Evviva PornHub!

Ok, contenete l’entusiamo che tanto è ben chiaro che questo entusiasmo non lo manifesterete mai.

Qualche giorno fa Alphabet, capogruppo di Google, annuncia agli analisti i risultati dell’anno fiscale 2019. Tra tutti spicca un dato: YouTube ha generato ricavi per 15 miliardi di dollari. Risultato incredibile.

Più o meno nello stesso momento leggo un tweet esilarante:

https://twitter.com/TProphet/status/1224187855926329344?s=20

YouTube elimina dei contenuti che ritiene non appropriati. In questo caso si tratta di contenuti che riguardano la sicurezza informatica. I prodi produttori di contenuti non graditi cercano una alternativa e dove la trovano? Su PornHub.

Io trovo la cosa di una bellezza assoluta.

Mi sembra di ritornare a quel momento in cui Playboy cominciò ad includere tra i suoi articoli contenuti meno svestiti. Ci troviamo quindi davanti ad una piattaforma che distribuisce contenuti per adulti che ospita contenuti che riguardano la sicurezza informatica.

Al di là delle battute credo che ci si trovi davanti ad un tema interessante. Qualsiasi contenuto trova la sua casa ideale su Internet. Questo è, purtroppo, vero sia nel bene che nel male.

Se ti occupi di sicurezza informatica per una grande azienda è arrivato il momento di rivedere nel dettaglio le policy del tuo firewall.

La coerenza, questa sconosciuta.

Me la avete sempre venduta come la più pura e nobile delle professioni e vi professavate duri e puri della disciplina e dell’etica del lavoro ad essa associata. Mi avete fatto due palle grandi come una casa su cosa fosse “cool enough” nel vostro mondo e su cosa, invece, non meritasse la vostra considerazione.

Avete mietuto vittime illustri e non ne avete pagato le conseguenze. Ovviamente, in un modo o nell’altro, avete sempre salvato il vostro posteriore scaricando su altri le vostre responsabilità.

E, nonostante tutto, fate ancora i paladini che si scagliano lancia in resta a difesa dei valori del design.

Oggi basterebbe andare ad analizzare il genere di workshop che moderate per comprendere quanto ipocrisia ci sia in questo universo. Se poi volete rendervi conto delle differenze, andate a farvi un giro su quello che moderano altri rispetto a voi.

Ecco, io in questi giorni me ne sto nel mio studiolo, ché se incontrassi qualcuno di voi perderei sicuramente la pazienza.

Sì, in effetti oggi mi girano un pò le palle.

Autorevolezza

Ho recentemente letto un articolo sul New York Times il cui titolo era: “Global xenophobia folows virus”.

Il tema dell’articolo riguarda la diffusione del virus 2019-nCoV, altrimenti detto Coronavirus sulle maggiori testate, ed il conseguente aumento di episodi di intolleranza nei riguardi di cittadini Cinesi. Fenomeno che sembra essere globale e non circoscritto alla prossimità con il luogo in cui l’epidemia si è manifestata.

Come sempre evito il giudizio sugli episodi di intolleranza perché, davvero, credo che si commentino da sè.

In realtà mi ha colpito molto un passaggio in quell’articolo:

Facebook said it was removing “content with false claims or conspiracy theories that have been flagged” by the authorities, and Twitter made changes to prioritize search results from reputable health organizations.

E’ ben evidente che la direzione è giusta ma credo che ci siano un paio di punti che lasciano delle zone grigie:

  • “flagged by the authorities…”. Sembrerebbe una decisione del tutto sana. Il problema che vedo è che qualsiasi notizia, o teoria, può essere marcata come falsa dalle autorità. Autorità che potrebbero avere tutto l’interesse a sotterrare storie, o teorie, che potrebbero rivelarsi vere. Questo rischio è ancora più grande in quei paesi in cui l’autorità non si è mai distinta come campione di democrazia.
  • “reputable health organizations”. Anche questo aspetto mi lascia molti dubbi. Che definisce l’autorevolezza di una istituzione e secondo quali parametri?
  • Infine non è chiaro come avvenga questo processo. E’ delegato ad un algoritmo o ci sono degli essere umani che prendono decisioni consapevoli. Se fossero degli essere umani ci sarebbe da capire quale competenza possano avere queste persone nel giudcare notizie relative ad una emergenza sanitaria. Se, invece, fosse un algoritmo a scegliere bisognere potere sapere come questo algoritmo è stato prima progettato e poi istruito.

La sostanza è che sia Facebook che Twitter sono aziende private e quindi fuori da qualsiasi controllo che non quello del corpus di leggi esistenti nel paese in cui sono incorporate.

L’ultima nota riguarda il tipo di controllo che questo genere di piattaforme con una audience massiva deve mettere in atto rispetto al contenuto che ospitano. Questo controllo si sta dimostrando sempre più complesso e difficile da gestire.

Persone e storie

Credo che sia per via del lavoro che faccio. Dopo avere partecipato direttamente, od indirettamente, a così tante attività di ricerca con degli essere umani non posso mai fare a meno di osservare il comportamento delle persone.

Se questo avviene per un motivo professionale il contesto è molto ben definito. Li osservi utilizzare un prodotto od un servizio ed il gioco finisce lì.

Se, invece, mi trovo in uno spazio pubblico con del tempo a disposizione il discorso cambia radicalmente. Può succedere nella lunghe di un aeroporto, in stazione, mentre sono in coda da qualche parte aspettando il mio turno.

Il mio sguardo si muove sull’insieme delle persone che mi circondano. In maniera molto discreta le osservo. Come si vestono, la loro postura, il modo di parlare. E poi succede qualcosa. Un gesto od una frase che cattura la mia attenzione e fa scattare un meccanismo generativo nel mio cervello.

Comincio ad immaginare quale sia la sua storia passata, che cosa lo porta in quel luogo, quali sono le motivazione che lo fanno muovere in un certo modo o scegliere determinate parole. Al termine di questo processo molto spesso rido di me stesso perché sono in grado di costruire delle storie assolutamente improbabili. Durano lo spazio di qualche minuto e poi scompaiono nel nulla dal quale sono nate.

E’ un peccato. In qualche modo credo andrebbero salvate in un bestiario immaginifico di personaggi improbabili. Potrebbe essere una parte interessante di questo esperimento sebbene violerebbe una delle regole fondamentali: scrivere di getto senza pensarci troppo. Una storia come quelle andrebbe ben studiata, pensata, costruita per essere davvero riportata nella sua essenza.

Vi capita mai di fantasticare in questo modo?

E poi, è vero. Mi capita molto spesso anche con i clienti.

Contraddizioni

Mi rendo conto di vivere un insieme di contraddizioni. Per indole, carattere e formazione.

C’è una parte di me che vive nel passato remoto:

  • Mi faccio la barba con un rasoio a mano libera e monto la schiuma da barba in una ciotola di ceramica con un pennello. Lo faceva mio nonno e da piccino io volevo essere come lui.
  • Passo ore a pulire e lucidare le mie scarpe. Mio zio era un ufficiale dell’esercito in carriera e lo faceva lui. Da meno piccino volevo essere come mio zio.
  • Ritaglio articoli di giornale e li metto da parte così come prendo appunti solo scrivendo.
  • Apro la portiera della macchina quando una signora è in mia compagnia.
  • Mando ancora fiori e scrivo lettere, molte delle quali non vengono lette.
  • Faccio il pane in casa con il lievito madre che produco io.

Potrei continuare a lungo.

Un’altra parte di me adora in maniera totale ed assoluta la tecnologia:

  • La mia casa è completamente automatizzata. Posso parlare anche con dal divano alla mia lavatrice e farle fare ciò che desidero.
  • La mia sveglia è dinamica. Ogni mattina un aggeggio consulta il luogo nel quale devo recarmi per il primo appuntamento, si fa un giretto sulle API di Waze e Google per valutare le condizioni del traffico e dopo avere dato una occhiata alle condizioni meteo imposta la sveglia di conseguenza. Mi sveglia prima se c’è traffico o piove, mi lascia dormire sino all’ultimo minuto utile se tutto è tranquillo. Ovviamente il codice che fa funzionare tutto questo lo ho scritto io.
  • Qualsiasi cosa ripetitiva può essere fatta con del codice. Grazie Python.
  • Qualsiasi sistema può scambiare informazioni con qualsiasi altro sistema. Basta un pochino di colla, sempre di marca Python.
  • So come si scrive un device driver.

Anche in questo caso potrei proseguire molto a lungo.

Materiale da psicologo? Probabilmente sì.

La complessità

Ovvero, togliere, rimuovere, cancellare e ridurre.

Negli ultimi diciotto mesi, o giù di lì, mi sono dato l’obiettivo di ridurre la complessità del mio ecosistema. Tutto sommato una decisione interessante perché il lavoro che faccio impone una certa dose di complessità per sua natura.

Presa questa decisione mi sono fatto un veloce giro sugli strumenti che avevo a disposizione per raggiungere questo obiettivo. Per deformazione professionale ho finito per utilizzare il processo tipico del Design Thinking.

Citiamo il manuale e ricordiamo le cinque fasi cruciali di un processo guidato dal Design Thinking:

  • Empathize
  • Define
  • Ideate
  • Prototype
  • Test

Comincio a sezionare tutti gli elementi che sono parte della mia esistenza. La famiglia, il lavoro, le relazioni, gli interessi, i luoghi in cui vivo, gli strumenti, i prodotti e servizi che uso, gli interessi e via dicendo.

Nel momento in cui ho avuto a disposizione una mappa sufficientemente precisa la prima conclusione è stata, come dicono in Francia: “Minchia! Che casino!”

Ben chiaro il fatto che il problema chiave era la riduzione della complessità dell’intero sistema.

A questo punto è cominciata l’attività di rimozione di tutto il superfluo. Lentamente per ogni singolo elemento di cui sopra. Lavorando su se stessi è piuttosto complesso definire cosa sia superfluo o meno ma ci si può arrivare per approssimazioni successive.

In questo caso vengono in aiuto le due ultime tre fasi definite dal Design Thinking: Ideate, Prototype e Test. Togli o cambia qualcosa nell’ecosistema, costruisci un nuovo processo o sistema e testalo. Se funziona lo tieni altrimenti iteri di nuovo.

La chiave di tutto è stata segmentare il problema. Un pezzo alla volta.

Per esempio arrivo ad avere un telefono che non mi manda nessuna notifica che non siano quelle dei messaggi provenienti dai miei figli. Il programma di posta elettronica che non mostra pop-up o numero di mail non lette, la casa che è automatizzata quasi completamente e via dicendo. Questi sono esempi molto pratici dato che del lavoro fatto sul lato prettamente personale e di relazione non desidero proprio scrivere.

In sintesi, funziona.

Il che risponde anche ad una domanda che mi ero sempre posto. Possiamo usare strumenti di design per lavorare su un sistema personale? La risposta è decisamente affermativa. Il caveat sta nel fatto che lavorando su se stessi si potrebbe non essere in grado di avere l’obiettività richiesta.

L’ufficio acquisti

Chiunque si trovi in una posizione simile alla mia si è necessariamente trovato a dovere negoziare con un ufficio acquisti.

Quella dell’ufficio acquisti, o procurement come scrivono quelli fighi, è certamente una funzione chiave all’interno di una azienda. Questo è vero a prescindere dalla dimensione della azienda stessa.

Io ritengo che le funzioni chiave di un ufficio acquisti possano essere riassunte in:

  • Avere una idea chiara dei fornitori che sono in grado di fornire quei prodotti e servizi che sono necessari al funzionamento della azienda. Questo significa mettere in atto una attività di scouting continua che permetta di capire come è composto l’ecosistema.
  • Avere una idea chiara della evoluzione dei prodotti e servizi che si stanno acquistando. Nuove tecnologie, nuovi modelli di business, prodotti e servizi alternativi e/o complementari.
  • Avere profonda competenza rispetto ai prodotti e servizi che si stanno acquistando.
  • Avere la capacità di creare una relazione che sia di valore sia per l’azienda che per il fornitore.
  • Avere la capacità di negoziare il migliore prezzo in relazione al valore REALE del prodotto o servizio che si sta acquistando.

Questo in un mondo perfetto. Peccato che non sia dato vivere in un mondo perfetto e, purtroppo, nemmeno in uno prossimo al mondo perfetto.

Quello che mi capita di osservare è invece un insieme di uffici acquisti totalmente impreparati o, peggio, tesi solo alla analisi del puro aspetto economico della transazione.

Il primo elemento che mi sento di mettere in evidenza è la capacità di comprendere profondamente quello che stai comprendo. Ora, io comprendo benissimo che la velocità di evoluzione dei prodotti e servizi, sopratutto in ambito digitale, sia estremamente elevata e che sia difficile comprenderne a pieno le sfumature. Questo non toglie che ci dovresti provare. Purtroppo quello che si osserva è che troppo spesso gli uffici acquisti tendono ad utilizzare un proxy per dare un valore ai tuoi servizi. Vi faccio un esempio. Io mi definisco una Strategic Design Firm che usa strumenti di design per risolvere problemi di business. Tu non capisci fino in fondo che cosa significa perché non hai mai maneggiato la materia. Siccome non sai come fare a valutare il costo dei miei servizi mi accomuni a qualcosa che ha dentro un po’ di digitale: la web agency. Non ci siamo. Io faccio un’altra cosa e questa cosa ha un valore enormemente superiore, con tutto il dovuto rispetto, a quello che una web agency è in grado di erogare. Si finisce che dobbiamo litigare.

Il secondo elemento è che troppo spesso l’ufficio acquisti è totalmente disgiunto dalle attività di business della azienda. Troppo spesso mi trovo a presentare una proposta agli stakeholder. Questi si dicono soddisfatti dell’approccio progettuale e di un valore espresso per quell’approccio. Si arriva quindi alla frase che mi manda fuori di testa: “Per noi la proposta va bene, adesso ve la dovete vedere con l’ufficio acquisti”. Ma porca miseria, non interessa anche a te portarti a casa il progetto. Hai capito che ti posso aiutare e mi domando per quale motivo mi mandi da solo a negoziare qualcosa che sì interessa a me, ma che in fondo interessa anche a te.

Il terzo elemento è la negoziazione. Oramai è consuetudine il fatto che all’ufficio acquisti si debba riconoscere uno sconto. Dai, dite la verità. Lo facciamo tutti. Sappiamo questa cosa e quindi aggiungiamo una percentuale al valore della proposta che poi magnanimamente sconteremo all’ufficio acquisti in fase di negoziazione. Questa è un’altra cosa che fatico davvero a tollerare. Ma non facciamo prima a dirci che io ti faccio una proposta eticamente corretta e con il costo giusto, tu me riconosci quel costo e fine dei giochi. E’ chiaro che tutto questo è largamente legato al tema degli MBO. Misurare un saving annuale è facile. Lavorare su altri parametri è più complesso e richiede sforzo.

Un altro tema interessante è la minaccia. Un cliente mi disse: “Ma lo sa quanto lunga è la fila delle agenzie che voglio lavorare con noi?”. Io risposi: “Punto primo. Noi non siamo un agenzia. Punto secondo. Io credo che la fila delle agenzie che vogliono lavorare con voi sia tanto lunga quanto la lista dei clienti che vogliono lavorare con me. Cosa facciamo? Ricominciamo o la chiudiamo qui?”. Ricominciammo a parlare in maniera più efficace.

Più o meno dello stesso tenore sono le affermazioni del tipo: “Dobbiamo fare questo progetto ma abbiamo allocato solo X Euro”. Mi dispiace molto ma credo che sia un problema solo tuo. Non credo che nel mio statuto societario sia presente la parola ONLUS. Simile a questa l’affermazione: “Dovete fare un investimento.”. Mi guardo intorno e penso che l’investimento lo devi fare tu, non io.

Infine ci sono gli uffici acquisti fantasiosi. Un esempio per tutti. Anni fa lavorammo per un anno intero per una grande azienda. Ai primi di Gennaio riceviamo una lettera che nella sostanza recitava: “Caro fornitore, sono tempi duri, ti chiediamo di retrocederci il 10% del fatturato verso di noi entro il 31 Gennaio”. La lettera terminava con la velata minaccia di chiudere ogni rapporto nel caso in cui non si fosse ottemperato a questa richiesta. Ovviamente non ho nemmeno risposto. Provate voi ad andare dal fruttivendolo e dirgli: “Quest’anno ho spesso mille euro con te. Se non mi ridai cento euro non vengo più a fare la spesa con te!”. Spero che siate dei bravi centometristi.

Potrei continuare per ore con una galleria degli orrori degna del miglior museo delle torture. Credo che tutti avrebbero degli aneddoti succosi da raccontare a riguardo. Potremmo anche mettere su un bel sito web che li raccolga.

In realtà nel corso della mia carriera ho trovato anche grandissimi professionisti e professioniste che sapevano fare il loro lavoro con grande professionalità e competenza. Persone che davvero avevano a cuore sia il bene della azienda per la quale lavoravano che il bene del loro fornitore.

Forse sarebbe il caso di rimettere del contenuto di valore nella parola “partner” e metterci un pò di cuore. Ché non guasta mai.

Idioti, ed ignoranti

E’ notizia di qualche giorno fa. Un manipolo di idioti razzisti fa irruzione nottetempo in un bar di Rezzato e lascia scritte e segni manifestamente razzisti.

Mi fermo con gli epiteti che mi piacerebbe rivolgere agli esecutori di questo gesto, sebbene ne avrei una sequenza molto lunga ed originale da scrivere. Credo che il fatto, purtroppo, si commenti da solo.

Quello su cui mi piacerebbe soffermarmi è la natura dei simboli che sono stati utilizzati.

Carissimi i miei idioti razzisti, anche, e sopratutto, per esprimere il proprio odio è necessaria una solida base culturale.

Ecco. Andate a vedere le immagini relative al fatto in questione. Subito dopo averlo fatto fate una veloce ricerca di episodi simili in Italia, e nel mondo. Noterete una cosa decisamente interessante: in moltissimi casi la rappresentazione della svastica è sbagliata. In alcuni casi è disegnata al contrario, in altre i bracci sono per metà nel verso sbagliato e via dicendo.

Volete fare i razzisti? E studiate almeno un pochino quella pseudo-cultura alla quale sembra vogliate rifarvi.

Un simbolo ha un potere solo se lo rappresenti nella maniera corretta.

In questo caso serve solo a rappresentare il fatto che sei un idiota, un razzista, uno che ha studiato poco e male e, in definitiva, un emerito coglione.

Un abbraccio alla ragazza che è stata oggetto di questa ingiuria ingiustificabile. La parte pensante di questo paese sta dalla sua parte, ed io con lei.

Fare il pane

Il pane è sempre stato un elemento fondamentale e fondante per ogni cultura. Ha un significato ancestrale ed è il simbolo principe della alimentazione.

Culturalmente gioca un ruolo chiave e non a caso si dice “portare a casa la pagnotta” significando che si posseggono i mezzi per sopravvivere. Il pane diventa quindi elemento di vita

Per questo il tema mi è sempre interessato. C’è una enorme varietà nella cultura della panificazione e spesso ha elementi distintivi rispetto alla cultura in cui la panificazione avviene.

Fare il pane è una sorta di rito.

Ci sono tanti modi per avvicinarsi a questo mondo. Ce ne sono di semplici e veloci. Altri richiedono tempo e applicazione.

Io parto sempre dalla preparazione del lievito madre. Lo faccio, lo coltivo, lo rinfresco e mi capita di lasciarlo morire per incuria. Per mesi non me ne occupo più per poi ricominciare a farlo vivere per panificare ancora.

Sebbene il lievito madre venga generalmente considerato una cosa complessa nella realtà delle cose il concetto è molto semplice.

Prendi 50 grammi di farina con una discreta forza, 50 grammi di farina integrale, 100 millilitri di acqua tiepida ed un cucchiaino di miele. Mischi tutto e metti a riposare per un paio di giorni in un contenitore coperto con un piattino. Passato questo tempo prendi 50 grammi del composto, 100 grammi di farina e 100 millilitri di acqua e mischi per bene. Lasci riposare per 24 ore e da quel punto in avanti il tuo lievito madre comincia la sua vita.

All’inizio l’odore è acido. I batteri si stanno moltiplicando all’interno del composto e con il tempo si crea un equilibrio delicato che trasforma la composizione. L’odore si trasforma in un profumo che si avvicina a quello dello yogurt.

Quando la mattina ti alzi e mentre bevi il caffè vedi il barattolo sulla credenza puoi vedere che è vivo. Il livello si è alzato durante la notte e la superficie è costellata di minuscole bollicine. Il lievito sta facendo il suo lavoro e, se lo desideri, sei pronto per la panificazione.

A questo punto puoi prendere una delle inifinite ricette per fare il pane e metterti al lavoro.

A me piace fare tutto con le mani. Per fare il pane non mi piace l’uso di macchine impastatrici. Mi piace il contatto con gli ingredienti. L’acqua e la farina che si attacca alle dita. La senzazione del composto sulle mani.

Mentre impasti senti che la consistenza del prodotto cambia con il tempo. La materia diventa lentamente più plastica. Tecnicamente all’interno del composto si sta creando la gabbia glutinica che è uno dei grandi segreti, ammesso che ne esistano, della panificazione.

Con il tempo impari a capire quando il composto è pronto per la fase successiva.

Una delle mie ricette per il pane preferita richiedere circa otto ore di cura in cui si alternano diverse fasi. E’ una infinità di tempo. In fondo non basterebbe salire in macchina ed andare in panetteria a comprarlo? Quindici minuti ed il gioco è fatto.

E’ vero. Sarebbe molto più facile.

Nonostante questo continuo a farlo perché è una soddisfazione incredibile.

Arrivi alla fase finale. Il momento in cui metti il pane in forno. Il profumo del pane comincia a diffondersi in cucina e provi soddisfazione, grande soddisfazione. Al termine della cottura levi il pane dal forno ed il processo non è ancora completo. Non puoi tagliare il pane subito dopo averlo tirato fuori dal forno. Il raffreddamento completa parte della trasformazione chimica del composto e devi aspettare prima che tutto si stabilizzi nella sua forma finale.

Nel frattempo lo guardi e lo annusi.

Finalmente arriva il momento in cui puoi tagliarlo ed assaggiarlo.

E lo hai fatto tu.

Sottolineare i libri

Credo che sottolineare i libri che posseggo sia una cosa che faccio da sempre. Quando leggo qualcosa che mi colpisce non posso fare a meno di sottolinearlo od evidenziarlo in qualche modo. Allo stesso tempo riporto nell’ultima pagina del libro il numero della pagina in cui ho sottolineato qualcosa.

Molto spesso ricopio il passaggio sottolineato nel taccuino che sto utilizzando in quel momento.

Per sottolineare uso sempre una matita, normalmente un matita con una mina HB o 2B. Uso sempre un tratto leggero come forma di rispetto verso il libro.

Anche ora che uso moltissimo il mio Kindle faccio la stessa cosa evidenziando quesi tratti che mi interessano. A latere uso il servizio offerto dal clippings.io per avere un sostituto digitale del mio taccuino.

Mi piace riprendere in mano i miei vecchi libri e andare a rileggere quelle parti che avevo sottolineato. In alcune occasioni mi ritrovo in quello che leggo. In altri momenti mi domando per quale motivo quel passaggio mi avesse colpito. Forse era un passaggio adatto a quel momento particolare della mia vita e allora ne valeva la pena.

Sono anche il genere di persona che ritaglia gli articoli dai giornali e dalle riviste. Una cosa che faceva mia mamma e che mi ha lasciato in erefità. Per certi versi è una cosa assolutamente affine al sottolineare i passaggi nei libri.

Domenica scorsa mi è capitato di leggere un articolo di Paola Mastrocola su Domenica de Il Sole 24 Ore e si parlava proprio di sottolineature.

Il secondo e ultimo pensiero è che sottlineiamo i libri. Ci piace da morire, ma più che un piacere è una necessità. Non riusciamo a leggere senza sottolineare, ci pare di non capire, di non trattenere nulla.

Sottolineare è fermare le parole nella nostra testa (anche se poi non basta, dovremmo anche tornarci su e rileggerle). Innanzitutto è scegliere che cosa vale la pena di fermare. Avere ancora un ruolo, come diceva Nicola.

Leggere non è farsi scivolare le pagine addosso, è scegliere a ogni pagina cosa salvare del mondo. Sottolineare è almeno un primo gesto, l’indizio di non volere essere travolti dalla corrente che tutto porta via.

Ogni volta che incontriamo un libro sottolineato, quindi, dovremmo essere molto felici: è la traccia che qualcuno è passato prima di noi e ha messo in salvo qualcosa, e ora tocca a noi.

La lettura non è mai del tutto solitaria.

Credo in ogni singola parola di questa citazione.

Quello è il motivo per cui mi piace comperare libri usati. La sorpresa di trovare sottolineatue o, ancora meglio, note a margine. Così come trovare il nomer del proprietario o, in quelli ancora più vecchi, un ex libris. La storia di una vita passata di quell’oggetto magico che è il libro.

Per certi versi lo stesso vale anche per la lettura sul Kindle. Anche in quel caso vedi quante persone hanno sottolineato un particolare passaggio. Se vogliamo meno romantico e più algido di quanto si prova con un libro fatto di carta ma altrettanto emozionante.

E poi, sempre grazie a quella citazione, scopri anche il sito della Fondazione Hume e ti pare di avere trovato un tesoro.

La serendipità è sempre dietro l’angolo.

Il mestiere del designer

Mi capita spesso in questi anni di fermarmi a riflettere su quali siano i tratti caratteristici del mestiere del designer. Considerazioni fatte da un punto di vista lontano dato che non posso certo considerarmi un designer.

La prima osservazione riguarda il fatto che è un mestiere relativamente giovane rispetto ad altri più tradizionali. Nasce in un momento in cui la velocità di trasformazione delle aziende tende ad essere molto alta e per questa ragione è difficile stabilire quale sia il perimetro del mestiere del designer.

Oltre a questo cominciano ad esserci specializzazioni molto diverse nel campo del design. Service Design, Visual Design, Interaction Design, Business Design e chi più ne ha più ne metta.

Possiamo quindi parlare più di tratti caratteristici del designer più che di una raccolto di skill verticali.

La capacità di leggere il comportamento delle persone credo che debba essere in cima alla lista e, forse, rappresenta l’essenza dell’essere un designer. Avere la capacità di comprendere, ed interpretare, il comportamento umano per potere soddisfare aspirazioni ed aspettative con degli artefatti fisici o digitali. Come sempre in questo campo dobbiamo leggere questo elemento sia nel contesto del cliente esterne che in quello del cliente interno.

Questo ci conduce direttamente al secondo tratto. L’equilibrio. Credo che essere un designer consista nella continua tensione verso la ricerca dell’equilibrio tra le parti. Trovare il modo di consegnare al cliente esterno la migliore esperienza possibile e, allo stesso tempo, permettere al cliente interno di raggiungere i suoi obiettivi.

Esiste un’altra tensione chiave in questo mestiere. La tensione tra un aspetto prettamente creativo e la ncessità di arrivare ad una soluzione “possibile”. Troppo spesso ho visto grandi voli pindarici del tutto irrealizzabili dal punto di vista tecnico o di processo. Mi verrebbe da dire che quella è più arte che design. Per questo credo sia assolutamente necessario che il design si doti di un processo ben strutturato che sia in grado di fare divenire realtà un processo creativo.

Il designer risolve problemi con soluzioni tangibili.

Il buon designer tende ad avere una coscienza molto ben definita e questa si rifletta in maniera diretta nel suo lavoro. Molto spesso vedo riflessa questa coscienza, od umanità, nelle attività che egli coltiva al di fuori del suo lavoro. Se volessimo banalizzare potremmo dire che i designer sono delle brave persone.

Il designer è un giocatore di squadra. E’ un contesto di team dove riesce a dare il meglio di sé e dove si genera una alchimia eccezionale. La somma dei talenti di un team si amplifica enormemente rispetto alla singolarità. La capacità di contenere il proprio ego gioca in questo caso un ruolo fondamentale. Questo è per un elemento chiave per me quando seleziono delle persone. Potrai anche essere un designer di grande talento ma se percepisco che il tuo ego è troppo sviluppato non ti assumerò mai.

Il designer tende ad essere un spirito libero e per questo ha la necessità di vivere in un contesto chi gli permetta di esprimersi. Questo significa che metterlo in un contesto lavorativo classico fatto di orari, regole, limiti è come mettere un leone in gabbia.

Il designer è un grande comunicatore. Deve essere capace di spiegare, raccontare e narrare il risultato del suo lavoro e tutti i designer che conosco sono in grado di farlo.

Infine il designer oggi deve avere una consapevolezza dei meccanismi che regolano le attività delle aziende moderne. Oramai non si può più prescindere da una certa consapevolezza del “business”. E’ un universo che deve necessariamente comprendere, almeno superficialmente, per essere efficace nel suo lavoro. Questo avviene perché oramai egli non vive più “ai confini dell’impero” come era qualche anno fa. Oggi il designer si trova sotto i riflettori ed è chiamato a risolvere problemi che sono vitali per la sopravvivenza dell’azienda.

Curiosità e rischio

Sino dall’inizio della mia carriera ho sempre alternato posizioni che mi vedevano nel ruolo del cliente od in quello del fornitore. Potremmo dire che sono i due lati della barricata.

Da una parte devi comprare, dall’altra devi vendere. Mi è sempre piaciuta questa alternanza sebbene negli ultimi dieci anni abbia giocato molto di più nel campo del fornitore.

Sono due facce della stessa medaglia.

Per indole, carattere e formazione mi è sempre piaciuto prendermi dei rischi. In qualche occasione erano dei rischi calcolati, in altre dei veri e propri rischi senza alcuna rete di protezione.

Vediamo la definizione di rischio dal vocabolario Treccani:

rìschio (ant. risco) s. m. [der. di rischiare]. – 1. a. Eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili (è quindi più tenue e meno certo che pericolo):

La definizione è cristallina.

Dobbiamo comunque fare un passo avanti rispetto alla definizione. Perché si corre un rischio? Direi che la risposta è ovvia: si corre un rischio per ottenere un vantaggio nel caso in cui il danno non si manifesti.

Io trovo che oggi si sia sempre meno disposti a correre dei rischi. Si tende ad appiattirsi ad un quieto vivere personale e professionale che non conduce a nessun tipo di evoluzione.

Il rischio è fondamentale nella evoluzione personale e professionale e non può che essere alimentato dalla curiosità. Sia che tu sia un cliente che un fornitore devi correre dei rischi.

Muoversi continuamente in ambienti e contesti non affini alla nostra sfera di influenza ci pemette di avere diverse lenti attraverso le quali leggere quello che accade e, se siamo attenti, disegnare un potenziale futuro.

Se ci si fossilizza nel proprio contesto non si può ottenere altro che aridità intellettuale. Certo, è una scelta molto facile perché è la strada più semplice da percorrere.

Curiosità è anche lontananza dall’abitudine. Leggere di cose che non sono strettamente pertinenti alla tua attività o ai tuoi interessi. Cambiare strada ogni giorno quando ti sposti verso l’ufficio e guardarsi intorno per scoprire cose nuove. Prendersi del tempo per imparare cose fuori dalla propria zona di comfort. Fregarsene del giudizio delle altre persone.

Credo che solo una sana commistione di rischio e curiosità possano condurre ad una piena consapevolezza del proprio ruolo personale e professionale.

La manomissione delle parole

L’uso della parole e, come suggerisce il titolo di questo scritto, la loro manomissione sono dei temi che mi stanno molto a cuore. Credo che coloro i quali mi leggono da qualche tempo ne abbiamo piena contezza.

Mi è capitato di parlarne anche questa mattina con una cara amica. L’importanza dell’uso corretto del linguaggio per esprimere quello che siamo e quello che pensiamo.

La parola dovrebbe essere il fondamentale meccanismo di relazione con gli altri sia dal punto di vista professionale ma, ancor di più, dal punto di vista personale.

Scegliere le parole. Decidere come orgranizzarle in un discorso di senso compiuto che sia in grado di trasmettere un contenuto. Dargli il valore che si meritano.

Anche giocarci, perché no. In fondo sono uno strumento così magicamente malleabile.

Il caso vuole che proprio in questi giorni stia leggendo “La manomissione delle parole” di Gianrico Carofiglio. Si tratta certamente di una profonda riflessione sulla lingua che merita di essere letta dalla prima all’ultima pagina. Se dovessi fare un appunto direi che forse ci si sofferma un pochino troppo sull’uso del linguaggio di un nostro vecchio Presidente del Consiglio dei Ministri ma, a parte questo, si tratta di un gioiello.

La cura nella citazione delle fonti è maniacale e sono tutti testi che ho già inserito nella mia lista dei desideri personali.

Le parole sono importanti. Davvero.

Molti anni fa fui colpito da un altro libro: “Le parole non le portano le cicogne” di Roberto Vecchioni. In questo caso un romanzo. Delicato e struggente. Non per tutti.

Se amate le parole credo che non dovreste farveli sfuggire.

Rifugi

Credo che ognuno di noi abbia dei rifugi in cui riparare quando se ne sente il bisogno. Bisogno di staccare dalla densità della quotidianità, dalla pressione della giornata, dalle persone, dal rumore.

I miei preferiti rifugi sono tre.

In primo luogo la lettura. Sono un lettore compulsivo. Leggo di tutto. Libri, riviste, quotidiani. Ritaglio, archivio, annoto e sottolineo. La lettura mi trasporta in mondi paralleli e lì dentro posso nascondermi quanto a lungo desidero. Da qualche anno il genere giallo mi affascina. Mi trovo daccordo con Friedrich Glauser quando dice che il giallo rimane “l’unico mezzo per diffondere idee ragionevoli”. Un pochino estremista in effetti.

Il secondo rifugio è la musica. Da un lato la musica ascoltata. Che sia l’aria di un opera od un concerto di Jimi Hendrix passando da un buon blue d’annata ed i classici del jazz. Niente mi rilassa come il Má vlast di Bedřich Smetana. Niente mi emoziona di più dell’album Chet Baker Sings. E poi c’è la musica suonata su una delle mie chitarre. Vagare a caso tra le note e alzare il volume coprendo tutti i suoni che vengono dall’esterno. Paradiso.

Il terzo rifugio è la programmazione. Scrivere codice. In genere questo lo faccio quando ho bisogno di ordine. Strutture ben definite, regole certe. Razionalismo quasi assoluto. La trovo una cosa molto rilassante e null’altro mi fare stare bene come un pezzo di codice che sia elegante e funzionale. Se poi funziona al primo lancio del programma, ancora meglio.

La magia delle carte

Sono davanti al Gate 27 dell’aereoporto King Khalid International Airport in attesa del volo che mi riporterà a casa. Non c’è nessuno ed il volo sarà quasi completamente vuoto.

Da quando ho iniziato ad interessarmi di magia, ed in particolare di magia con le carte, mi porto sempre con me qualche mazzo di carte. Questo genere di giochi richiede una certa manualità ed un discretto allenamento. In queste occasioni faccio pratica e mi distraggo quel tanto che basta per fare passare il tempo.

Lo stesso accade in questa occasione.

Mentre sto giocherellando con le carte si avvicina un ragazzo e si presenta. Si chiama Sarem ed è in viaggio verso Milano con la moglie e la bimba di 3 anni. Mi chiede per quale motivo sto giocando con le carte e gli spiego che è un passatempo e che in genere faccio qualche gioco di magia.

“Do you mind showing me some?”. Gli sorrido apertamente e comincio con un grande classico che adoro: Twisting the Aces di Dai Vernon. Nella sua semplicità trovo che sia un capolavoro con un enorme potenziale narrativo. Non mi era mai capitato di farlo in lingua inglese ma me la cavo piuttosto bene. Faccio un altro paio di giochi fino a che non veniamo chiamati all’imbarco. Ci salutiamo calorosamente e saliamo a bordo.

Il volo è davvero vuoto. Viaggiamo su un Airbus A320 e ci saranno a bordo una quindicina di persone. Mi accomodo al mio posto ed il viaggio comincia.

Sarem si avvicina di nuovo e mi dice che sua moglie non ha visto i giochi che gli ho fatto davanti al gate e mi chiede se gli posso fare la cortesia di ripeterli per sua moglie. Annuisco dicendogli che non c’è nessun problema. Mi raggiungo ed eseguo gli stessi giochi aggiungendone un paio.

Passa una hostess e ci vede. Si ferma ad osservarci e mi chiede se anche lei può vedere qualcosa con le carte. La accontento. Si avvicina anche la sua collega e oramai intorno al mio sedile c’è un piccolo pubblico. Eseguo davvero dei grandi classici tutto sommato piuttosto semplici e che è possibile fare senza alcuna preparazione.

Dopo circa un quarto d’ora tutti mi ringraziano e ritornano ai loro posti. Io mi immergo nelle mie letture dopo avere riposto le carte nella loro custodia.

Questo genere di cose mi accade spesso. Non so per quale motivo ma le carte, ed i giochi con le carte, sembrano avere sempre grande attrattiva verso le persone. Ogni volta che tiro fuori un mazzo di carte e comincio a fare qualche esercizio c’è sempre qualcuno che si avvicina e che chiede di vedere qualcosa.

A me questa piace da impazzire. Ovviamente perché soddisfa pienamente il mio ego e poi perché mi mette sempre in contatto con gente nuova. Terminati i giochi in genere ci fermiamo sempre a fare due chiacchiere. Io ho raccontato loro una storia con le carte e loro mi raccontano la loro. Per quale motivo stanno viaggiando, dove stanno andando, con chi. Io faccio lo stesso ed avviene la magia della comunicazione tra perfetti sconosciuti. Incontri che non hanno mai un seguito ma che rappresentano comunque un contatto umano che in genere non avviene mai in un non-luogo come l’aeroporto.

Mi fermo a riflettere su questo fatto e su come un gesto del tutto analogico venga percepito come qualcosa che spinge perfetti sconosciuti a parlarsi e a condividere delle storie. Ne rimango sempre affascinato e colpito.

Da ogni viaggio si porta sempre a casa qualcosa di prezioso e, come sempre, le cose immateriali sono quelle di maggior valore.

Ora dovrei chiedere a Saudia un indennizzo per l’onboard entertainment che ho erogato gratis et amore dei.