La complessità

Ovvero, togliere, rimuovere, cancellare e ridurre.

Negli ultimi diciotto mesi, o giù di lì, mi sono dato l’obiettivo di ridurre la complessità del mio ecosistema. Tutto sommato una decisione interessante perché il lavoro che faccio impone una certa dose di complessità per sua natura.

Presa questa decisione mi sono fatto un veloce giro sugli strumenti che avevo a disposizione per raggiungere questo obiettivo. Per deformazione professionale ho finito per utilizzare il processo tipico del Design Thinking.

Citiamo il manuale e ricordiamo le cinque fasi cruciali di un processo guidato dal Design Thinking:

  • Empathize
  • Define
  • Ideate
  • Prototype
  • Test

Comincio a sezionare tutti gli elementi che sono parte della mia esistenza. La famiglia, il lavoro, le relazioni, gli interessi, i luoghi in cui vivo, gli strumenti, i prodotti e servizi che uso, gli interessi e via dicendo.

Nel momento in cui ho avuto a disposizione una mappa sufficientemente precisa la prima conclusione è stata, come dicono in Francia: “Minchia! Che casino!”

Ben chiaro il fatto che il problema chiave era la riduzione della complessità dell’intero sistema.

A questo punto è cominciata l’attività di rimozione di tutto il superfluo. Lentamente per ogni singolo elemento di cui sopra. Lavorando su se stessi è piuttosto complesso definire cosa sia superfluo o meno ma ci si può arrivare per approssimazioni successive.

In questo caso vengono in aiuto le due ultime tre fasi definite dal Design Thinking: Ideate, Prototype e Test. Togli o cambia qualcosa nell’ecosistema, costruisci un nuovo processo o sistema e testalo. Se funziona lo tieni altrimenti iteri di nuovo.

La chiave di tutto è stata segmentare il problema. Un pezzo alla volta.

Per esempio arrivo ad avere un telefono che non mi manda nessuna notifica che non siano quelle dei messaggi provenienti dai miei figli. Il programma di posta elettronica che non mostra pop-up o numero di mail non lette, la casa che è automatizzata quasi completamente e via dicendo. Questi sono esempi molto pratici dato che del lavoro fatto sul lato prettamente personale e di relazione non desidero proprio scrivere.

In sintesi, funziona.

Il che risponde anche ad una domanda che mi ero sempre posto. Possiamo usare strumenti di design per lavorare su un sistema personale? La risposta è decisamente affermativa. Il caveat sta nel fatto che lavorando su se stessi si potrebbe non essere in grado di avere l’obiettività richiesta.

L’ufficio acquisti

Chiunque si trovi in una posizione simile alla mia si è necessariamente trovato a dovere negoziare con un ufficio acquisti.

Quella dell’ufficio acquisti, o procurement come scrivono quelli fighi, è certamente una funzione chiave all’interno di una azienda. Questo è vero a prescindere dalla dimensione della azienda stessa.

Io ritengo che le funzioni chiave di un ufficio acquisti possano essere riassunte in:

  • Avere una idea chiara dei fornitori che sono in grado di fornire quei prodotti e servizi che sono necessari al funzionamento della azienda. Questo significa mettere in atto una attività di scouting continua che permetta di capire come è composto l’ecosistema.
  • Avere una idea chiara della evoluzione dei prodotti e servizi che si stanno acquistando. Nuove tecnologie, nuovi modelli di business, prodotti e servizi alternativi e/o complementari.
  • Avere profonda competenza rispetto ai prodotti e servizi che si stanno acquistando.
  • Avere la capacità di creare una relazione che sia di valore sia per l’azienda che per il fornitore.
  • Avere la capacità di negoziare il migliore prezzo in relazione al valore REALE del prodotto o servizio che si sta acquistando.

Questo in un mondo perfetto. Peccato che non sia dato vivere in un mondo perfetto e, purtroppo, nemmeno in uno prossimo al mondo perfetto.

Quello che mi capita di osservare è invece un insieme di uffici acquisti totalmente impreparati o, peggio, tesi solo alla analisi del puro aspetto economico della transazione.

Il primo elemento che mi sento di mettere in evidenza è la capacità di comprendere profondamente quello che stai comprendo. Ora, io comprendo benissimo che la velocità di evoluzione dei prodotti e servizi, sopratutto in ambito digitale, sia estremamente elevata e che sia difficile comprenderne a pieno le sfumature. Questo non toglie che ci dovresti provare. Purtroppo quello che si osserva è che troppo spesso gli uffici acquisti tendono ad utilizzare un proxy per dare un valore ai tuoi servizi. Vi faccio un esempio. Io mi definisco una Strategic Design Firm che usa strumenti di design per risolvere problemi di business. Tu non capisci fino in fondo che cosa significa perché non hai mai maneggiato la materia. Siccome non sai come fare a valutare il costo dei miei servizi mi accomuni a qualcosa che ha dentro un po’ di digitale: la web agency. Non ci siamo. Io faccio un’altra cosa e questa cosa ha un valore enormemente superiore, con tutto il dovuto rispetto, a quello che una web agency è in grado di erogare. Si finisce che dobbiamo litigare.

Il secondo elemento è che troppo spesso l’ufficio acquisti è totalmente disgiunto dalle attività di business della azienda. Troppo spesso mi trovo a presentare una proposta agli stakeholder. Questi si dicono soddisfatti dell’approccio progettuale e di un valore espresso per quell’approccio. Si arriva quindi alla frase che mi manda fuori di testa: “Per noi la proposta va bene, adesso ve la dovete vedere con l’ufficio acquisti”. Ma porca miseria, non interessa anche a te portarti a casa il progetto. Hai capito che ti posso aiutare e mi domando per quale motivo mi mandi da solo a negoziare qualcosa che sì interessa a me, ma che in fondo interessa anche a te.

Il terzo elemento è la negoziazione. Oramai è consuetudine il fatto che all’ufficio acquisti si debba riconoscere uno sconto. Dai, dite la verità. Lo facciamo tutti. Sappiamo questa cosa e quindi aggiungiamo una percentuale al valore della proposta che poi magnanimamente sconteremo all’ufficio acquisti in fase di negoziazione. Questa è un’altra cosa che fatico davvero a tollerare. Ma non facciamo prima a dirci che io ti faccio una proposta eticamente corretta e con il costo giusto, tu me riconosci quel costo e fine dei giochi. E’ chiaro che tutto questo è largamente legato al tema degli MBO. Misurare un saving annuale è facile. Lavorare su altri parametri è più complesso e richiede sforzo.

Un altro tema interessante è la minaccia. Un cliente mi disse: “Ma lo sa quanto lunga è la fila delle agenzie che voglio lavorare con noi?”. Io risposi: “Punto primo. Noi non siamo un agenzia. Punto secondo. Io credo che la fila delle agenzie che vogliono lavorare con voi sia tanto lunga quanto la lista dei clienti che vogliono lavorare con me. Cosa facciamo? Ricominciamo o la chiudiamo qui?”. Ricominciammo a parlare in maniera più efficace.

Più o meno dello stesso tenore sono le affermazioni del tipo: “Dobbiamo fare questo progetto ma abbiamo allocato solo X Euro”. Mi dispiace molto ma credo che sia un problema solo tuo. Non credo che nel mio statuto societario sia presente la parola ONLUS. Simile a questa l’affermazione: “Dovete fare un investimento.”. Mi guardo intorno e penso che l’investimento lo devi fare tu, non io.

Infine ci sono gli uffici acquisti fantasiosi. Un esempio per tutti. Anni fa lavorammo per un anno intero per una grande azienda. Ai primi di Gennaio riceviamo una lettera che nella sostanza recitava: “Caro fornitore, sono tempi duri, ti chiediamo di retrocederci il 10% del fatturato verso di noi entro il 31 Gennaio”. La lettera terminava con la velata minaccia di chiudere ogni rapporto nel caso in cui non si fosse ottemperato a questa richiesta. Ovviamente non ho nemmeno risposto. Provate voi ad andare dal fruttivendolo e dirgli: “Quest’anno ho spesso mille euro con te. Se non mi ridai cento euro non vengo più a fare la spesa con te!”. Spero che siate dei bravi centometristi.

Potrei continuare per ore con una galleria degli orrori degna del miglior museo delle torture. Credo che tutti avrebbero degli aneddoti succosi da raccontare a riguardo. Potremmo anche mettere su un bel sito web che li raccolga.

In realtà nel corso della mia carriera ho trovato anche grandissimi professionisti e professioniste che sapevano fare il loro lavoro con grande professionalità e competenza. Persone che davvero avevano a cuore sia il bene della azienda per la quale lavoravano che il bene del loro fornitore.

Forse sarebbe il caso di rimettere del contenuto di valore nella parola “partner” e metterci un pò di cuore. Ché non guasta mai.

Idioti, ed ignoranti

E’ notizia di qualche giorno fa. Un manipolo di idioti razzisti fa irruzione nottetempo in un bar di Rezzato e lascia scritte e segni manifestamente razzisti.

Mi fermo con gli epiteti che mi piacerebbe rivolgere agli esecutori di questo gesto, sebbene ne avrei una sequenza molto lunga ed originale da scrivere. Credo che il fatto, purtroppo, si commenti da solo.

Quello su cui mi piacerebbe soffermarmi è la natura dei simboli che sono stati utilizzati.

Carissimi i miei idioti razzisti, anche, e sopratutto, per esprimere il proprio odio è necessaria una solida base culturale.

Ecco. Andate a vedere le immagini relative al fatto in questione. Subito dopo averlo fatto fate una veloce ricerca di episodi simili in Italia, e nel mondo. Noterete una cosa decisamente interessante: in moltissimi casi la rappresentazione della svastica è sbagliata. In alcuni casi è disegnata al contrario, in altre i bracci sono per metà nel verso sbagliato e via dicendo.

Volete fare i razzisti? E studiate almeno un pochino quella pseudo-cultura alla quale sembra vogliate rifarvi.

Un simbolo ha un potere solo se lo rappresenti nella maniera corretta.

In questo caso serve solo a rappresentare il fatto che sei un idiota, un razzista, uno che ha studiato poco e male e, in definitiva, un emerito coglione.

Un abbraccio alla ragazza che è stata oggetto di questa ingiuria ingiustificabile. La parte pensante di questo paese sta dalla sua parte, ed io con lei.

Fare il pane

Il pane è sempre stato un elemento fondamentale e fondante per ogni cultura. Ha un significato ancestrale ed è il simbolo principe della alimentazione.

Culturalmente gioca un ruolo chiave e non a caso si dice “portare a casa la pagnotta” significando che si posseggono i mezzi per sopravvivere. Il pane diventa quindi elemento di vita

Per questo il tema mi è sempre interessato. C’è una enorme varietà nella cultura della panificazione e spesso ha elementi distintivi rispetto alla cultura in cui la panificazione avviene.

Fare il pane è una sorta di rito.

Ci sono tanti modi per avvicinarsi a questo mondo. Ce ne sono di semplici e veloci. Altri richiedono tempo e applicazione.

Io parto sempre dalla preparazione del lievito madre. Lo faccio, lo coltivo, lo rinfresco e mi capita di lasciarlo morire per incuria. Per mesi non me ne occupo più per poi ricominciare a farlo vivere per panificare ancora.

Sebbene il lievito madre venga generalmente considerato una cosa complessa nella realtà delle cose il concetto è molto semplice.

Prendi 50 grammi di farina con una discreta forza, 50 grammi di farina integrale, 100 millilitri di acqua tiepida ed un cucchiaino di miele. Mischi tutto e metti a riposare per un paio di giorni in un contenitore coperto con un piattino. Passato questo tempo prendi 50 grammi del composto, 100 grammi di farina e 100 millilitri di acqua e mischi per bene. Lasci riposare per 24 ore e da quel punto in avanti il tuo lievito madre comincia la sua vita.

All’inizio l’odore è acido. I batteri si stanno moltiplicando all’interno del composto e con il tempo si crea un equilibrio delicato che trasforma la composizione. L’odore si trasforma in un profumo che si avvicina a quello dello yogurt.

Quando la mattina ti alzi e mentre bevi il caffè vedi il barattolo sulla credenza puoi vedere che è vivo. Il livello si è alzato durante la notte e la superficie è costellata di minuscole bollicine. Il lievito sta facendo il suo lavoro e, se lo desideri, sei pronto per la panificazione.

A questo punto puoi prendere una delle inifinite ricette per fare il pane e metterti al lavoro.

A me piace fare tutto con le mani. Per fare il pane non mi piace l’uso di macchine impastatrici. Mi piace il contatto con gli ingredienti. L’acqua e la farina che si attacca alle dita. La senzazione del composto sulle mani.

Mentre impasti senti che la consistenza del prodotto cambia con il tempo. La materia diventa lentamente più plastica. Tecnicamente all’interno del composto si sta creando la gabbia glutinica che è uno dei grandi segreti, ammesso che ne esistano, della panificazione.

Con il tempo impari a capire quando il composto è pronto per la fase successiva.

Una delle mie ricette per il pane preferita richiedere circa otto ore di cura in cui si alternano diverse fasi. E’ una infinità di tempo. In fondo non basterebbe salire in macchina ed andare in panetteria a comprarlo? Quindici minuti ed il gioco è fatto.

E’ vero. Sarebbe molto più facile.

Nonostante questo continuo a farlo perché è una soddisfazione incredibile.

Arrivi alla fase finale. Il momento in cui metti il pane in forno. Il profumo del pane comincia a diffondersi in cucina e provi soddisfazione, grande soddisfazione. Al termine della cottura levi il pane dal forno ed il processo non è ancora completo. Non puoi tagliare il pane subito dopo averlo tirato fuori dal forno. Il raffreddamento completa parte della trasformazione chimica del composto e devi aspettare prima che tutto si stabilizzi nella sua forma finale.

Nel frattempo lo guardi e lo annusi.

Finalmente arriva il momento in cui puoi tagliarlo ed assaggiarlo.

E lo hai fatto tu.

Sottolineare i libri

Credo che sottolineare i libri che posseggo sia una cosa che faccio da sempre. Quando leggo qualcosa che mi colpisce non posso fare a meno di sottolinearlo od evidenziarlo in qualche modo. Allo stesso tempo riporto nell’ultima pagina del libro il numero della pagina in cui ho sottolineato qualcosa.

Molto spesso ricopio il passaggio sottolineato nel taccuino che sto utilizzando in quel momento.

Per sottolineare uso sempre una matita, normalmente un matita con una mina HB o 2B. Uso sempre un tratto leggero come forma di rispetto verso il libro.

Anche ora che uso moltissimo il mio Kindle faccio la stessa cosa evidenziando quesi tratti che mi interessano. A latere uso il servizio offerto dal clippings.io per avere un sostituto digitale del mio taccuino.

Mi piace riprendere in mano i miei vecchi libri e andare a rileggere quelle parti che avevo sottolineato. In alcune occasioni mi ritrovo in quello che leggo. In altri momenti mi domando per quale motivo quel passaggio mi avesse colpito. Forse era un passaggio adatto a quel momento particolare della mia vita e allora ne valeva la pena.

Sono anche il genere di persona che ritaglia gli articoli dai giornali e dalle riviste. Una cosa che faceva mia mamma e che mi ha lasciato in erefità. Per certi versi è una cosa assolutamente affine al sottolineare i passaggi nei libri.

Domenica scorsa mi è capitato di leggere un articolo di Paola Mastrocola su Domenica de Il Sole 24 Ore e si parlava proprio di sottolineature.

Il secondo e ultimo pensiero è che sottlineiamo i libri. Ci piace da morire, ma più che un piacere è una necessità. Non riusciamo a leggere senza sottolineare, ci pare di non capire, di non trattenere nulla.

Sottolineare è fermare le parole nella nostra testa (anche se poi non basta, dovremmo anche tornarci su e rileggerle). Innanzitutto è scegliere che cosa vale la pena di fermare. Avere ancora un ruolo, come diceva Nicola.

Leggere non è farsi scivolare le pagine addosso, è scegliere a ogni pagina cosa salvare del mondo. Sottolineare è almeno un primo gesto, l’indizio di non volere essere travolti dalla corrente che tutto porta via.

Ogni volta che incontriamo un libro sottolineato, quindi, dovremmo essere molto felici: è la traccia che qualcuno è passato prima di noi e ha messo in salvo qualcosa, e ora tocca a noi.

La lettura non è mai del tutto solitaria.

Credo in ogni singola parola di questa citazione.

Quello è il motivo per cui mi piace comperare libri usati. La sorpresa di trovare sottolineatue o, ancora meglio, note a margine. Così come trovare il nomer del proprietario o, in quelli ancora più vecchi, un ex libris. La storia di una vita passata di quell’oggetto magico che è il libro.

Per certi versi lo stesso vale anche per la lettura sul Kindle. Anche in quel caso vedi quante persone hanno sottolineato un particolare passaggio. Se vogliamo meno romantico e più algido di quanto si prova con un libro fatto di carta ma altrettanto emozionante.

E poi, sempre grazie a quella citazione, scopri anche il sito della Fondazione Hume e ti pare di avere trovato un tesoro.

La serendipità è sempre dietro l’angolo.

Il mestiere del designer

Mi capita spesso in questi anni di fermarmi a riflettere su quali siano i tratti caratteristici del mestiere del designer. Considerazioni fatte da un punto di vista lontano dato che non posso certo considerarmi un designer.

La prima osservazione riguarda il fatto che è un mestiere relativamente giovane rispetto ad altri più tradizionali. Nasce in un momento in cui la velocità di trasformazione delle aziende tende ad essere molto alta e per questa ragione è difficile stabilire quale sia il perimetro del mestiere del designer.

Oltre a questo cominciano ad esserci specializzazioni molto diverse nel campo del design. Service Design, Visual Design, Interaction Design, Business Design e chi più ne ha più ne metta.

Possiamo quindi parlare più di tratti caratteristici del designer più che di una raccolto di skill verticali.

La capacità di leggere il comportamento delle persone credo che debba essere in cima alla lista e, forse, rappresenta l’essenza dell’essere un designer. Avere la capacità di comprendere, ed interpretare, il comportamento umano per potere soddisfare aspirazioni ed aspettative con degli artefatti fisici o digitali. Come sempre in questo campo dobbiamo leggere questo elemento sia nel contesto del cliente esterne che in quello del cliente interno.

Questo ci conduce direttamente al secondo tratto. L’equilibrio. Credo che essere un designer consista nella continua tensione verso la ricerca dell’equilibrio tra le parti. Trovare il modo di consegnare al cliente esterno la migliore esperienza possibile e, allo stesso tempo, permettere al cliente interno di raggiungere i suoi obiettivi.

Esiste un’altra tensione chiave in questo mestiere. La tensione tra un aspetto prettamente creativo e la ncessità di arrivare ad una soluzione “possibile”. Troppo spesso ho visto grandi voli pindarici del tutto irrealizzabili dal punto di vista tecnico o di processo. Mi verrebbe da dire che quella è più arte che design. Per questo credo sia assolutamente necessario che il design si doti di un processo ben strutturato che sia in grado di fare divenire realtà un processo creativo.

Il designer risolve problemi con soluzioni tangibili.

Il buon designer tende ad avere una coscienza molto ben definita e questa si rifletta in maniera diretta nel suo lavoro. Molto spesso vedo riflessa questa coscienza, od umanità, nelle attività che egli coltiva al di fuori del suo lavoro. Se volessimo banalizzare potremmo dire che i designer sono delle brave persone.

Il designer è un giocatore di squadra. E’ un contesto di team dove riesce a dare il meglio di sé e dove si genera una alchimia eccezionale. La somma dei talenti di un team si amplifica enormemente rispetto alla singolarità. La capacità di contenere il proprio ego gioca in questo caso un ruolo fondamentale. Questo è per un elemento chiave per me quando seleziono delle persone. Potrai anche essere un designer di grande talento ma se percepisco che il tuo ego è troppo sviluppato non ti assumerò mai.

Il designer tende ad essere un spirito libero e per questo ha la necessità di vivere in un contesto chi gli permetta di esprimersi. Questo significa che metterlo in un contesto lavorativo classico fatto di orari, regole, limiti è come mettere un leone in gabbia.

Il designer è un grande comunicatore. Deve essere capace di spiegare, raccontare e narrare il risultato del suo lavoro e tutti i designer che conosco sono in grado di farlo.

Infine il designer oggi deve avere una consapevolezza dei meccanismi che regolano le attività delle aziende moderne. Oramai non si può più prescindere da una certa consapevolezza del “business”. E’ un universo che deve necessariamente comprendere, almeno superficialmente, per essere efficace nel suo lavoro. Questo avviene perché oramai egli non vive più “ai confini dell’impero” come era qualche anno fa. Oggi il designer si trova sotto i riflettori ed è chiamato a risolvere problemi che sono vitali per la sopravvivenza dell’azienda.

Curiosità e rischio

Sino dall’inizio della mia carriera ho sempre alternato posizioni che mi vedevano nel ruolo del cliente od in quello del fornitore. Potremmo dire che sono i due lati della barricata.

Da una parte devi comprare, dall’altra devi vendere. Mi è sempre piaciuta questa alternanza sebbene negli ultimi dieci anni abbia giocato molto di più nel campo del fornitore.

Sono due facce della stessa medaglia.

Per indole, carattere e formazione mi è sempre piaciuto prendermi dei rischi. In qualche occasione erano dei rischi calcolati, in altre dei veri e propri rischi senza alcuna rete di protezione.

Vediamo la definizione di rischio dal vocabolario Treccani:

rìschio (ant. risco) s. m. [der. di rischiare]. – 1. a. Eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili (è quindi più tenue e meno certo che pericolo):

La definizione è cristallina.

Dobbiamo comunque fare un passo avanti rispetto alla definizione. Perché si corre un rischio? Direi che la risposta è ovvia: si corre un rischio per ottenere un vantaggio nel caso in cui il danno non si manifesti.

Io trovo che oggi si sia sempre meno disposti a correre dei rischi. Si tende ad appiattirsi ad un quieto vivere personale e professionale che non conduce a nessun tipo di evoluzione.

Il rischio è fondamentale nella evoluzione personale e professionale e non può che essere alimentato dalla curiosità. Sia che tu sia un cliente che un fornitore devi correre dei rischi.

Muoversi continuamente in ambienti e contesti non affini alla nostra sfera di influenza ci pemette di avere diverse lenti attraverso le quali leggere quello che accade e, se siamo attenti, disegnare un potenziale futuro.

Se ci si fossilizza nel proprio contesto non si può ottenere altro che aridità intellettuale. Certo, è una scelta molto facile perché è la strada più semplice da percorrere.

Curiosità è anche lontananza dall’abitudine. Leggere di cose che non sono strettamente pertinenti alla tua attività o ai tuoi interessi. Cambiare strada ogni giorno quando ti sposti verso l’ufficio e guardarsi intorno per scoprire cose nuove. Prendersi del tempo per imparare cose fuori dalla propria zona di comfort. Fregarsene del giudizio delle altre persone.

Credo che solo una sana commistione di rischio e curiosità possano condurre ad una piena consapevolezza del proprio ruolo personale e professionale.

La manomissione delle parole

L’uso della parole e, come suggerisce il titolo di questo scritto, la loro manomissione sono dei temi che mi stanno molto a cuore. Credo che coloro i quali mi leggono da qualche tempo ne abbiamo piena contezza.

Mi è capitato di parlarne anche questa mattina con una cara amica. L’importanza dell’uso corretto del linguaggio per esprimere quello che siamo e quello che pensiamo.

La parola dovrebbe essere il fondamentale meccanismo di relazione con gli altri sia dal punto di vista professionale ma, ancor di più, dal punto di vista personale.

Scegliere le parole. Decidere come orgranizzarle in un discorso di senso compiuto che sia in grado di trasmettere un contenuto. Dargli il valore che si meritano.

Anche giocarci, perché no. In fondo sono uno strumento così magicamente malleabile.

Il caso vuole che proprio in questi giorni stia leggendo “La manomissione delle parole” di Gianrico Carofiglio. Si tratta certamente di una profonda riflessione sulla lingua che merita di essere letta dalla prima all’ultima pagina. Se dovessi fare un appunto direi che forse ci si sofferma un pochino troppo sull’uso del linguaggio di un nostro vecchio Presidente del Consiglio dei Ministri ma, a parte questo, si tratta di un gioiello.

La cura nella citazione delle fonti è maniacale e sono tutti testi che ho già inserito nella mia lista dei desideri personali.

Le parole sono importanti. Davvero.

Molti anni fa fui colpito da un altro libro: “Le parole non le portano le cicogne” di Roberto Vecchioni. In questo caso un romanzo. Delicato e struggente. Non per tutti.

Se amate le parole credo che non dovreste farveli sfuggire.

Rifugi

Credo che ognuno di noi abbia dei rifugi in cui riparare quando se ne sente il bisogno. Bisogno di staccare dalla densità della quotidianità, dalla pressione della giornata, dalle persone, dal rumore.

I miei preferiti rifugi sono tre.

In primo luogo la lettura. Sono un lettore compulsivo. Leggo di tutto. Libri, riviste, quotidiani. Ritaglio, archivio, annoto e sottolineo. La lettura mi trasporta in mondi paralleli e lì dentro posso nascondermi quanto a lungo desidero. Da qualche anno il genere giallo mi affascina. Mi trovo daccordo con Friedrich Glauser quando dice che il giallo rimane “l’unico mezzo per diffondere idee ragionevoli”. Un pochino estremista in effetti.

Il secondo rifugio è la musica. Da un lato la musica ascoltata. Che sia l’aria di un opera od un concerto di Jimi Hendrix passando da un buon blue d’annata ed i classici del jazz. Niente mi rilassa come il Má vlast di Bedřich Smetana. Niente mi emoziona di più dell’album Chet Baker Sings. E poi c’è la musica suonata su una delle mie chitarre. Vagare a caso tra le note e alzare il volume coprendo tutti i suoni che vengono dall’esterno. Paradiso.

Il terzo rifugio è la programmazione. Scrivere codice. In genere questo lo faccio quando ho bisogno di ordine. Strutture ben definite, regole certe. Razionalismo quasi assoluto. La trovo una cosa molto rilassante e null’altro mi fare stare bene come un pezzo di codice che sia elegante e funzionale. Se poi funziona al primo lancio del programma, ancora meglio.

La magia delle carte

Sono davanti al Gate 27 dell’aereoporto King Khalid International Airport in attesa del volo che mi riporterà a casa. Non c’è nessuno ed il volo sarà quasi completamente vuoto.

Da quando ho iniziato ad interessarmi di magia, ed in particolare di magia con le carte, mi porto sempre con me qualche mazzo di carte. Questo genere di giochi richiede una certa manualità ed un discretto allenamento. In queste occasioni faccio pratica e mi distraggo quel tanto che basta per fare passare il tempo.

Lo stesso accade in questa occasione.

Mentre sto giocherellando con le carte si avvicina un ragazzo e si presenta. Si chiama Sarem ed è in viaggio verso Milano con la moglie e la bimba di 3 anni. Mi chiede per quale motivo sto giocando con le carte e gli spiego che è un passatempo e che in genere faccio qualche gioco di magia.

“Do you mind showing me some?”. Gli sorrido apertamente e comincio con un grande classico che adoro: Twisting the Aces di Dai Vernon. Nella sua semplicità trovo che sia un capolavoro con un enorme potenziale narrativo. Non mi era mai capitato di farlo in lingua inglese ma me la cavo piuttosto bene. Faccio un altro paio di giochi fino a che non veniamo chiamati all’imbarco. Ci salutiamo calorosamente e saliamo a bordo.

Il volo è davvero vuoto. Viaggiamo su un Airbus A320 e ci saranno a bordo una quindicina di persone. Mi accomodo al mio posto ed il viaggio comincia.

Sarem si avvicina di nuovo e mi dice che sua moglie non ha visto i giochi che gli ho fatto davanti al gate e mi chiede se gli posso fare la cortesia di ripeterli per sua moglie. Annuisco dicendogli che non c’è nessun problema. Mi raggiungo ed eseguo gli stessi giochi aggiungendone un paio.

Passa una hostess e ci vede. Si ferma ad osservarci e mi chiede se anche lei può vedere qualcosa con le carte. La accontento. Si avvicina anche la sua collega e oramai intorno al mio sedile c’è un piccolo pubblico. Eseguo davvero dei grandi classici tutto sommato piuttosto semplici e che è possibile fare senza alcuna preparazione.

Dopo circa un quarto d’ora tutti mi ringraziano e ritornano ai loro posti. Io mi immergo nelle mie letture dopo avere riposto le carte nella loro custodia.

Questo genere di cose mi accade spesso. Non so per quale motivo ma le carte, ed i giochi con le carte, sembrano avere sempre grande attrattiva verso le persone. Ogni volta che tiro fuori un mazzo di carte e comincio a fare qualche esercizio c’è sempre qualcuno che si avvicina e che chiede di vedere qualcosa.

A me questa piace da impazzire. Ovviamente perché soddisfa pienamente il mio ego e poi perché mi mette sempre in contatto con gente nuova. Terminati i giochi in genere ci fermiamo sempre a fare due chiacchiere. Io ho raccontato loro una storia con le carte e loro mi raccontano la loro. Per quale motivo stanno viaggiando, dove stanno andando, con chi. Io faccio lo stesso ed avviene la magia della comunicazione tra perfetti sconosciuti. Incontri che non hanno mai un seguito ma che rappresentano comunque un contatto umano che in genere non avviene mai in un non-luogo come l’aeroporto.

Mi fermo a riflettere su questo fatto e su come un gesto del tutto analogico venga percepito come qualcosa che spinge perfetti sconosciuti a parlarsi e a condividere delle storie. Ne rimango sempre affascinato e colpito.

Da ogni viaggio si porta sempre a casa qualcosa di prezioso e, come sempre, le cose immateriali sono quelle di maggior valore.

Ora dovrei chiedere a Saudia un indennizzo per l’onboard entertainment che ho erogato gratis et amore dei.

Di aeroporti ed aeroplani

Come accade spesso mi capita di dovere prendere un aereo per andare a visitare un cliente in Arabia Saudita. Niente di che, la solita routine.

Un tempo viaggiare in aereo mi entusiasmava moltissimo. Ci sono stati momenti nella mia carriere in cui mi pareva di vivere in aeroporto e mi divertivo un sacco. Nel mondo prima dell’11 Settembre ho anche avuto l’occasione di spendere del tempo sullo strapuntino della cabina di pilotaggio. Affascinante.

Ora mi diverto un pochino meno.

Io ho oramai le mie abitudine e le restrizioni di questo periodo mi infastidiscono.

In ordine sparso.

Quando viaggio in aereo il rasoio a mano libera è assolutamente escluso dal bagaglio a mano per ovvie ed evidenti ragione. E’ un arma fatta e finita e quindi mi pare ragionevole che non sia ammessa in cabina. Detto questo mi irrita dovermi piegare all’uso del rasoio usa e getta. Mi sembra di non essermi fatto la barba quando ho l’occasione di usarlo.

Esiste poi la limitazione che impone di non avere contenitori di liquidi di dimensioni superiori ai 100ml. Anche questo mi infastidisce. Io oramai ho il mio insieme di creme da barba, dopobarba, profumi e via dicendo dai quali mi dispiace separarmi e che non sono disponibili in quel formato.

Già queste due cose mi sembrano trasfigurare il mio aspetto quando sono in viaggio in aereo.

A questo punto dopo il calvario dei controlli di sicurezza dove la fonte primaria di fastidio sono gli impreparati che non fanno altro che alimentare una coda già di per sé infinita, sei finalmente in cabina.

In alcune occasioni posso scegliere il posto in cui mi siederò. In altre occasioni no. E’ quello il momento in cui le divinità ctonie dei viaggi si accaniscono. In genere mi fanno finire nella famigerata fila centrale.

Fila centrale di cui la maggior parte dei viaggiatori sembra ignorare la regola non scritta secondo la quale il viaggiatore con il posto centrale dovrebbe avere l’uso esclusivo dei due braccioli. Non accade mai.

Ci sono poi quei viaggiatori ingombranti per mole e comportamento. Invadono senza ritegno il tuo spazio privato più o meno coscientemente. Quello più pericoloso è quello che si addormenta durante il volo e tu assisti al progressivo avvicinamento della sua testa alla tua spalla. Si finisce con lui che ti dorme addosso. Non meno pericoloso è l’irrequieto che in genere ha problemi con la prostata che lo costringe ad alzarsi ogni sette minuti per andare in bagno. In alternativa c’è quello divorato dal verme solitario che deve procurarsi del cibo ad ogni piè sospinto.

Se riesci a scampare a questi due pericoli c’è il rischio che ti possa anche riuscire ad addormentarti. Purtroppo c’è sempre il passeggero che nel buio più totale alza la tendina ed inonda la cabina di una luce paragonabile a quella di uno stadio in notturna. Fine del riposo.

Menzione speciale per gli irrequieti da sedile reclinabile. Vuoi una sciatica trascurata, le gambe lunghe od una postura scomoda si agitano continuamente cambiando l’angolazione del sedile di fronte a te. Se stai mangiando prepara i tuoi capi di abbigliamento per la tintoria.

Ci sono infine tutti coloro al di sotto dei sette anni di età che tipicamente prenderanno a calci il tuo sedile impedendoti ogni genere di attività o riposo. Con questi tendo ad essere molto tollerante comprendendo la pena dei genitori.

Che stia diventando un vecchio lamentoso? Può essere.

LinkedIn e Corrente Debole

Ho deciso di rendere disponibili i contenuti che pubblico su Corrente Debole anche su LinkedIn.

Corrente Debole, come recita il sottotitolo, ospita davvero pensieri sparsi e spesso senza grande struttura. Osservazioni, cose che mi piacciono, cose che NON mi piacciono, esperienze, lamentazioni, giaculatorie e frattaglie varie.

Diciamo che non è proprio il tipo di contenuto classico che si trova su LinkedIn. Un luogo dove tutti cercando di venderti qualcosa o, almeno, di venderti sé stessi.

Io non ho davvero nulla da vendere. Non ne ho bisogno e non ne sento la necessità.

Trovo soltanto che in un luogo in cui si discorre principalmente di lavoro non si possa prescindere da un tocco umano. Quando si lavora con qualcuno si lavora con una persona e solo in secondo ordine con la sua professionalità.

Quindi non mi turba particolarmente condividere quello che scrivo su Corrente Debole su LinkedIn. Se vorrete leggere mi farà piacere. Se non vorrete leggere rimarrò sempre quello di prima.

L’affilatura

Oramai sono un grande appassionato della cosiddetta rasatura tradizionale.

Sì, quella con rasoio a mano libera, ciotole, saponi e pennelli da barba. Il fatto che sia un pochino fuori tempo rispetto al mondo moderno rispetto a questo genere di cose è noto a tutti coloro che mi conoscono.

L’uso del rasoio a mano libera non è banale. Richiede attenzione. Non puoi metterti a farti la barba con uno strumento come quello se hai già per la testa l’infinito elenco delle cose che devi concludere entro il termine della giornata.

Lo spazio della rasatura è uno spazio per me stesso e come tale lo vivo.

Il rasoio a mano libera richiede cura e manutenzione. Questo è uno degli aspetti che mi affascina. E’ un oggetto che non butti via una volta usato ma che se manutenuto nella giusta maniera dura una vita intera. E’ una cosa che trovo bellissima.

Affinché il rasoio continui a funzionare in maniera corretta devi affilarlo di tanto in tanto. L’affilatura è un tema complicato ed esiste una quantità enorme di teorie rispetto a come ottenere la migliore affilatura possibile. Come sempre il rischio di infilarsi in guerre di religione ed io me ne tengo ben lontano.

Detto questo il rito pagano della affilatura è un altro di quei momenti dedicati a se stessi.

E’ una operazione lunga ma non lunghissima. Anch’essa richiede attenzione e cura. Primo per non ferirsi e poi per fare un buon lavoro.

Movimenti lenti e ripetuti sempre nello stesso modo facendo attenzione a dosare i passaggi in maniera uniforme su entrambi i lati della lama. La pressione che deve essere data dal solo peso del rasoio ma facendo attenzione che tutta la lama sia appoggiata sulla superficie della pietra.

L’acqua che devi depositare sulla pietra in maniera regolare durante il processo. Il rumore della lama sulla pietra. La creazione dell slurry, quel particolato che permette la vera e propria affilatura in alcuni momenti. Il rumore della lama sulla pietra. L’attrito della lama sulla pietra che cambia durante processo di affilatura.

Il termine del lavoro quando passi la lama sulla caramella. Ed infine la prova sui peli del braccio per verificare la qualità del lavoro.

Ecco. Secondo me un pochino di poesia là dentro c’è.

Perché Corrente Debole?

E’ una domanda che ultimamente mi fanno in molti, insieme a diverse altre.

Credo che da qualche parte qui dentro ci siano ancora i razionali, ammesso ce ne fossero, originali.

L’idea è nata qualche anno fa e aveva questi presupposti:

  • Scrivere qualcosa ogni giorno salvo disastri naturali, cavallette o morte improvvisa.
  • Scrivere senza selezionare in anticipo l’argomento. Quando mi ritrovo dieci minuti scrivo quello che mi gira per la testa in quel momento. Al massimo prendo nota di qualcosa che mi ha colpito, sul mio taccuino di carta. Va detto che questo è sempre avvenuto al di là della nascita di Corrente Debole.
  • Scrivere di getto senza lavorare ad alcuna bozza. Questo perché non ho moltissimo tempo a disposizione e perché sono molto, molto pigro.
  • Scrivere in Italiano perché è la mia lingua e mi permette molte più sfumature di quanto non mi permetterebbe l’uso della lingua Inglese. Perdo lettori? Può essere. Ma anche: e ‘sti cazzi.
  • Scrivere come se stessi esponendo il mio punto di vista a qualcuno faccia a faccia. Non ho bisogno di vendere nulla, posizionarmi, farmi pubblicità, monetizzare e qualsiasi altra cosa. Sono, appunto, parole sparse.

Queste erano, e sono, le regole che mi ero imposto quando ho cominciato questo esperimento. Niente è cambiato. Ho solo deciso di ricominciare.

Ci sono cose anche piuttosto personali ma non mi preoccupa più di tanto

Vale sempre la solita conclusione. Corrente Debole serve più a me stesso che al resto del mondo. Se qualcuno trova piacere nella lettura, ben venga. In caso contrario, amici come prima.

Hack The Box

Continuo a giocherellare con Hack The Box.

Quando sono a casa da solo e ho del tempo libero da dedicargli.

Mi piace l’idea di avere a disposizione un ambiente controllato in cui imparare qualcosa sulla sicurezza informatica senza trovarmi la Polizia Postale sul portone di casa. Noto oggi che è il mio centesimo giorno sulla piattaforma.

Una occhiata veloce al mio profilo mi ricorda che sino ad ora ho “conquistato” diciassette sistemi raggiungendo l’obiettivo che in genere è quello di leggere due files più o meno protetti all’interno del sistema stesso. Mi faccio un giro sulle statistiche e scopro che nella classifica sono in posizione 526 su 246958.

Niente di cui vantarsi, direi. Se ci sono arrivato io che non lavoro in questo campo da secoli direi che ci può arrivare chiunque.

Come qualsiasi altra piattaforma anche questa ha una sua comunità e, come ogni comunità, anche questa ha le sue dinamiche. In genere cerco di essere abbastanza attivo cercando di aiutare le persone quando posso. Il genere di aiuto che fornisco aderisce alle linee guida della piattaforma. Dare indicazioni di massima affinché la persona possa trovare in autonomia la soluzione al suo problema. In altre parole: spingere le persone ad usare il proprio cervello e non quello degli altri.

Prima di arrivare al punto di questo post va detto che in funzione dei punti che guadagni ottieni una sorta di etichetta che dovrebbe rappresentare la tua abilità. Se guardo alla lista così come oggi è strutturata troviamo:

  • Noob
  • Script Kiddie
  • Hacker
  • Pro Hacker
  • Elite Hacker
  • Guru
  • Omiscent

Grazie al mio punteggio mi trovo nello status Pro Hacker, il che mi fa davvero sorridere. Marketing e relativa narrativa. Ci sta data la natura della piattaforma ed il modello di monetizzazione.

Quello che mi fa sorridere sono le dinamiche all’interno della comunità. Come vi ho detto cerco di aiutare le persone e quindi mi rendo disponibile a rispondere a domande su sitemi sui quali ho già giocherellato. Capita, purtroppo non raramente, di ricevere delle domande banali, veramente banali.

Cose del tipo: “Lo script che ho scaricato da Internet per elevare i miei privilegi sul sistema pincopallo non funziona. Cosa devo fare?”. In questo caso generalmente vado a rivedere sui miei appunti cosa ho fatto io nel caso specifico e scopro, ad esempio, che dovevi semplicemente modificare un indirizzo IP od il numero di una porta sulla quale il sistema espone un certo servizio. A questo punto in genere mi incuriosisco e vado a vedere il profilo di chi mi ha fatto la domanda e, molto spesso, vedo ranking elevatissimi. Non torna. Se davvero ne sai tanto non puoi fare queste domande.

Mi faccio quindi un giro e scopro che esiste un commercio di soluzioni ai problemi che vengono scambiate tra gli utenti.

Ancora una volta sorrido.

A me questa cosa serve in primo luogo per distrarmi, in secondo luogo perché imparo sempre qualcosa su tecnologie, prodotti e servizi che non ho mai usato ed infine perché è divertente. Non ne voglio fare un lavoro, nè desidero spacciarmi per quello che non sono.

Che senso ha fregiarsi di una etichetta se non sei nemmeno in grado di capire che cosa significhi il fatto che un file abbia un insieme di permessi 600? Proprio a nulla. Rimani sempre lo stesso deficiente di prima.

Certo agli altri bimbiminkia che ti circondano potrai dire di essere “Omniscent”. Speriamo che almeno valga come succedaneo dei feromoni per le ragazze. La mia impressione è che dicendo di essere un hacker non si rimorchi più di tanto ma può darsi che io mi sbagli.

E poi, le bugie hanno le gambe corte.