Di aeroporti ed aeroplani

Come accade spesso mi capita di dovere prendere un aereo per andare a visitare un cliente in Arabia Saudita. Niente di che, la solita routine.

Un tempo viaggiare in aereo mi entusiasmava moltissimo. Ci sono stati momenti nella mia carriere in cui mi pareva di vivere in aeroporto e mi divertivo un sacco. Nel mondo prima dell’11 Settembre ho anche avuto l’occasione di spendere del tempo sullo strapuntino della cabina di pilotaggio. Affascinante.

Ora mi diverto un pochino meno.

Io ho oramai le mie abitudine e le restrizioni di questo periodo mi infastidiscono.

In ordine sparso.

Quando viaggio in aereo il rasoio a mano libera è assolutamente escluso dal bagaglio a mano per ovvie ed evidenti ragione. E’ un arma fatta e finita e quindi mi pare ragionevole che non sia ammessa in cabina. Detto questo mi irrita dovermi piegare all’uso del rasoio usa e getta. Mi sembra di non essermi fatto la barba quando ho l’occasione di usarlo.

Esiste poi la limitazione che impone di non avere contenitori di liquidi di dimensioni superiori ai 100ml. Anche questo mi infastidisce. Io oramai ho il mio insieme di creme da barba, dopobarba, profumi e via dicendo dai quali mi dispiace separarmi e che non sono disponibili in quel formato.

Già queste due cose mi sembrano trasfigurare il mio aspetto quando sono in viaggio in aereo.

A questo punto dopo il calvario dei controlli di sicurezza dove la fonte primaria di fastidio sono gli impreparati che non fanno altro che alimentare una coda già di per sé infinita, sei finalmente in cabina.

In alcune occasioni posso scegliere il posto in cui mi siederò. In altre occasioni no. E’ quello il momento in cui le divinità ctonie dei viaggi si accaniscono. In genere mi fanno finire nella famigerata fila centrale.

Fila centrale di cui la maggior parte dei viaggiatori sembra ignorare la regola non scritta secondo la quale il viaggiatore con il posto centrale dovrebbe avere l’uso esclusivo dei due braccioli. Non accade mai.

Ci sono poi quei viaggiatori ingombranti per mole e comportamento. Invadono senza ritegno il tuo spazio privato più o meno coscientemente. Quello più pericoloso è quello che si addormenta durante il volo e tu assisti al progressivo avvicinamento della sua testa alla tua spalla. Si finisce con lui che ti dorme addosso. Non meno pericoloso è l’irrequieto che in genere ha problemi con la prostata che lo costringe ad alzarsi ogni sette minuti per andare in bagno. In alternativa c’è quello divorato dal verme solitario che deve procurarsi del cibo ad ogni piè sospinto.

Se riesci a scampare a questi due pericoli c’è il rischio che ti possa anche riuscire ad addormentarti. Purtroppo c’è sempre il passeggero che nel buio più totale alza la tendina ed inonda la cabina di una luce paragonabile a quella di uno stadio in notturna. Fine del riposo.

Menzione speciale per gli irrequieti da sedile reclinabile. Vuoi una sciatica trascurata, le gambe lunghe od una postura scomoda si agitano continuamente cambiando l’angolazione del sedile di fronte a te. Se stai mangiando prepara i tuoi capi di abbigliamento per la tintoria.

Ci sono infine tutti coloro al di sotto dei sette anni di età che tipicamente prenderanno a calci il tuo sedile impedendoti ogni genere di attività o riposo. Con questi tendo ad essere molto tollerante comprendendo la pena dei genitori.

Che stia diventando un vecchio lamentoso? Può essere.

LinkedIn e Corrente Debole

Ho deciso di rendere disponibili i contenuti che pubblico su Corrente Debole anche su LinkedIn.

Corrente Debole, come recita il sottotitolo, ospita davvero pensieri sparsi e spesso senza grande struttura. Osservazioni, cose che mi piacciono, cose che NON mi piacciono, esperienze, lamentazioni, giaculatorie e frattaglie varie.

Diciamo che non è proprio il tipo di contenuto classico che si trova su LinkedIn. Un luogo dove tutti cercando di venderti qualcosa o, almeno, di venderti sé stessi.

Io non ho davvero nulla da vendere. Non ne ho bisogno e non ne sento la necessità.

Trovo soltanto che in un luogo in cui si discorre principalmente di lavoro non si possa prescindere da un tocco umano. Quando si lavora con qualcuno si lavora con una persona e solo in secondo ordine con la sua professionalità.

Quindi non mi turba particolarmente condividere quello che scrivo su Corrente Debole su LinkedIn. Se vorrete leggere mi farà piacere. Se non vorrete leggere rimarrò sempre quello di prima.

L’affilatura

Oramai sono un grande appassionato della cosiddetta rasatura tradizionale.

Sì, quella con rasoio a mano libera, ciotole, saponi e pennelli da barba. Il fatto che sia un pochino fuori tempo rispetto al mondo moderno rispetto a questo genere di cose è noto a tutti coloro che mi conoscono.

L’uso del rasoio a mano libera non è banale. Richiede attenzione. Non puoi metterti a farti la barba con uno strumento come quello se hai già per la testa l’infinito elenco delle cose che devi concludere entro il termine della giornata.

Lo spazio della rasatura è uno spazio per me stesso e come tale lo vivo.

Il rasoio a mano libera richiede cura e manutenzione. Questo è uno degli aspetti che mi affascina. E’ un oggetto che non butti via una volta usato ma che se manutenuto nella giusta maniera dura una vita intera. E’ una cosa che trovo bellissima.

Affinché il rasoio continui a funzionare in maniera corretta devi affilarlo di tanto in tanto. L’affilatura è un tema complicato ed esiste una quantità enorme di teorie rispetto a come ottenere la migliore affilatura possibile. Come sempre il rischio di infilarsi in guerre di religione ed io me ne tengo ben lontano.

Detto questo il rito pagano della affilatura è un altro di quei momenti dedicati a se stessi.

E’ una operazione lunga ma non lunghissima. Anch’essa richiede attenzione e cura. Primo per non ferirsi e poi per fare un buon lavoro.

Movimenti lenti e ripetuti sempre nello stesso modo facendo attenzione a dosare i passaggi in maniera uniforme su entrambi i lati della lama. La pressione che deve essere data dal solo peso del rasoio ma facendo attenzione che tutta la lama sia appoggiata sulla superficie della pietra.

L’acqua che devi depositare sulla pietra in maniera regolare durante il processo. Il rumore della lama sulla pietra. La creazione dell slurry, quel particolato che permette la vera e propria affilatura in alcuni momenti. Il rumore della lama sulla pietra. L’attrito della lama sulla pietra che cambia durante processo di affilatura.

Il termine del lavoro quando passi la lama sulla caramella. Ed infine la prova sui peli del braccio per verificare la qualità del lavoro.

Ecco. Secondo me un pochino di poesia là dentro c’è.

Perché Corrente Debole?

E’ una domanda che ultimamente mi fanno in molti, insieme a diverse altre.

Credo che da qualche parte qui dentro ci siano ancora i razionali, ammesso ce ne fossero, originali.

L’idea è nata qualche anno fa e aveva questi presupposti:

  • Scrivere qualcosa ogni giorno salvo disastri naturali, cavallette o morte improvvisa.
  • Scrivere senza selezionare in anticipo l’argomento. Quando mi ritrovo dieci minuti scrivo quello che mi gira per la testa in quel momento. Al massimo prendo nota di qualcosa che mi ha colpito, sul mio taccuino di carta. Va detto che questo è sempre avvenuto al di là della nascita di Corrente Debole.
  • Scrivere di getto senza lavorare ad alcuna bozza. Questo perché non ho moltissimo tempo a disposizione e perché sono molto, molto pigro.
  • Scrivere in Italiano perché è la mia lingua e mi permette molte più sfumature di quanto non mi permetterebbe l’uso della lingua Inglese. Perdo lettori? Può essere. Ma anche: e ‘sti cazzi.
  • Scrivere come se stessi esponendo il mio punto di vista a qualcuno faccia a faccia. Non ho bisogno di vendere nulla, posizionarmi, farmi pubblicità, monetizzare e qualsiasi altra cosa. Sono, appunto, parole sparse.

Queste erano, e sono, le regole che mi ero imposto quando ho cominciato questo esperimento. Niente è cambiato. Ho solo deciso di ricominciare.

Ci sono cose anche piuttosto personali ma non mi preoccupa più di tanto

Vale sempre la solita conclusione. Corrente Debole serve più a me stesso che al resto del mondo. Se qualcuno trova piacere nella lettura, ben venga. In caso contrario, amici come prima.

Hack The Box

Continuo a giocherellare con Hack The Box.

Quando sono a casa da solo e ho del tempo libero da dedicargli.

Mi piace l’idea di avere a disposizione un ambiente controllato in cui imparare qualcosa sulla sicurezza informatica senza trovarmi la Polizia Postale sul portone di casa. Noto oggi che è il mio centesimo giorno sulla piattaforma.

Una occhiata veloce al mio profilo mi ricorda che sino ad ora ho “conquistato” diciassette sistemi raggiungendo l’obiettivo che in genere è quello di leggere due files più o meno protetti all’interno del sistema stesso. Mi faccio un giro sulle statistiche e scopro che nella classifica sono in posizione 526 su 246958.

Niente di cui vantarsi, direi. Se ci sono arrivato io che non lavoro in questo campo da secoli direi che ci può arrivare chiunque.

Come qualsiasi altra piattaforma anche questa ha una sua comunità e, come ogni comunità, anche questa ha le sue dinamiche. In genere cerco di essere abbastanza attivo cercando di aiutare le persone quando posso. Il genere di aiuto che fornisco aderisce alle linee guida della piattaforma. Dare indicazioni di massima affinché la persona possa trovare in autonomia la soluzione al suo problema. In altre parole: spingere le persone ad usare il proprio cervello e non quello degli altri.

Prima di arrivare al punto di questo post va detto che in funzione dei punti che guadagni ottieni una sorta di etichetta che dovrebbe rappresentare la tua abilità. Se guardo alla lista così come oggi è strutturata troviamo:

  • Noob
  • Script Kiddie
  • Hacker
  • Pro Hacker
  • Elite Hacker
  • Guru
  • Omiscent

Grazie al mio punteggio mi trovo nello status Pro Hacker, il che mi fa davvero sorridere. Marketing e relativa narrativa. Ci sta data la natura della piattaforma ed il modello di monetizzazione.

Quello che mi fa sorridere sono le dinamiche all’interno della comunità. Come vi ho detto cerco di aiutare le persone e quindi mi rendo disponibile a rispondere a domande su sitemi sui quali ho già giocherellato. Capita, purtroppo non raramente, di ricevere delle domande banali, veramente banali.

Cose del tipo: “Lo script che ho scaricato da Internet per elevare i miei privilegi sul sistema pincopallo non funziona. Cosa devo fare?”. In questo caso generalmente vado a rivedere sui miei appunti cosa ho fatto io nel caso specifico e scopro, ad esempio, che dovevi semplicemente modificare un indirizzo IP od il numero di una porta sulla quale il sistema espone un certo servizio. A questo punto in genere mi incuriosisco e vado a vedere il profilo di chi mi ha fatto la domanda e, molto spesso, vedo ranking elevatissimi. Non torna. Se davvero ne sai tanto non puoi fare queste domande.

Mi faccio quindi un giro e scopro che esiste un commercio di soluzioni ai problemi che vengono scambiate tra gli utenti.

Ancora una volta sorrido.

A me questa cosa serve in primo luogo per distrarmi, in secondo luogo perché imparo sempre qualcosa su tecnologie, prodotti e servizi che non ho mai usato ed infine perché è divertente. Non ne voglio fare un lavoro, nè desidero spacciarmi per quello che non sono.

Che senso ha fregiarsi di una etichetta se non sei nemmeno in grado di capire che cosa significhi il fatto che un file abbia un insieme di permessi 600? Proprio a nulla. Rimani sempre lo stesso deficiente di prima.

Certo agli altri bimbiminkia che ti circondano potrai dire di essere “Omniscent”. Speriamo che almeno valga come succedaneo dei feromoni per le ragazze. La mia impressione è che dicendo di essere un hacker non si rimorchi più di tanto ma può darsi che io mi sbagli.

E poi, le bugie hanno le gambe corte.

Il mito del Company Profile

Chiunque si trovi nella necessità di lavorare a stretto contatto con dei clienti ha nel propria borsa degli attrezzi questo strumento chiamato Company Profile.

Che sia fatto con PowerPoint, Keynote, Adobe Acrobat la sostanza non cambia.

Ogniqualvolta ti ritrovi a dovere raccontare chi è la tua azienda e cosa fa, alzi lo schermo del tuo portatile, apri il documento che contiene il company profile, spendi diversi minuti a capire per quale cavolo di motivo non riesci a connetterti al proiettore, tv, schermo di turno e poi cominci ad uccidere di noia i partecipanti a quella riunione con la tua presentazione.

Dite la verità ci siete passati tutti.

Dopo anni che lo fate è oramai diventato un automatismo. Potreste fare una presentazione della vostra azienda mentre state cucinando una pasta alla carbonara senza sbagliare una parola.

Ecco, è questo il problema.

Credo che molti dei miei clienti potrebbero testimoniare sul fatto che io raramente uso quel documento. In genere seguo lo script di cui sopra sino al punto in cui dovrei iniziare la mia presentazione. A quel momento dico sempre “Bene, siamo pronti. Non mi piace usare questo documento come una presentazione non interattiva e poi, avete mai visto un company profile che faccia schifo? Se usassimo come riferimento solo questo documento saremmo tutte delle aziende fighissime.”

In qualche occasione mi capita di leggere un pò di disorientamento nella platea. Questo accade ogni volta che esci dagli schemi predefiniti della relazione cliente fornitore. Riprendendo le tesi del dottor Paul McLean potremmo dire che succede perché il cervello rettiliano reagisce immediatamente ad una situazione di pericolo: “Attenzione: questo non si comporta come tutti gli altri. Scappo o combatto?”

Ovviamente lo faccio di proposito. In primo luogo per divertirmi dato che mi annoierebbe da impazzire ripetere come una scimmia poco senziente sempre le stesse cose. In secondo luogo perché voglio trovare un punto di contatto vero con chi mi ascolta. Una via che voglio trovare io e che non mi piace mi venga indicata da un navigatore come il company profile.

Per questo motivo uso quel documento come un grande contenitore di informazioni che uso saltando da una parte all’altra secondo necessità usando spesso altri strumenti quando trovo che abbia un senso.

E’ chiaro che un approccio di questo genere richiede uno sforzo maggiore. Richiede uno sforzo prima dell’incontro perché devi studiare e conoscere bene di che cosa andrai a parlare. Richiede un sforzo durante la riunione perché devi sapere improvvisare.

La chiave di tutto è metterci delle emozioni. Rendere vivo un oggetto che preso cosi come è algido. Può contenere tutto e niente. E’ neutro rispetto all’uso che tu ne farai. Il fatto che abbia la forma di prensetazione e quindi con una struttura completamente lineare lo rende molto poco flessibile. Sono anni che sto pensando a qualcosa di diverso ma la mia naturale pigrizia mi ha impedito di venirne a capo. Almeno per il momento.

Il secondo punto chiave è che devi parlare solo di quello che è rilevante per lo specifico incontro. Se vendi mele, pere, formaggio e pesce e stai visitando un pescivendolo è del tutto inutile raccontargli di quanto bene sai fare la scamorza. A lui interessa solo quanto buono è il tuo branzino. Se esci dal contesto stai solo alimentando il tuo ego o quello della tua azienda.

Il terzo punto riguarda un consiglio che mi dette uno dei miei primi mentori intorno agli anni novanta: “Devi sempre andare dal cliente con una valigetta piena”. Ai tempi non si usavano gli zaini, si usavano le valigette. La sua teoria era che si dovesse sempre andare da un cliente con qualcosa destinato a lui sin dal primo incontro. Una proposta, una ipotesi di progetto, un punto di vista. Qualcosa che gli dimostrasse che tu avessi già cominciato a lavorare per lui anche se non esiste ancora un contratto. Anche solo la conoscenza, per quanto superficiale, della sua azienda. Lo ho sempre trovato un grandissimo consiglio.

Un’altra cosa che mi turba molto osservando questo genere di documenti è che non si parla mai del fallimento. Possibile che in una azienda che ha oramai decine di anni di storia sia sempre andato tutto per il verso giusto? Tutti clienti soddisfatti e progetti di successo? Inverosimile, non trovate.

Confesso che nemmeno io ho trovato il coraggio di mettere i fallimenti dentro quel documento ma, se non altro, non trovo grande difficoltà a parlarne quando me ne viene fatta esplicita richiesta. Fa parte della natura di ogni lavoro.

Così come ho scritto ieri si tratta di riempire le parole di contenuto e non solo di forma.

La Digital Transformation è una cagata pazzesca

“Per me… la Corazzata Kotiomkin… è una cagata pazzesca!” – Seguono novantadue minuti di applausi.

Rag. Ugo Fantozzi – Il secondo tragico Fantozzi

Oramai da diverso tempo il termine Digital Transformation ha scalato la vetta dei termini che detesto con tutto me stesso scalzando il termine Innovation.

La prima cosa che mi sento di dire riguarda l’uso della lingua e quel costume, tipicamente italico, secondo il quale usando la traduzione Inglese di un termine Italiano lo rendi immediatamente più figo, spendibile e, sopratutto, vendibile.

Siamo in Italia e, grazie al cielo, la nostra è una lingua ricca, piena di sfumature e densa di poesia. Perché non usarla?

Quindi, perché la trasformazione digitale è una cagata pazzesca?

Per certi versi la risposta è piuttosto semplice. Come qualsiasi altra cosa se non riempi di contenuto la forma, non hai nulla tra le mani.

Parlare di trasformazione digitale non significa nulla, per sé. Il modo corretto di affrontare la questione è quello di parlare di trasformazione in senso lato. La componente digitale di questa trasformazione è solo uno degli aspetti.

Dobbiamo quindi parlare di trasformazione di aziende, processi, metodi, prodotti e servizi. Parte di questi possono sfruttare il digitale come strumento, altri non ne hanno affatto bisogno.

A questo punto per quale motivo si parla quasi esclusivamente di trasformazione digitale? Perché tutti ne parlano e tutti la vogliono pur non sapendo cosa sia e non conoscendo cosa voglia dire.

Perché è figa. Si vende facile. Tutti la vogliono.

Se il tuo scopo è distribuire corpi non senzienti presso le sedi dei tuoi clienti è il nuovo El Dorado. Questo assurda dinamica ha generato, e continua a generare, mostri terribili e poco efficaci. Tutte le aziende in forsennata ricerca di altre aziende che hanno la parola digitale da qualche parte nel loro statuto. Acquisizioni a nastro, spesso poco sensate.

Ho sempre sostenuto che il denaro non deve essere il fine ultimo di una azienda. Nel nostro caso ho sempre sostenuto che il denaro, quello che ci paga gli stipendi, è un sottoprodotto delle soluzioni che troviamo ai problemi che i nostri clienti ci chiedono di risolvere.

Torniamo quindi al concetto principale. Si tratta di trasformazione ed il primo punto da cogliere affinché questa trasformazione sia efficace è che deve essere una trasformazione che parte dalla cultura aziendale.

La cultura interna deve essere la prima cosa che deve essere cambiata se si desidera affrontare un processo di trasformazione radicale del proprio modo di condurre gli affari. Se questo non accade, si tratta solo di cosmesi. E, si sa, la cosmetica dura lo spazio di una giornata.

Il mio caro amico Marco Piscitelli mi disse un tempo che molte aziende sono spesso governate da minaccia, ricatto e corruzione. Non posso essere più d’accordo. Se questi sono i meccanismi che regolano un azienda non c’è trasformazione che tenga.

La trasformazione culturale impone che si modifichi il rapporto tra l’azienda ed il cliente ma, allo stesso tempo, richiede che cambino i rapporti interni. La cultura, appunto.

Ecco il più grande vulnus della trasformazione digitale se proposta in maniera non opportuna. Spesso la trasformazione digitale si dedica solo ed esclusivamente a quest touchpoint verso il cliente finale lasciando intatti i meccanismi ed i touchpoint interni. Non esiste via migliore per il fallimento.

Non esiste una ricetta per la trasformazione. Se volessimo usare una analogia è come quando andiamo dal medico. Ogni organismo è diverso e quindi ogni cura è diversa dall’altra. La stessa cosa vale per un processo di trasformazione.

Chiunque dica, e proponga, una ricetta sta raccontando una grandissima bugia. Ogni processo di trasformazione deve essere studiato e affrontato caso per caso. Non esistono approcci diversi.

Dobbiamo quindi parlare di trasformazione. Una trasformazione nella quale il digitale è una delle componenti che può giocare un ruolo fondamentale nella efficienza economica della trasformazione ma che non può prescindere da tutte le altri componenti. Si tratta di un viaggio, spesso lungo, che impone la creazione definizione di un ecosistema. Un ecosistema che, come tutti gli ecosistemi, si fondi su un equilibrio sano tra tutte le sue componenti.

Forse è il caso di cominciare a mettere del contenuto dentro le parole.

Lago

Una scelta avvenuta quasi per caso, del tutto inconsapevole sotto certi aspetti. Trovare un luogo che fosse equidistante da Milano, Lugano e Buccinasco.

Quando mi trasferii qui non avevo grandissime aspettative. Mi confortò, molto, la presenza del lago, meglio dire dell’acqua, davanti casa. Il suono della risacca che potevo sentire dal giardino di casa. Fu un succedaneo del mare che, sfortunatamente, era troppo lontano da quei luoghi intorno ai quali gravitano i miei interessi.

Fu una grande scelta.

Questo luogo è incantevole e non finisce mai di stupirti e di nutrirti.

E’ un luogo che si trasforma costantemente e possiede infinite chiavi di lettura che sembrano adattarsi allo stato d’animo del momento. Può essere chiassoso e veloce o malinconico e silenzioso.

E’ quel luogo dove arrivi la sera e tutto si normalizza nella quiete della brezza che si leva. Non senti la cacofonia della città, il traffico si diluisce in nulla e quando spegni il motore della macchina chiudi tutto fuori.

Circondato da persone che possono essere molto silenziose, in principio restie a dare confidenza, ma che presto si aprono e se non proprio ti accolgono ti fanno sentire a tuo agio.

Quasi ogni mattina o, talvolta, la sera fai una corsa sul lungolago. Poca roba. Cinque sei chilometri con te stesso. Il tempo giusto per iniziare la giornata con il cervello sgombro da pensieri o chiuderla riconoscendo che tutto è ancora possibile.

Corri e ti guardi intorno. Ogni giorno scopri qualche dettaglio in più. Una decorazione su un muro, un giardino, una pianta. Quasi tutte le persone ti salutano quando passi. Qualcuna la riconosci e basta un cenno del capo. In pochi chilometri c’è tutto. Un tesoro dietro l’altro in attesa di essere scoperto.

A me questo posto piace da morire.

Ho trovato degli amici, molto cari e anche questa è una sorpresa. Non immaginavo che quella dimensione in cui sono nato esistesse ancora nel duemilaventi. Eppure c’è. E’ tangibile. Esiste.

Venite a farci un giro. Aprite gli occhi e non ve ne pentirete.

Corrieri e Service Design

Il lavoro del corriere è molto semplice: prendi una cosa da un posto e la consegni in un altro. Ovviamente sto semplificando in maniera volutamente esagerata.

Sappiamo bene quanto può essere complessa la logistica di un corriere. Quanti documenti sono necessari, sopratutto quando si parla di spedizioni tra stati diversi. Quanta cura e attenzione richiedono le spedizioni di merci speciali.

Nonostante tutta questa complessità la promessa del servizio è quella contenuta nel primo paragrafo. Quella è la promessa che devi mantenere come azienda.

Mi trovo nelle condizioni di dovere partire per l’Riyadh, in Arabia Saudita. Per potere accede al paese è necessario un visto che si ottiene attraverso una procedura che non è complessa ma che richiede attenzione nell’insieme di documenti che devi produrre. Una serie di eventi sfortunati ha fatto sì che io abbia il volo per Riyadh questa sera e che non sia ancora in possesso del mio passaporto con il visto.

Ieri sera il sito del corriere mi dicevache il passaporto è in transito. Questa mattina il mio passaporto è in consegna, entro le diciannove.

Da ieri provo a contattare il supporto clienti del corriere per cercare di fermare il mio passaporto in deposito in modo che possa andare a prelevarlo di persona senza attendere la consegna.

Come direbbero gli Americani: long story, short. Non ci sono riuscito.

Il servizio clienti online non mi permette di scegliere il fermo deposito. A direi la verità non mi permette nemmeno di modificare l’indirizzo di consegna. I dati in mio possesso mi permettono di rintracciare e seguire la spedizione ma il sito non sembra riconoscermi come il destinatario finale della spedizione. Un vicolo cieco.

Cerchiamo di parlare con qualcuno tramite il call center. Servizio a pagamento. Come quasi tutti i call center ti accolgono con un IVR e questo fa esattamente questo. Sono in grado di rintracciare la mia spedizione e anche qui capisco che il mio passaporto è in consegna, oggi. entro le 19. Dopo avermi consegnato questa informazione, che già conoscevo, la dolce voce del sistema mi ringrazia e riaggancia. Non riesco a parlare con un essere umano.

Richiamo. Provo diversi rami dell’IVR ma il risultato è sempre lo stesso. Nessun essere umano sembra essere disposto ad ascoltarmi.

Rinuncio. n shāʾ Allāh come direbbero da quelle parti.

ʾIn shāʾ Allāh (Arabic: إِنْ شَاءَ ٱللّٰهُ‎, is the Arabic Language expression for “God willing” or “if God wills”. The phrase comes from a Quranic command which commands Muslims to use it when speaking of future events. The phrase is commonly used by Muslims, Arab Christians, and Arabic-speakers of other religions to refer to events that one hopes will happen in the future. It expresses the belief that nothing happens unless God wills it and that his will supersedes all human will.

Ovviamente questi servizi di aiuto al cliente sono stati progettati da qualcuno più o meno versato nella oscura pratica del Service Design.

In casi come questi il discorso è complesso. E’ un delicato gioco di equilibrio tra la qualità del servizio che eroghi al tuo cliente finale ed i costi che sei costretto a sostenere per erogare quel livello di servizio.

Dal punto di vista economico la scelta dell’IVR e del self care online è oramai quasi uno standard. Un sistema costa molto, molto meno di un insieme di essere umani che rispondono al telefono. Non c’è nulla di male. In casi di ordinaria amministrazione il servizio risponde esattamente alle necessità della clientela: sapere dove si trova la spedizione e sapere in che data arriverà. Nel novantanove per cento dei casi è una informazioni sufficiente.

Poi ci sono i casi come il mio. L’eccezione. Quello che si è deciso di non implementare nel sistema perché da un alto è un caso raro, dall’altro sarebbe troppo costoso gestirlo data la potenziale bassissima numerosità.

Eppure il caso memorabile è quello per cui il tuo cliente finale ti ricorderà più di ogni altro. Gli avrai risolto un problema urgente. Egli diventerà il tuo più grande advocate e tesserà le tue lodi per gli anni a venire. Ne parlerà con chiunque e tu stesso potrai usarlo nella tua comunicazione.

Quando si progetta un servizio io ritengo che l’aspetto economico sia assolutamente determinante. Negli anni mi sono veramente rotto le palle di designer idealisti convinti del fatto che con il design si possa risolvere tutto nel miglior modo possibile. Il design non è la soluzione, è parte della soluzione.

Nonostante questo, investire qualcosa per affrontare gli use case più rari trovo che sia una cosa che andrebbe fatta.

Io ne sarei stato molto contento.

Nel frattempo il mio passaporto non è ancora arrivato.

Domenica

E poi ci sono quelle domeniche. Quelle domeniche in cui ti alzi con addosso un velo di tristezza che sei certo sarà una fatica rimuovere dal tuo viso. Quelle domeniche in cui non hai voglia di farti la barba e che immagini scorreranno via senza lasciare traccia di sé.

E invece senti il suono di una notifica sul tuo telefono. Degli amici, cari, che ti invitano ad una passeggiata seguita da un aperitivo e tutto cambia direzione, inaspettatamente.

Chiacchiere, risate, confronti, punti di vista.

Vieni invitato a pranzo e ti fai degli scrupoli. Sei solo, disturberai? Si tratta solo di cortesia?

No, non è così. Capita che possano esistere ancora delle amicizie sincere in cui il valore della compagnia significa ancora qualcosa.

Altre chiacchiere, altre risate. Un pranzo, qualcosa da bere, un dolce. Ti senti a casa. Sei sereno come raramente capita quando sei solo.

Nessuna cosa materiale può essere efficaca come il calore che queste giornate lasciano dietro di sé. Nulla che potresti comprare. Il sapore genuino della compagnia che non ha secondi fini. Ancora risate, l’ultimo bicchiere. Queste righe.

E’ stata una bella domenica.

Al cinema

Questo fine settimana sono solo e decido di andare al cinema. Primo spettacolo del pomeriggio e quindi parcheggio facile e nessuna ressa particolare.

Scelgo un drammone e quindi la sala che potrebbe contenere circa centocinquante persone ne conta si e no una trentina.

Mi siedo al mio posto e vedo entrare una coppia. Sono anziani. Lui è sulla settantina e veste con una discreta eleganza. Lei dimostra qualche anno di meno. Anche lei è vestita molto bene e si muove con una grazia non comune. Entrambi hanno dei capelli bianchissimi. Si tengono per mano.

Il caso vuole che si siedano di fianco a me durante la proiezione.

Li osservo. Si tengono ancora per mano. Ogni tanto la mano di lei scivola sull’avambraccio del suo compagno con un gesto tenerissimo. Mi sento quasi un intruso in un momento di intimità.

Finisce il primo tempo. Cominciano a chiacchierare allegramente discutendo del film, della trama, di quale attore o personaggio gli sembra maggiormente riuscito. Ogni tanto ridono, di gusto. Quelle risate cristalline e sincere che denotano complicità.

Sorrido anche io.

Il film termina. Lui aiuta lei ad indossare il cappotto e lasciano la sala.

Ognuno per la sua strada.

Qualche volta funziona. Sì, qualche volta funziona.

5am

Da più di un anno a questa parte ho preso l’abitudine di puntare la mia sveglia alle cinque del mattino. Di conseguenza mi alzo sempre molto presto.

L’idea è quella di ricavarsi una spazio personale e tranquillo in cui dedicarmi alle cose che mi piacciono di più. Può essere la lettura, la consultazione di pagine web che ho salvato ma che non ho avuto il tempo di leggere, la musica, suonare la chitarra in cuffia e via dicendo.

Ogni giorno riesco a ritagliarmi due ore che altrimenti non avrei a disposizione.

Altre volte esco di casa prestissimo per andare in studio. Come oggi.

Mi piace arrivare in studio quando non c’è ancora nessuno e l’unico suono che senti sono le tue dita che scorrono sulla tastiera. Il telefono non suona, non hai alcun appuntamento di cui ti devi occupare o che devi preparare. Nessuno bussa alla tua porta chiedendoti un pò del tuo tempo. Hai il tempo fisico e mentale di fare mente locale sulle cose importanti. Impostare la tua giornata in maniera efficace.

Anche il tragitto verso lo studio sembra cambiare natura. Questi sono giorni di luna piena. Ho la grande fortuna di vivere sul lago di Como e mentre aspetto l’ascensore vedo la luna piena riflessa nel lago. Il fresco della mattina punge le guance. Sali in macchina e costeggi il lago. Non c’è traffico. Tutto sembra così tranquillo e sereno.

In giornate come questa evito di utilizzare l’autostrada. Mi piace passare per i piccoli paesi che separano Laglio da Manno. A quest’ora molti stanno ancora riposando. Tutto è tranquillo.

Continui a vedere la luna sopra le montagne Svizzere ed in alcuni momenti ancora riflessa nel lago. La sua luce illumina il paesaggio e, forse, sei un pochino più sereno.

Potrebbe essere una bella giornata.

In cucina

Lorenzo continua ad essere attratto dalla cucina e, come sempre, potrebbe essere una passione cocente e passeggera. Credo che sia una cosa naturale per un tredicenne.

Lo osservo coltivare questo suo interesse e mi stupisce il suo modo di fare ricerca sul tema. Io personalmente mi sarei messo alla ricerca di libri da leggere o, al massimo, blog a tema. Per Lorenzo il principale strumento di ricerca e informazione è YouTube e Instagram. Cifra dei tempi mi verrebbe da dire.

La stessa cosa era successa quando ci siamo avvicinati all’universo della magia con le carte. Io libri e articoli, sopratutto di Genii, lui YouTube e Instagram. Considerando quello che abbiamo imparato a parità di tempo speso direi che non esiste una sostanziale differenza tra i due approcci.

In questi giorni stavo cercando un libro di cucina per principianti da regalargli in modo che provassa anche l’ebbrezza della parola scritta.

La prima evidenza è il fatto che la cucina è molto trendy in questi anni. Deve essere l’effetto MasterChef. Ci sono centinaia di libri sul tema e scegliere è difficile.

L’altra cosa che mi ha stupito è il fatto che molti dei libri ruotano intorno a due aggettivi: facilità e velocità.

Il titolo classico è qualcosa de genere: “Cento ricette di [genere di cibo a scelta] facili e veloci per impressionare i vostri ospiti”

Questo approccio mi turba. Vero è che il libro lo devi vendere e quindi non devi allontanare i tuoi clienti dicendogli che per usare le ricette devi essere Carlo Cracco. Altrettanto vero è che non tutto può essere facile e veloce.

E’ un trend comune di ogni hobby od interesse, ma anche di qualsiasi professione. Oramai si sprecano i corsi in cui diventi specialista di qualcosa in una settimana.

Oramai sono molto sensibile a questo genere di stronzate e mi si alza sempre il sopracciglio quando le leggo.

Ogni cosa ha la sua complessità e richiede tempo e costanza per poterla padroneggiare. Non tutto può essere reso semplice e veloce.

La sostanza secondo me è che qualsiasi cosa può essere resa semplice nell’approccio, nella narrazione, nei contenuti e nel modo di esporla ad un pubblico non preparato. Non può per sua natura essere un percorso veloce.

Ultima cosa interessante nessuno dice che per diventare un maestro di qualsiasi disciplina il fallimento è uno degli strumenti principali. Provare e riprovare a fare qualcosa fino al momento in cui ogni momento è efficace e senza spreco. In questo campo i giapponesi insegnano.

Insomma, ci vuole sudore.

Aspettative

In fondo si riduce tutto ad una precisa gestione delle aspettative.

Le aspettative delle persone cui vuoi bene e che non ti vogliono bene, quelle di coloro che ti vogliono bene ma a cui tu non vuoi bene e le aspettative verso te stesso.

Nient’altro. In ultima analisi è inutile parlare di ricerca della felicità ma, piuttosto, di ricerca di un equilibrio verso le aspettative.

Lo stratagemma consiste nell’avere pochissime aspettative. Meglio ancora, nessuna aspettativa. Sono giunto alla convinzione che non avere aspettative è l’unica strada verso una esistenza serena. Si evitano una enorme quantità di delusioni, di rabbia, di rancore.

L’unico sensato approccio solido è avere aspettative solo verso sé stessi. Se si è maturati a sufficienza e si è smesso di raccontarsi delle bugie la scena è chiara. Verso te stesso puoi costruire delle aspettative ragionevoli che non rischiano di essere deluse.

Concentrandosi solo su quelle si elimina tutto il rumore di fondo e si può arrivare al nucleo. Tagliare tutto il superfluo e tutti i bisogni creati ad arte da altre persone, società o industrie.

Rimane solo l’essenziale. L’unica cosa per cui valga la pena.

Tutto il resto sono solo chiacchiere ed invenzioni.

“Grazie a Dio sono nato Italiano”

Ricomincio questo nuovo anno lavorativo con un piacevolissimo viaggio in auto alla volta del centro di Milano.

Mi accoglie la classica coda infinita in A4 fino alla uscita di Cormano condita dei classici comportamenti poco virtuosi degli automobilisti. Oramai sono convinto che il Codice della Strada si sia trasformato da un insieme di regole da rispettare strettamente ad un insieme di raccomandazioni: “Io ti dico quale è il comportamento richiesto per ogni situazione e poi tu fai come cazzo ti pare.”

Sono quindi in lenta discesa verso la città. Velocità media quindici chilometri all’ora. La fila si muove e senza alcuna indicazione del cambio di direzione una vettura si fionda nella mia corsia a velocità sostenuta. Se non avessi frenato mi sarebbe certamente venuto addosso.

Ora, io in auto non mi arrabbio mai e negli ultimi venti anni non credo di avere mai usato l’avvisatore acustico di cui, credo, sia dotata la mia vettura. Mi limito a scuotere la testa in segno di sdegno.

Mi incuriosisce un adesivo attaccato al paraurti della macchina colpevole del comportamento poco virtuoso. Questo adesivo recita: “Grazie a Dio sono nato Italiano”.

Sono perplesso. Quale motivo può spingere un essere umano senziente ad attaccare un adesivo come questo alla sua vettura? Mi incuriosisco e guardo l’autista della vettura: un signore attempato sulla sessantina con occhiali leggeri, decentemente vestito. Il classico vicino della porta accanto.

Non riesco comunque a spiegarmi perché abbia quell’adesivo sulla sua macchina. Mi sembra una cazzata di dimensioni inenarrabili e priva di qualsiasi contenuto. Che cosa significa? Pubblicizzi una cosa sulla quale non hai avuto alcuna influenza e comunque reputi utile darne notizia. La trovo una cosa populista e banale. Certamente tendente ad una visione fascista della vita comune. E poi, una volta che io ho compreso che sei Italiano, che cosa dovrebbe comportare nei confronti del potenziale giudizio che io ho di te?

Se dovessi usare il sillogismo che il tuo adesivo suggerisce dovrei dire “Io sono Italiano. Io guido di merda. Tutti gli Italiani guidano di merda.”

E’ ben evidente che io e quell’autista non abbiamo niente da spartire.

Le probabilità che quel signore appartenga alla categoria dei “Coglioni totali” è molto, molto alta.