a.d. 2020

E’ notizia di ieri che a Policastro una coppia di uomini è stata separata da un bodyguard mentre si baciava durante una serata danzante. Questo avveniva mentre decine di altre coppie, evidentemente ritenute “normali”, si scambiavano le stesse effusioni.

A Palermo un parroco si schiera contro la proposta di legge Zan “Modifiche agli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale, in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere” durante l’omelia ai fedeli.

Questo nonostante l’articolo 7 della Costituzione della Repubblica Italiana:

Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.

Non passa giorno che qualche individuo venga aggredito, e spesso malmenato, a causa del suo orientamento sessuale.

Ma in che cavolo di paese viviamo?

Io ho sempre viaggiato molto sin da quando ero un ragazzino. Fin da subito mi sono abituato a convivere con chi è diverso da me. Ho imparato ad apprezzare il valore di questa diversità e la capacità di crescere tutti più velocemente quando si è in grado di valorizzare questa differenza.

Mi sono trovato spesso ad assistere ad effusioni di coppie eterosessuali ed omosessuali e la situazione mi ha sempre fatto sorridere, in senso positivo. La manifestazione di affetto e amore è sempre potente ed efficace.

Tantissimi anni fa con la fidanzata del tempo frequentavo una coppia omosessuale. Una amicizia acquisita grazie a lei. Dopo diverso tempo ricordo che lei mi chiese per quale motivo non avessi fatto alcuna osservazione riguardo la relazione tra queste due persone. Ricordo che risposi che non c’era niente da osservare se non il fatto che mi sembrava una bella coppia. Il fatto che fossero una coppia omosessuale non era per me un particolare argomento di discussione.

Esattamente cosa vi turba di un bacio omosessuale? Quale cavolo è la differenza di un bacio tra due uomini o due donne e quello tra un uomo ed una donna?

Il ddl Zan è necessario ed è una gran buona cosa. L’unica cosa che mi infastidisce, e davvero molto, è il fatto che sia necessario farci un ddl per proteggere che non dovrebbe averne alcun bisogno a ragion di logica.

Non voglio nemmeno parlare di tolleranza, perché è un termine che aborro. Non si tratta di tollerare, si tratta solo di non farsi menate che sono del tutto irrilevanti in una società che sia degna di questo nome. Non c’è niente da tollerare. Tollerare implica una accezione negativa rispetto alla azione che si tollera. Qui non c’è alcuna accezione negativa! E’ tutto perfettamente normale, tanto che nemmeno si dovrebbe parlare di normalità.

Nota a margine: se a qualcuno questo approccio infastidisce lo prego di bloccarmi seduta stante. Sarà un sollievo per lui, ma sopratutto per me.

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Siamo tutti fighissimi!

Oramai è più di un anno che latito quasi totalmente da qualsiasi social network. Di quando in quando posto qualche foto giusto per farmi vivo con qualche immagine del mondo reale che vivo ogni giorno. Fanno ovviamente eccezione i contenuti di questo blog che vengono diffusi urbi et orbi per una pura questione di vanità.

Oramai, ma sempre più raramente, sono quello che tecnicamente si definisce un lurker:

il lurker è un soggetto che partecipa a una comunità virtuale (una mailing list, un newsgroup, un forum, un blog, una chat) leggendo e seguendo le attività e i messaggi, senza però scrivere o inviarne di propri, non rendendo palese la propria presenza, o perché non lo reputa necessario, o perché non lo desidera.

Quando mi capita mi ritrovo in un universo praticamente perfetto.

Scorro le pagine di LinkedIn e siete tutti intelligentissimi, ricoprite tutti posizioni di rilievo e tutti avete un grande successo. Su LinkedIn ci sono poco più di 130 milioni di utenti e, accidenti, non c’è un cretino neanche a pagarlo oro. Mi sento davvero sollevato ad essere circondato da cotanta qualità, la mia per prima.

Mi sposto ogni tanto su Instagram e vedo una pletora di corpi perfetti, persone che hanno un vita sociale invidiabile da qualsiasi persona appartenente al jet set. Visitate tutti posti fighissimi e molto di frequente. Io spesso mi ritrovo in coda in tangenziale anche quando sogno di andare in vacanza. Davvero, non vi capita mai di trovarvi, per errore ovviamente, in un posto di merda? (Perdonate il francesismo, ma ci sta). Non vi capita mai di esservi abbuffati come avviene in un pranzo nuziale ed essere gonfi come una zampogna?

Faccio un salto veloce su Facebook ed un tripudio di stati ispirati, considerazioni taglienti, foto di luoghi incredibili, di esperienze inenarrabili. Io mi sento in dovere di ammetere che spesso cedo alla condizione di vivere una esistenza povera ed assolutamente scevra di qualsiasi emozione che valga la pena di condividere.

Vero è che, specialmente su Facebook, ogni tanto ci lasciamo andare. Facciamo quel commento che dovremmo tenere per noi, mettiamo quel like che non dovremmo mettere od inveiamo contro il nostro nemico di turno. Sì, su Facebook un pochino ci scappa la mano.

Mi riprendo un pochino quando vado su Reddit ed un pochino mi ritrovo nei newsgroup degli anni 80, ammesso che si frequentino i giusti subreddit. Finalmente una boccata d’aria che, purtroppo, dura poco perché entrando nel merito dei commenti si ritorna a quanto si trova su Facebook. Peccato, è durato poco.

E poi c’è la vita reale. Quando ti svegli la mattina e sembri il fratello brutto dello Yeti ma, ovviamente non posti alcuna prova. Fai colazione con il Buondì Motta ed il caffè fatto il pomeriggio prima ma cerchi nelle tue foto di repertorio la migliore colazione che hai avuto negli ultimi mesi condita con un “Buongiornissimo!”. Devi andare al lavoro con la tua macchina scassata e ti fai tre ore di coda in tangenziale ma non dici nulla a nessuno perché non è figo. Trascorri la giornata in ufficio tra noiosissime riunioni ed inutili conversazioni dove il massimo che puoi postare è la foto delle tue scarpe, ammesso che tu ti sia ricordato di metterti quelle fighe mentre vagavi stordito nei meandri della tua scarpiera. Forse ti va di lusso con la pausa pranzo, ammesso che per una volta tu voglia spendere i soldi tuoi e non i 5.32 Euro dei ticket che quei purciari della tua azienda ti danno.

E poi torni a casa, ma ti devi fermare in tintoria perché non hai più uno straccio di camicia pulita. Siamo sinceri, la tintoria non è affatto in. Sia la location che il contesto lasciano molto a desiderare.

Ti rimane l’opzione aperitivo, ammesso che qualcuno ti inviti. E’ figo ma è uno sbatti perché dopo una giornata di gimcane per sopravvivere alla quotidianità non è facile sembrare figo, soddisfatto e di successo.

Torni a casa e crolli sul tuo letto, sfatto perché la mattina rifarlo non è cosa, e cadi in un sonno vuoto e poco ristoratore.

Dai, la vita reale è questa. Siamo sinceri. Qualcuno scrisse:

I momenti veramente importanti nella vita di un uomo si contano sulle dita di una mano.

Io aggiungerei che quelli fighi si contano in numero leggermente superiore, ma non tanto. Tutto il resto è inventato.

Non siamo quello che raccontiamo, ma abbiamo bisogno di conferme da parte degli altri.

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Il mio smartwatch è diventato stupido

Prendo spunto da un interessantissimo post di Fabio Lalli su Facebook:

Sfortuna vuole che io mi trovi esattamente nelle stesse condizioni di Fabio.

Da qualche giorni i sistemi di Garmin Connect sono inaccessibili ed i siti di informazione affermano che degli hacker stanno tenendo sotto scacco Garmin con una richiesta di riscatto di 10 milioni di dollari. Quale che sia la causa di questa indisponibilità del servizio il risultato è esattamente quello di cui parla Fabio.

Mi ritrovo con uno smartwatch pagato a caro prezzo che si è ora, mi auguro temporaneamente, trasformato in un costosissimo orologio digitale in grado di comunicarmi data e ora. Stesso discorso per la bilancia connessa di cui si parla nel post su Facebook.

Quando scelsi il Garmin Fenix 6s lo scelsi in alternativa al più diffuso Apple Watch. La mia scelta fu guidata dal fatto che ritenevo Garmin più affidabile di Apple per quanto riguarda la qualità dei dati biometrici collezionati dal sistema e, in misura molto minore, per una questione estetica.

Questo oggetto si è rivelato nel tempo un grande acquisto. In realtà sono stato un utente anche del Fenix 5 ma passai al modello 6S, non appena uscito, perché questi era in grado di sopperire ad una grave assenza rispetto all’Apple Watch. L’assenza della possibilità di pagamento contactless. Nel Fenix 6 questa funzionalità è stata introdotta, sebbene con una usabilità decisamente inferiore a quella dell’Apple Watch ma comunque relativamente usabile e sufficiente per i miei scopi.

In questi giorni questo valore è completamente venuto meno.

Io ritengo che quando si progettano prodotti e servizi, specialmente in ambito consumer, la protezione dell’ecosistema e la garanzia della sua disponibilità “per sempre” debba essere una priorità assoluta. Io, come consumatore, faccio le mie ricerche e decido di investire il mio denaro nel tuo ecosistema.

In realtà non sto comprando solo un oggetto più o meno intelligente, sto comprando un ecosistema di prodotti e servizi. Il minimo che mi aspetto è che tu mantenga quell’ecosistema in cui ho investito sempre disponibile. Questo al di là delle potenziali problematiche tecniche che possono essere comprensibili. Questo vale sopratutto nel non discontinuare linee di prodotto che sono parte dell’ecosistema e sulle quali l’utente ha deciso di spendere i suoi quattrini.

Allo stesso tempo mi aspetto che l’ecosistema sia il più funzionale rispetto alle mie esigenze e che sia quindi in grado di consegnarmi una esperienza utente proporzionale all’investimento che ho fatto nel prodotto e nel servizio.

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La cravatta ed i suoi nodi

Sono oramai moltissimi anni che mi metto un completo e relativa cravatta d’ordinanza solo per matrimoni, funerali e qualche altra, rara, occasione istituzionale.

Prima era una sorta di divisa, non richiesta ma consigliata. Oggi io la chiamo alta uniforme. Oramai non mi interessa più come gli altri si aspettino che io mi vesta. E’ molto facile vedermi sempre in jeans, t-shirt e snickers quale che sia l’occasione cui devo partecipare. Se ci sono clienti io penso sempre che stiano comprando il mio cervello e non il mio guardaroba.

Anche in questo ho le mie fisime. Camicie solo con polsini alla francese doppio, nessuna cifra sulla camicia, pochette dello stesso tessuto della camicia, collo italiano.

Sulla pochette e sulla sua piegatura si potrebbe parlare ma non è questo l’oggetto di questo post.

Quando usavo i vestiti la mia fissa erano quindi le cravatte. Se togliete la fattura del completo ed il suo tessuto, la cravatta è l’unico elemento che permette un pochino di libertà e di gusto nell’abbigliamento classico maschile.

Da questo punto di vista le signore hanno molte più possibilità di scelta pur rimanendo sempre eleganti e raffinate.

Di cravatte ne possiede quindi ancora a dozzine. Ora sono stipate in un angolo del mio armadio fuori dalla vista, e dall’uso di tutti i giorni.

Se quindi puoi scegliere il tessuto e la fattura della cravatta c’è un elemento che molti trascurano. Il nodo della cravatta. In giro si vedono davvero sempre i soliti. Tipicamente il classicissimo Windsor, l’half Windsor ed il nodo Prince Albert. Poco altro. Tutti uguali.

Io negli ho maturato la capacità di farmi un grande numero di nodi della cravatta e li uso tutti quando ne ho ancora l’occasione.

Per esempio mi piace da morire il nodo Eldridge, il nodo Trinity, il nodo Prince, il nodo Merovingian e tantissimi altri di cui non ricordo il nome ma che ricordo perfettamente come fare.

E’ un modo per fare in maniera diversa quello che tutti fanno sempre senza pensare. In un certo qual modo un modo per distinguersi. Generalmente tutti lo notano a dimostrazione che ci si fa caso, ma solo se lo si fa in maniera non usuale.

Ancora una volta, tutto può essere trasformato in una esperienza ed in un modo per imparare qualcosa di nuovo. Questo non salva la vita a nessuno ma dimostra che ci hai messo la testa, che ci hai pensato.

Che non hai semplicemente soddisfatto una convenzione sociale.

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Strafalcioni

In effetti mi rendo conto di essere circondato da tante persone che, nonostante tutto, mi vogliono bene.

Giustamente, qualcuno di essi mi fa notare che mi capita di fare degli strafalcioni nei miei scritto. Mia madre, spesso, li avrebbe sottolineati due volte con due tratti blu della sua temibile matita rossa e blu. Quella matita mi fa paura ancora oggi.

Per questo non appena qualcuno mi fa notare un errore corro subito a sistemarlo.

A mia discolpa posso semplicemente dire che si tratta sempre di scritti buttati giù di getto senza grosse riflessioni e generalmente in un piccolo buco della mia agenda. Questo fa sì che la probabilità di scrivere in un Italiano poco decente aumenta oltre misura.

Detto questo, io detesto gli strafalcioni degli altri, figuriamoci i miei. Un errore di grammatica o di sintassi sono per me il più grande turn off possibile ed immaginabile.

In fondo, almeno una rilettura ci starebbe.

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Serendipity

La serendipity, o serendipità se ne vogliamo parlare in Italiano, è un concetto che mi ha sempre affascinato moltissimo.

Come molte altre volte partiamo dalla definizione:

serendipità s. f. [dall’ingl. serendipity, coniato (1754) dallo scrittore ingl. Horace Walpole che lo trasse dal titolo della fiaba The three princes of Serendip: era questo l’antico nome dell’isola di Ceylon, l’odierno Srī Lanka], letter. – La capacità o fortuna di fare per caso inattese e felici scoperte, spec. in campo scientifico, mentre si sta cercando altro.

Treccani – Vocabolario on line

Fare una scoperta cercando altro.

Mi piace questa idea di ritrovarsi tra le mani qualcosa di interessante mentre si sta cercando di risolvere un altro problema.

Se è vero che questo concetto si applica al singolo, sia questi un ricercatore, un lavorate, un insegnante e via dicendo è altrettanto vero che le probabilità di trovare qualcosa di nuovo cercando altro aumentano considerevolmente quando si lavora in gruppo.

Io penso che questa sia una cosa che ha subito un impatto enorme per via delle restrizioni cui siamo stati sottoposti nei mesi scorsi.

Da un lato è vero che molte aziende, tra le quali la mia, hanno avuto la possibilità di continuare a lavorare in modo proficuo pur avendo tutti i lavoratori in sedi remote.

E’ quindi evidente che il lavoro, nel senso stretto del termine, è comunque progredito e certamente qualche effetto dovuto alla serendipità si è comunque manifestato.

E’ comunque venuto meno tutto quel tessuto che non è propriamente lavorativo che nasce dalla condivisione delle idee con i colleghi, le chiacchiere al tavolo da pranzo od alla macchinetta del caffè. Sono venuti meno tutti quei collegamenti informali che avvengono a latere di un evento e che, spesso, ne sono la parte maggiormente interessante.

Il lavoro è diventato più asettico e sono mancati tutti quegli elementi di fertilizzazione che sono tipici delle attività collaterali.

In alcuni settori credo che questo sian un danno piuttosto grave e forse ancora non ce ne siamo resi ancora conto.

Imparare a dimenticare

Con questa fluente chioma di capelli bianchi che mi ritrovo posso dire con certezza che il traguardo più soddisfacente che ho raggiunto personalmente sia la capacità di dimenticare, e di dimenticare in fretta.

Non ho grossi rimpianti rispetto al passato. In fin dei conti sono sempre stato in grado di fare quello che volevo, spesso pagandone le conseguenze ma molto raramente scendendo a compromessi che mi fosse impossibile tollerare.

In tutto questo percorso la capacità di dimenticare, ed in fondo perdonare, è fondamentale.

Inutile vivere nel rimpianto di quello che avrebbe potuto essere o di quello che era.

Non si vive nel passato e non si vive del passato. In particolare non si vive nemmeno verso il futuro se non in una benefica tensione verso il miglioramento.

Si vive nel presente, ed il presente è puntuale. E’ fatto di istanti dei quali devi avere assoluta consapevolezza. Questa, credo, sia la strada per una esistenza felice o, se non altro, la migliore approssimazione possibile per una esistenza felice.

Albert Camus scriveva:

Che cosa è la felicità se non in sincero accordo tra un uomo e la vita che conduce?

Ecco, sta tutto qui.

Quell’accordo non lo trovi se non sei in grado di dimenticare e perdonare.

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LinkedIn è per il business

E’ una mia scelta quella di fare cross posting dei contenuti di questo blog su diversi siti, tra questi anche LinkedIn.

Ricevo un messaggio da un non contatto che evidentemente è un contatto di qualcuno che ha condiviso uno dei miei scritti che mi lascia perplesso.

Non facciamo nomi perché è poco elegante e non aggiunge granché al tema che vorrei affrontare.

Il personaggio in questione è un sedicente guru della comunicazione e grande esperto di “crescita del network”, almeno a suo dire. Si è sentito quindi in dovere di farmi conoscere la sua opinione sul mio operato su LinkedIn.

Mi viene detto che condividendo i miei post su LinkedIn, sopratutto quelli che non hanno contenuto di “business”, diminuisco in maniera grave l’efficacia del mio personal branding sulla piattaforma. Più o meno testuale.

In questi casi mi scatta in maniera del tutto automatica l’espressione: “E ‘sti cazzi”.

Punto primo. Evidentemente il concetto che abbiamo di business è piuttosto diverso l’uno dall’altra. Per me essere efficaci nel “business” è essere in grado di coniugare in maniera coerente l’emisfero destro e l’emisfero sinistro per risolvere un problema.

Punto secondo. Non ho bisogno di espandere il mio business, sopratutto quello che riguarda il mio “brand”, ammesso che ne abbia uno. Sono più che soddisfatto di come stanno andando le cose e l’equilibrio che ho raggiunto rasenta la perfezione.

Punto terzo. L’unica attenuante che gli concedo è che stesse coltivando il suo di business, tentando di appiopparmi qualche genere di consulenza sul tema che lui ritiene rilevante.

Punto quarto. Alla tenera età di cinquantatré anni io scrivo quello che mi pare, dico quello che mi pare e faccio quello che mi pare. Se non ti piace quello che scrivo passa oltre. La quantità di cose con le quali ti puoi trastullare online è praticamente infinita. Non c’è alcun bisogno di venire a rompere le scatole a me. Se vuoi discutere e approfondire sei il benvenuto, se vuoi esprimere giudizi rivolgiti a qualcun altro perché io non alcun interesse del tuo giudizio nei miei confronti. Non mi interessava prima, non mi interessa ora e non mi interesserà in futuro.

Punto quinto. Come ho sempre detto questo è un esercizio che faccio per me stesso e non per gli altri. E’ un modo di fissare in modo semi permanente i miei pensieri. Non è destinato a nessun altro scopo. Se qualcuno trova interessante quello che scrivo mi fa piacere, se viene ritenuto irrilevante bene lo stesso, probabilmente lo è per la maggioranza delle persone ma non per me.

Punto sesto. No, dai, vi ho già rotto a sufficienza su questo tema.

Ovviamente non ho risposto alla persona. E’ veramente molto raro che non risponda a qualcuno ma in questo caso il valore aggiunto di una risposta era veramente nullo.

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La filosofia del regalo

Non so per quale motivo mi sono ritrovato a pensare a questo tema oggi.

Fatto sta che mi è capitato di riflettere sul modo in cui io scelgo i regali per le persone cui tengo. Questo è il primo aspetto. Tendo a fare regali solo alle persone cui tengo. Mi urta la convenzione sociale secondo la quale è obbligatorio fare regali nelle occasioni comandate. Compleanno, anniversario, Natale e via dicendo.

Ho sempre pensato che un regalo ha il suo tempo che non è affatto scandito dal calendario. Pensi a qualcuno cui tieni particolarmente e gli fai un regalo, non necessariamente materiale.

Per me un regalo è qualcosa che dimostra vicinanza e conoscenza. Oggi ho pensato a te e mentre camminavo per te ho visto questa cosa che penso sia perfetta per te. Ancora, conoscenza e vicinanza.

Io penso che un regalo debba rappresentare la persona che lo riceve. Deve essere qualcosa che sia utile per lui e che non sia destinato a finire su uno scaffale a raccogliere polvere o, peggio, finire nella spazzatura o finire per essere riciclato.

Personalmente mi ferisce ricevere un regalo che è lontano da me e dai miei interessi. Ci rimango sempre malissimo ed è accaduto, purtroppo, spessissimo. E’ una indicazione che non mi conosci, che non vuoi spendere del tempo per pensare a cosa sarebbe adatto a me, a cosa potrebbe piacermi. Stai solo assolvendo ad un obbligo sociale senza metterci il cuore.

Il regalo ideale, al contrario, non ha tempo e non vive di scadenze. Non deve necessariamente vivere all’interno della sfera dei tuoi interessi. Se mi conosci hai certamente idea del mio modo di vivere e dei miei gusti. Potresti pensare a qualcosa che potrebbe piacermi ma che io non conosco. Diciamo un regalo di prossimità.

La chiave è il fatto che ci hai pensato. Parte del regalo è il tempo che hai speso per pensarci, per comprarlo ed incartarlo, per scrivere il biglietto con il quale me lo consegni. E’ pensiero e cura.

Trovo molto più coerente non fare il regalo. Difficilmente ci rimarrei male nel non ricevere un regalo.

E se non c’è vicinanza e affinità evita di fare un regalo.

Davvero, non serve.

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Il fascino della poesia

Che io sia piuttosto démodé nei miei gusti è cosa risaputa. Con ogni probabilità mi sarei trovato maggiormente a mio agio a condurre la mia esistenza qualcosa come centocinquanta anni fa.

Pochi sono a conoscenza del mio gusto per la poesia. Quando riesco a trovarla acquisto sempre una copia di Poesia. Ora la si trova solo in libreria ed è sempre più difficile che io riesca a trovarla. Purtroppo per via di questa pandemia le cose sembra essersi fermate ed anche la periodicità cambierà da Maggio.

Ogni tanto vedo passare qualcosa di bello sui vari social media ed in alcune occasioni rivedo passare cose che in passato mi hanno colpito e che ho amato profondamente.

Recentemente ho riletto su Facebook una delle poesie di Ernest Dowson, un poeta che tanto tempo fa ho amato molto. In realtà non si trattava del suo testo originale, in inglese, ma della sua traduzione Italiana.

Io continuo a preferire il testo originale che descrive in maniera struggente un amore impossibile. In fondo tutti gli amori tendono ad essere impossibili nel lungo periodo.

Eccola.

A Valediction

If we must part,
     Then let it be like this.
Not heart on heart,
     Nor with the useless anguish of a kiss;
But touch mine hand and say:
“Until to-morrow or some other day,
     If we must part”.

Words are so weak
     When love hath been so strong;
Let silence speak:
     “Life is a little while, and love is long;
A time to sow and reap,
And after harvest a long time to sleep,
     But words are weak.”

Ernest Dowson

Come discorso di commiato non è affatto male. Ci si potrebbero passare sopra intere notti di pensiero, memoria, ricordi e lacrime.

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Rising desk

Nel momento in cui mi sono trasferito in questa casa avevo deciso di renderla il più possibile adatta a me. Al tempo avevo deciso di eleggere una delle stanze a studio. Un luogo dove avrei potuto mettere la maggior parte delle cose che mi interessano a portata di mano.

Una componente fondamentale dello studio sono le due scrivanie che ci ho messo. In commercio ci sono cose costosissime ma considerato il fatto che non immaginavo di passarci tantissimo tempo avevo optato per una soluzione più economica.

Alla fine ho scelto le scrivanie Bekant di Ikea. Dopo il montaggio, confesso piuttosto laborioso, almeno per me, mi sono sembrate la scelta giusta. Sembrano sufficientemente solide per l’uso che ne devo fare.

Devo dire che è stata una scelta azzeccata.

Non credo di essermi mai trovato più comodo di così con una scrivania e posso semplicemente alternare la posizione seduta a quella in piedi. Per la schiena è un vero toccasana.

Mi piace stare in piedi quando sono in una conference call o quando faccio qualcosa con il mio Ableton Push. Generalmente sono seduto quando scrivo codice o documenti.

Sono ovviamente scelte personali ma in questo periodo di lockdown hanno facilitato molto il mio lavoro.

Se potete è una soluzione che vi consiglio.

Sugo al pomodoro

Cucinare mi piace molto. Circondarmi di ottime materie prime e sentire il profumo che si leva dalle pentole e dalle preparazioni. La ricerca dell’equilibrio di un piatto e della presentazioni più adatta. In fondo anche in questo caso si tratta della ricerca del bello.

Le ricette che mi danno le maggiori soddisfazioni sono le ricette semplicità. Questo perché dietro una apparente semplicità si nasconde spesso una grande complessità.

Tra queste una delle mie preferite in assoluto è la pasta con il sugo di pomodoro o pomarola come la chiamava mia nonna.

Per mia nonna nutrivo una vera e propria venerazione. Toscana di famiglia, era una cuoca strepitosa oltre che persona molto saggia. Molte delle cose che so della cucina me le ha insegnate lei quando ero davvero molto piccolo. Era un grande interprete dei piatti della tradizione toscana. Oltre alla pomarola ricordo i crostini di milza, i pici all’aglione e tante, tante altre.

La pomarola sembra un piatto semplice ed in fondo lo è: Richiede comunque la ricerca dell’equilibrio dei sapori.

Quando la faccio seguo pedissequamente le indicazioni di mia nonna. Di lei mi piaceva molto il fatto che nelle sue ricette raramente segnava le proporzioni. Lei le sapeva e le scoprivi solo se le stavi vicino mentre cucinava.

Io prendo i pomodori molto maturi e spesso mi piace cambiare varietà per cambiare gusto. Possono essere San Marzano, a grappolo o cuore di bue. Li taglio a pezzi grossi e li metto in una casseruola.

Prendo due carote di medie dimensioni, taglio anche loro a pezzi grossi e li unisco ai pomodori. Allo stesso tempo recupero due cipolle grossine, meglio se sono cipolle di Medicina, le taglio a pezzi grossi e le faccio finire nella casseruola.

Due coste di sedano che privo dei filamenti e sempre dopo averli tagliati in pezzi grossi aggiungo al resto degli ingredienti.

Aggiungo delle foglie di basilico spezzettate con le mani, aggiusto di sale e pepe e metto tutto sul fuoco.

Il fuoco deve essere gentile, come diceva nonna Ida. Bassissimo. Copro con un coperchio e lascio cuocere il tutto come se fosse un ragù per almeno due ore.

Al termine della cottura lascio scolare il composto per una oretta per raccogliere il liquido di cottura e subito dopo passo il rimanente in un passaverdure per fare la pomarola vera e propria. Cerco di spremere il più possibile per ottenerne la maggiore quantità possibile.

Mi raccomando, se lo fate usate un passaverdure ed evitate come la peste di frullatore ad immersione. La pomarola deve avere una consistenza che solo il passaverdure può darle.

A questo punto cuocio la pasta, metto un pò di salsa in una pentola e aggiungo burro e olio extravergine di oliva.

Quando la pasta è pronta la faccio saltare un pochino in padella e me la mangio con grande gusto.

Anche il liquido che si è ottenuto in precedenza può essere usato per condire una pasta. E’ fenomenale.

Una cosa semplice ma che mi riporta sempre indietro ad un momento molto felice della mia vita.

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E brava Netflix

Qualche giorno fa Netflix avvisa i suoi utenti che presto renderà disponibile la serie “L’amore nello spettro”. Questa serie narra delle avventure di “Young adult on the autism spectrum”.

Qui si manifesta il problema, e Netflix non è nuova a questi temi.

La traduzione della frase di cui sopra diviene: “Ragazzi affetti da autismo”.

Chiaramente è un errore marchiano perché non rende affatto la natura dei ragazzi in questione. Non si tratta di una malattia.

La cosa assolutamente positiva è che Netflix risponde prontamente alla richiesta di modifica.

Alla fine questo è quello che rende un brand di valore.

La sicurezza di carta

Sono reduce da una lunga conference call che aveva come tema l’aggiornamento periodico per la sicurezza sul lavoro. Ovviamente, dato il tema, la riunione riguardava solo la nostra entità Italiana e non quella Svizzera.

Ne sono uscito molto perplesso e deluso. Sensazione non nuova. La provo ogni volta che esco da un incontro di questo genere in Italia.

Sono perfettamente consapevole della importanza che questo tema ha a livello aziendale. Chi conosce Sketchin sa molto bene quanto abbiamo a cuore la sicurezza delle nostre persone ed il loro benessere. Non sempre riusciamo ad essere eccellenti ma sempre ci mettiamo tutto quello che abbiamo e tutto quello che possiamo.

Sono altrettanto consapevole della gravità del momento che stiamo attraversando a causa di questo virus che fatichiamo ad allontanare dalla nostra esistenza, personale e professionale.

Giustamente ci vengono imposti adempimenti che dovrebbero aiutare a ridurre il rischio di una nuova diffusione massiva del virus in un ambiente di lavoro che, necessariamente, è fatto di persone che si incontrano nello stesso luogo.

Fatte tutte queste premesse fatico a digerire il fatto che tutto si traduce in una serie di adempimenti fisici e virtuali. Mi spiego meglio. Si parla di cartellonistica, segnaposto, misure delle temperature, entrata con mascherina propria che deve essere abbandonata per usarne una fornita dal datore di lavoro, sanificazione, uso delle parti comuni. Una quantità di cose che alla fine si traducono in una grande check-list che se fatta così non introduce alcun valore.

Qui, molto probabilmente, il mio sentimento anarchico gioca la sua parte ma io proprio non riesco a trovare il valore dato il modo in cui questo avviene. Ho più la sensazione che l’obiettivo sia quello di “essere in regola” piuttosto che di trovare il valore in quello che facciamo. Essere in regola per essere in regola non serve a nulla.

A questo punto, dato che ce lo possiamo permettere per via della natura del lavoro che facciamo, trovo che abbia molto più senso non spendere denaro per l’ufficio ma investirlo cercando di capire quale sarà il nostro nuovo modo di lavorare. Preferisco investire il denaro per progettare il nuovo ambiente di lavoro, fisico e virtuale, di Sketchin piuttosto che spenderlo per scrivere decine di pagine che nessuno mai leggerà se non il burocrate di turno.