisce ancora ed in questi giorni mi propone una rassegna di streamer nostrani che se la cantano e se la suonano.
Intendiamoci. Se riesci a mettere a tavola pranzo e cena facendo streaming mentre giochi, mentre cucini o mentre ti esprimi sui massimi sistemi io non posso che riconoscere il tuo talento. In fondo è sempre meglio che andare in miniera ad estrarre carbone.
La cosa però mi intriga un pochino e quindi cado nella tana del coniglio visualizzando un video dopo l’altro scoprendo l’abisso.
Direi che le due piattaforme principali scelte dai nostri, temporanei, eroi sono Twitch e YouTube.
Io vi invito a dirigervi verso l’abisso e verificare cosa si trova in quel contesto che sembra tanto attirare tutti coloro che sono appena usciti dalla intossicazione da Fortnite e ora si dirigono verso la dipendenza da streamer.
Sto ovviamente esagerando perché, seppur raramente, qualche contenuto di valore c’è. Un esempio su tutti. Il canale Twitch di Rudi Bandiera è una bomba così come lo era, purtroppo in passato, il canale Twitch di Deadmau5 che ha smesso circa due mesi fa. In fondo non sono nemmeno pochi, dai. Ci sono sempre delle perle da scoprire.
Ci sono quindi delle persone che sono in streaming live per ore ed ore durante il corso della giornata. C’è anche chi fa maratone di giorni. Io ci penso e mi rendo conto che, in un certo qual modo, possiedono un talento. Io non riuscirei a stare collegato per ore sulla mia sediolina ad intrattenere le persone collegate. Dopo una oretta scarsa mi scenderebbe la catena e li manderei tutti a stendere. Davvero, dopo un’ora non saprei più cosa dire. Figuriamoci fare la stessa cosa giorno dopo giorno, ora dopo ora.
Hai voglia a raccontarmi che tu ti diverti. Come ampiamente dimostrato, qualsiasi paradiso dopo sei mesi diventa un inferno.
E tu però devi continuare a farlo perché con quello ci sbarchi il lunario e se non lo fai ti devi trovare un altro lavoro. In fondo è questo il punto. Se vieni retribuito, per quanto ti piaccia fare quello per cui vieni retribuito, si tratta di un lavoro. E se non lo è, lo diventa presto.
Per questa ragione ti devi contendere il pubblico che ti guarda e ti paga, più o meno direttamente ed esplicitamente.
Per questo la qualità si abbassa nel tempo e devi sempre trovare il modo per sottrarre una persona dalla vista di un altro canale per farla venire sul tuo. Purtroppo la fisiologia umana prevede che si abbia a disposizione solo due bulbi oculari che, oltretutto, sono entrambi dedicati ad osservare lo stesso schermo. Questo a meno di critici problemi oftalmici che ti permettono di sdoppiare il tuo campo visivo.
E come fai a portare la gente sul tuo canale?
Da quello che ho capito ci sono fondamentalmente quattro tecniche.
La prima è quella della corruzione. Se mi guardi posso estrarre un premio di cui ti farò omaggio e, se mi sei particolarmente simpatico, te lo firmo pure.
La seconda è quella di spararla grossa. Prendi un tema di cronaca, od una qualsiasi notizia, e ci ricami sopra la tua visione del mondo. Qui il problema è che la devi sparare sempre più grossa perché, diciamoci la verità, il nostro cervello si abitua facilmente ad un certo livello di fregnacce.
La terza è quella dell’insulto. Prendi una qualsiasi celebrità, o presunta tale, che si muove nel tuo stesso universo ed insultala. Anche in questo caso vale la proporzionalità della gravità dell’insulto. Si comincia con uno “sei uno sciocchino”, si passa al racconto delle abilità della mamma in performance non descrivibile qui e si arriva alle minacce di morte. In questo caso l’escalation è spesso esponenziale.
Infine c’è la cosiddetta “reaction” che altro non è che l’esercizio dell’esegesi di un altro video. Qui si raggiungono dei livelli di performance inverosimili. La cosa interessante è che si scatena un meccanismo ricorsivo per cui l’autore del video originale fa una reaction alla reaction e poi ancora, e ancora.
Un’oretta di questo genere di cultura mi ha convinto che è una cosa che non fa proprio per me.
Mai dire mai, ma per il momento credo che non aprirò un canale su Twitch.
E comunque ho un pochino esagerato, lo ammetto. Su Twitch c’è davvero tanta roba bella.
Ho scritto spesso in passato sul tema dei videogiochi e di quanto io, personalmente, ritenga il panorama dell’offerta attuale non più tanto attraente per il sottoscritto.
Un tempo giocavo, molto. Ora mi capita davvero molto raramente e con poca soddisfazione se non per titoli storici che con emulatori riesco a fare girare sul mio Mac. OpenTTD tanto per citarne uno.
Non mi piacciono i giochi che vengono rilasciati ultimamente, non tollero il multiplayer e detesto i modelli di business che la fanno da padrone in questo mondo.
Ulteriore conferma di quanto penso mi arriva dalla lettura di un articolo su GameRant che parla di Diablo Immortal.
Il gioco è free-to-play ma nel corso del gioco puoi usare del denaro vero per comprare oggetti e potenziamenti.
Uno youtuber ha calcolato che acquistare tutti gli oggetti necessari a portare il proprio personaggio al massimo delle sue potenzialità costerebbe l’assurda cifra di 110.000 dollari.
Non solo dovrai spendere quella cifra ma ha stimato che ci metterai anche circa dieci anni di gameplay per raggiungere quell’obiettivo.
E’ chiaro che nessuno mai arriverà a questi livelli ma mi sembra comunque uno scenario decisamente poco sano.
In questi due anni di pandemia e di conseguente isolamento ho avuto conferma riguardo un sospetto che nutrivo da tempo.
L’utilizzo della urgenza, delle tante cose da fare, e del farci sopraffare dal lavoro altro non è che un tentativo di sfuggire al pensiero della nostra situazione.
Un quotidiano stressante ed impegnativo riempie quel tempo che altrimenti non potremmo fare altro che dedicare alla analisi della nostra situazione personale. Come stanno andando le mie relazioni, il mio matrimonio e, in senso più lato, la mia vita.
La giustificazione che ci diamo è che abbiamo una vita complicata che richiede continua attenzione ed azione.
In fondo non è affatto vero. Siamo, quasi, sempre noi a scegliere il livello di complessità. Siamo noi a decidere cosa è urgente e cosa non lo è. Cosa richiede la nostra attenzione immediata e cosa non la richiede.
Abbiamo deciso di vivere una fuga continua dal bilancio della nostra esistenza riempiendola di cose per lo più inutil.
Da lungo tempo, ed in tempi non sospetti, ho deciso di mettere fine a questa fuga e fermarmi. E’ costato lacrime e sangue ma ora mi sento, finalmente, libero e risolto.
Perché parlare di lenzuola? Il motivo è semplice. Si tratta del fatto che il comportamento rilevato su questo genere di oggetti è diventato fin troppo comune.
Partiamo dal principio.
Io cambio le lenzuola del mio letto ogni tre o quattro giorni. Non appena queste vengono rimosse dal letto finiscono dritte in lavatrice affinché possano tornare allo splendore originale. I continui lavaggi causano una usura piuttosto precoce delle stesse e mi costringono a comprarne sempre di nuove.
La prima considerazione è che è ben evidente che il materiale con cui sono fatto è meno efficace di quelli che venivano usati un tempo. Io non ho mai visto mia nonna comprare delle lenzuola. Per tutta la sua vita ha usato quelle che erano parte del suo corredo da sposa.
Le seconda considerazione riguarda la mia pigrizia. Dato che sono estremamente pigro e del tutto disinteressato all’argomento le lenzuola le compro al supermercato in quello che generalmente viene chiamato “bazar”. Non mi aspetto certo la più grande qualità da questi acquisti ma, se non altro, sono a portata di mano e non mi devo sbattere più di tanto per portarmi a casa un nuovo lenzuolo. Non mi sono mai avventurato nel magico mondo dei negozi premium di biancheria per la casa. Troppo sbattimento. Potremmo dire che si tratta di un errore, e molto probabilmente è davvero così.
Il letto che è destinato ad essere ricoperto da quelle lenzuola è un letto di dimensioni assolutamente normali. Io che sono altro un metro e ottantacinque ci sto dentro giusto giusto. Non si tratta certo di un letto di dimensioni fuori dal comune.
La terza considerazione riguarda quindi il modo in cui queste nuove lenzuola si adattano al letto. La realtà delle cose è che diventano sempre più corte. Non ho preso l’abitudine di misurarle ma ogni volta mi rendo conto che il risvolto del “lenzuolo di sopra” è sempre più corto. Lo stesso vale per il “lenzuolo di sotto” che con sempre maggiore difficoltà riesco a ripiegare sotto il materasso.
L’effetto che si genera è che dopo i primi due o tre movimenti nel letto le lenzuola cominciano a vagare senza meta sopra il letto e cominciano ad arricciarsi. La mattina ti svegli con il corpo segnato dalle pieghe delle lenzuola tanto da sembra un guerriero Maori prima di andare in battaglia.
Eppure il prezzo delle stesse continua a crescere. Quindi il prezzo aumenta e la dimensione diminuisce. E’ un tentativo di aumentare i margini e di recuperare, molto probabilmente, i costi della materie prime che aumentano.
Comportamento che mi piace molto poco.
Ora sono aperto a suggerimenti su nuovi luoghi in cui possa procurarmi delle lenzuola che siano degne di questo nome.
Io penso che ci sia un problema di fondo in quasi tutte le aziende dell’universo conosciuto. Il problema consiste nel fatto che molti sono convinti che la crescita sia una necessità assoluta.
Io sono assolutamente convinto del contrario.
Da un lato posso comprendere la naturale propensione di un imprenditore a fare in modo che la propria creatura cresca nel corso del tempo. Può essere passione od interesse ma comprendo la motivazione di base.
Posso anche comprendere la spinta che arriva dagli azionisti che hanno il desiderio di fare in modo che il loro investimento cresca riconoscendogli sempre maggiori ricavi.
Entrambe le cose possono avere l’effetto collaterale di snaturare l’ecosistema che si evolve.
Gli americani hanno coniato il termine “growthism” ed è proprio di questo che stiamo parlando.
Qualsiasi crescita trascina con sé dei dolori. Possono avere la forma di cultura, attività, fine e molte altre sfumature di questi tre elementi.
Ad ogni modo possiamo facilmente che crescere non è una necessità assoluta. Non lo ha ordinato il dottore. Si può tranquillamente vivere, e benissimo, una volta raggiunta una certa posizione. Si può essere soddisfatti della dimensione della propria creatura in qualsiasi momento lo si decida. Si può avere trovato la propria zona di comfort, essere soddisfatti della mole e della qualità del lavoro che si svolge senza essere costretti a cercare altro.
Se, per esempio, guardo a quanto avvenuto in Sketchin ho da fare un paio di osservazioni. Chi mi conosce da qualche tempo sa benissimo che ho sempre sostenuto la tesi di cui sopra. Crescere non è una necessità.
Eppure nel corso degli anni siamo cresciuti, tantissimo.
Non si è trattato di ricerca di maggiore fatturato, di maggiori ricavi, di status. E’, semplicemente, accaduto.
Ci capitavano tra le mani sempre più progetti verso i quali provavamo un interesse per via del lavoro che svolgiamo e della passione di cui siamo permeati. Più progetti significa avere necessità di avere più persone di talento per poterli eseguire. Più persone si trasformano in una crescita per l’azienda. Non sempre una crescita organica ma, sempre, una crescita guidata da quelli che sono i nostri valori ed i nostri obiettivi.
Abbiamo sempre cercato di fare cose “fighe” e sempre ne cerchiamo di nuove. Credo sia il nostro maggiore valore. Non abbiamo mai sacrificato i valori in cui crediamo in funzione della pura ricerca della crescita di fatturato e ricavi. La crescita di fatturato e ricavi sono stati, e sempre saranno, un effetto collaterale di quello che facciamo. Non il contrario.
E’ pur vero che quel fatturato e quei ricavi sono lo strumento principe che cerchiamo di utilizzare nel migliore dei modi per mantenere e sostenere la nostra cultura.
E’ vero, ora abbiamo degli azionisti ed è ben evidente che essi ci spingono a crescere in fatturato e ricavi. E’ il loro obiettivo ultimo. Ci sta tutto.
Gran parte del mio lavoro è fare in modo di soddisfare le richieste degli azionisti da un lato e mantenere quello che siamo e che facciamo dall’altro. Forse si tratta dell’aspetto più complicato del mio lavoro. E’ un equilibrio instabile che richiede interventi continui per essere mantenuto.
Rifletto molto spesso sulla ripetitività della vita quotidiana. Una ripetitività che si è rischiato di acuire durante il trascorso periodo di isolamento dovuto alla pandemia.
Per pigrizia tendiamo a ripetere gli stessi gesti lasciandoci trasportare in maniera passiva dallo scorrere del tempo.
Questa è una osservazione che mi era capitato di fare in tempi non sospetti, una decina di anni fa, con un carissimo amico. Tendiamo ad evitare di prendere decisioni sulle piccole cose e ci limitiamo a ripeterle un giorno dopo l’altro. La routine del mattino, il viaggio verso il lavoro, il pranzo, la cena, la scelta dei vestiti. Ogni cosa che riempie la nostra vita quotidiana.
Alla fine mi sono sempre convinto che i cambiamenti avvengono attraverso le piccole cose, piccole decisioni, modeste abitudini.
L’effetto collaterale di questo genere di comportamento è che niente viene più notato e, ancora meno, apprezzato.
Per questa ragione cerco di modificare ogni gesto abitudinario in qualcosa di diverso. Se sono in viaggio verso una destinazione che frequento molto provo una strada diversa. Se sto comprando un prodotto al supermercato provo a cambiare marca. Se mi sto radendo provo a riprendere in mano un rasoio di sicurezza invece del rasoio a mano libera.
Sono piccoli cambiamenti nella routine ma aiutano il mio cervello a mantenersi curioso. Niente grandi obiettivi ma obiettivi minimi. Per i grandi obiettivi ci sono altri modi ma sono convinto che tutto parte dai piccoli gesti.