Io vi invidio

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Davvero! Io vi invidio davvero tantissimo!

Vi invidio perché avete delle certezze irremovibili ed una conoscenza che levati. E, notate, non su un solo argomento che vi aiuta e mettere insieme il pranzo con la cena. Sapete tutto di tutto.

Nessuna traccia di ubbìa nelle vostre conversazioni e nei vostri commenti.

Siete pronti a dispensare perle di saggezza, soluzioni, interpretazioni su qualsiasi tema vi venga sottoposto davanti.

Vi invidio.

Io ho smesso di commentare pubblicamente perché mi sono convinto di non saperne abbastanza e di non avere abbastanza tempo per studiare e saperne di più. Sono pieno di dubbi e di versioni differenti. Sono colmo di incertezza ed ogni argomento mi sembra troppo lontano per potere essere afferrato con decisione.

Forse c’è qualche argomento sul quale potrei permettermi di dire qualcosa ma mi astengo, per opportunità. Quando ne parlo o ne scrivo lo faccio con una certa umiltà. Non voglio dispensare consigli ma, al massimo, dire che cosa ne penso io. Tanto basta.

Non tutti voi siete così, ve lo concedo. La maggior parte, purtroppo, sì. Ci sarebbe da citare Nanni Moretti ma, anche in questo caso, mi trattengo.

Mi limito a ribadire il fatto che vi invidio, molto.

Condurre una vita piena di certezze è molto più facile che non vivere nel dubbio e nella ignoranza.

Ripeto, vi invidio.

Accessori (quasi) inutili

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Ho scritto del caffè in passato. A me piace molto il caffè americano e per questo mi sono regalato qualche anno fa una macchina che lo prepara in maniera egregia. Tra le altre cose è collegata ad internet e la posso attivare in maniera automatica dal mio sistema di home automation.

Nello stesso momento in cui suona la sveglia la macchina del caffè si attiva e quando scendo in cucina il mio primo caffè del mattino è li che mi aspetta.

Questo se non mi dimentico una delle varie cose che sono necessarie per fare funzionare la macchina. Pulire il filtro, caricare la macchina con una riserva di acqua, riposizionare la caraffa sotto la macchina e, ovviamente, mettere il caffè in grani nel suo scomparto.

Per potere mettere il caffè lo devi avere. Io rimango costantemente senza caffè perché mi dimentico sempre di ricomprarlo.

La prima soluzione sarebbe quella di utilizzare un abbonamento in modo che, diciamo ogni messe, io possa ricevere una nuova fornitura. Questo metodo potrebbe funzionare ma è molto poco efficiente. Ci sono momenti in cui non sono in casa per diversi giorni o giorni in cui consumo meno caffè del solito. Non è quindi facilmente prevedibile il giorno in cui potrei rimanere senza materia prima.

Oltretutto ho visto che i ragazzi di The Tiger Coffee hanno proprio recentemente introdotto il meccanismo dell’abbonamento. Figo.

E poi scopro che Amazon ha lanciato, purtroppo solo sul suolo americano, Amazon Dash Smart Shelf.

Credo che tutti ricordino i Dash Button. Non hanno avuto grandissimo successo. Ecco i Dash Smart Shelf sono la loro evoluzione. Per i curiosi ecco il link al negozio americano di Amazon: https://www.amazon.com/Dash-Smart-Shelf/dp/B07RV6X8LZ?ots=1&tag=bgwr1b-20&asc_source=web&asc_campaign=web&asc_refurl=https%3A%2F%2Fbgr.com%2Fdeals%2Famazon-dash-smart-shelf-price-and-details%2F&th=1

In poche parole si tratta di una bilancia connessa ad Internet sulla quale si può riporre un prodotto, nel mio caso il caffè. Nel momento in cui il peso del prodotto sulla bilancia scende sotto una soglia determinata da me viene generato un ordine verso Amazon per il riacquisto del prodotto.

Questo farebbe davvero al caso mio e per 20 dollari potrei anche fare un esperimento quando e se arriveranno in Italia.

Ok, siamo d’accordo. Oggetto sostanzialmente inutile ma con un certo fascino.

Inoltre leggendo le recensioni sulla pagina del prodotto pare che non sia possibile ordinare un qualsiasi prodotto ma solo una selezione scelta da Amazon che è certamente riduttivo.

Ad ogni modo niente che non si possa fare in casa, più o meno allo stesso prezzo, con Arduino, o simili, ed un pochino di codice intorno.

Il roaming in guerra

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Le reti cellulari sono oramai diffuse in quasi ogni parte del mondo e chiunque ha una qualche conoscenza della loro architettura sa benissimo quante informazioni si possono raccogliere dal semplice fatto che un telefono cellulare è “accampato” su una certa rete ed una certa cella della rete stessa.

L’identità della persona che ha in tasca il telefono cellulare, la sua posizione, l’elenco delle conversazione ed in ultima analisi tutto il suo traffico dati e voce.

Questo è parte della nostra vita di ogni giorno anche se la maggior parte di non non se ne rende conto.

In uno scenario di guerra l’utilizzo di telefoni cellulari è una cosa che andrebbe evitata.

Gli Ucraini hanno permesso ai telefoni cellulari russi di andare in roaming sulle proprie reti cellulari ed i militari russi hanno fatto ricorso ai telefoni cellulari quando la loro rete di comunicazione militare ha avuto dei problemi.

In questo modo l’esercito ucraino è stato in grado di valutare, sebbene con un grande margine di incertezza, la densità delle truppe russe in una particolare area. Hanno potuto localizzare le figure preminenti dell’esercito russo ed intervenire. Allo stesso modo è stato possibile evidenziare gli spostamenti nel tempo delle truppe russe.

In un momento come quello che sta attraversando l’esercito Ucraino queste sono informazioni di estremo valore ed i russi poco possono fare per evitarlo se non vietare l’utilizzo dei tradizionali telefoni cellulari.

La tentazione per un soldato di chiamare casa e rassicurare i propri familiari è troppo grande e perfettamente comprensibile perché un divieto possa essere rispettato.

Allo stesso modo quando l’esercito russo si è dedicato alla razzia ed ha sottratto telefoni cellulari, tablet ed accessori è stato possibile localizzarli e tracciarli. L’applicazione Find My di Apple ha reso possibile tracciare device sottratti ai legittimi proprietari.

Trovo molto strano che i militari russi non pensino alle conseguenze. Se posso localizzarti ti posso rendere un bersaglio e se ti trasformo in un bersaglio ti posso colpire. Se ti posso colpire ti posso uccidere.

Il demotivatore

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Tutte le mie timeline sono oramai piene di persone che vogliono rendermi ricco con il minimo sforzo, che possono rendermi edotto su un qualsiasi argomento in poche ore, che mi insegnano come un disastro si trasforma in una opportunità e tutte le altri varianti del caso.

La realtà delle cose è che Internet è piena di gattini e motivatori, più o meno seriali.

A questo punto è evidente che ci sono due possibilità.

La prima, quella più semplice, è quella di infilarsi nel mainstream e diventare io stesso un motivatore seriale. Devo solo procurarmi qualche sfondo che lasci intravedere una parvenza di ricchezza, delle belle frasi pronte, qualche testimonial raccattato a poco prezzo ed il gioco è fatto.

Da questo punto di vista la location già potrebbe aiutarmi. Tutto sommato Laglio potrebbe essere un discreto punto di partenza. Certo non è Dubai o le Maldive ma, tutto sommato, dal giardino di casa mia al lago passano poche decine di metri.

La seconda alternativa è per me decisamente più attraente.

Fare il demotivatore professionista.

Questa è certamente una nicchia del tutto inesplorata e che merita decisamente qualche attenzione.

Ecco alcuni titoli di post e video che potrei produrre:

  • Dieci motivi per i quali non potrai mai diventare ricco.
  • Se sei in difficoltà, andrà peggio.
  • Tre modi per perdere tutti i tuoi risparmi.
  • Nonostante i tuoi sforzi, non farai alcun progresso.
  • Non lasciare il tuo lavoro per inseguire i tuoi sogni. In realtà sarà un incubo senza fine.

Insomma, le possibilità sono pressoché infinite e del tutto inesplorate.

Oltretutto sono in possesso della giusta dose di cinismo e cattiveria per potere rendere questa iniziativa un grande successo.

Adesso vado da uno dei motivatori di cui sopra e mi faccio insegnare qualcosa.

Un approccio potrebbe anche essere quello di fare il verso agli stessi motivatori. Prendere lo script dei loro video o post e renderli in versione totalmente demotivante.

Ci penso su.

Ogni volta…

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Nonostante viva in questo rutilante mondo digitale da fin troppo tempo ancora non mi capacito del perché la maggior parte delle aziende devono complicare oltre misura la vita dei propri clienti. La tortura raggiunge livelli da Santa Inquisizione quando decidi di chiudere un contratto.

Qualche mese si decide di passare da Fastweb a Sky Wifi come fornitore di connettività di rete, non fosse altro perché in quella all’altra casa c’è una persona che in Sky ci lavora.

Il passaggio è fluido. Prendo il mio bel codice di migrazione dalla fattura di Fastweb e lo comunico a Sky. Dopo qualche giorno arriva un tecnico ed in un mezz’oretta la nuova connessione è attiva.

Non è ben chiaro se devo disdire il contratto con Fastweb o meno. Decido di attendere qualche giorno e poi mi collego al sito di Fastweb per verificare lo stato del mio contratto. Vengo accolto con un “Ci dispiace vederti andare via.”

A questo punto non indago oltre e mi convinco del fatto che se mi dicono che gli dispiace vedermi andare via il contratto è chiudo.

Purtroppo non è così.

A distanza di qualche mese, mea culpa, vedo che il contratto continua con il suo normale ciclo di fatturazione.

Che strazio. Mi ricollego al sito di Fastweb e cerco informazioni sulle modalità di disdetta. Va detto che le trovo con una certa facilità. Altri operatori le nascondono come se fossero la perla di Labuan.

Interessante, ci sono una varietà di opzioni. Comincio ad esplorarle tutte mettendole in ordine di semplicità:

  • “tramite il web form”. Ecco, questa dovrebbe essere la più veloce. Mi sono già autenticato sul tuo sito e quindi dovresti sapere benissimo chi sono. Clicco sul link e vengo trasportato su una pagina che ancora una volta mi dice che gli dispiace vedermi andare via. Sulla pagina, naturalmente, della form di disdetta nemmeno l’ombra. Non mi scoraggio e vado a guardare il codice sorgente della pagina e vedo che ci sono degli elementi nascosti. Li rendo visibili e trovo quello che cerco. Clicco sul link che è stato magicamente nascosto e vengo trasportato su un’altra pagina che mi dice che “I tuoi dati non saranno disponibili sino al momento della attivazione della linea fissa”. Andiamo bene. Primo tentativo fallito.
  • “Contattando il servizio clienti Fastweb 192.193”. Beh, dai, tutto sommato anche questa non è male. Dato che hai il mio numero di cellulare hai tutti gli elementi per riconoscermi. Chiamo ed in dieci secondi mi viene detto di usare l’applicazione mobile. Riattaccano e mi lasciano con un palmo di naso. Secondo tentativo fallito.
  • “tramite un operatore, utilizzando il Supporto Fastweb e chiedendo un ricontatto telefonico o utilizzando la chat WhatsApp disponibile da device.”. Seguendo il link che viene suggerito dell’operatore non c’è nessuna traccia e mi ritrovo in una sorta di Self Care in cui, inutile dirlo, l’opzione per la disdetta del contratto non esiste. Terzo tentativo fallito.
  • Faccio come mi è stato suggerito e scarico l’applicazione FastWeb sul mio telefono. Cerco in lungo e in largo l’opzione per disdire il contratto ma l’unica cosa che trovo è un link alla fantomatica web form di cui al punto uno. Quarto tentativo fallito.
  • A questo punto rimangono tre opzioni: Raccomandata A/R, PEC e visita fisica ad un negozio FastWeb. Opto per la prima con un servizio online sperando che non facciano obiezioni sulla modalità e sulla firma non olografa.

Boh, a me sembra una inutile odissea. E’ ben evidente che la prossima volta che mi troverò nella necessità di attivare un contratto della medesima natura mi ricorderò di questa pessima esperienza e tra le opzioni disponibili FastWeb finirà inevitabilmente in fondo alla lista.

Ricordiamo che se un cliente ha deciso di andare via, la decisione la ha presa. Comportatevi da gentiluomini e lasciatelo andare con un gioioso arrivederci. Secondo me, prima o poi, torna, non fosse altro perché siete stati gentili.

E comunque, che palle…

Guru

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Da quando mi sono messo a giocherellare con l’Oculus Quest mi sono trovato nella necessità di reinstallare l’applicazione Facebook sul mio telefono. Il motivo è semplice. L’applicazione attraverso la quale puoi gestire il tuo Oculus richiede di autenticarsi con il proprio account Facebook per poter funzionare.

Dopo averla installata, e avendo comunque avuto cura di disabilitare tutte le notifiche, ieri mi è venuta la curiosità di vedere quante notifiche ci fossero. Ho quindi aperto l’applicazione e ci sono stato dentro per cinque minuti scarsi.

Ho notato che nel mio feed di notizie c’era una post sponsorizzato di questo personaggio che preferisco non nominare per non dare una visibilità che non ritengo meriti.

Il personaggio in questione si proclama “guru” e “consulente più pagato al mondo” con una parcella di “5000 Euro all’ora”. Già questo dovrebbe essere sufficiente per farmi desistere da qualsiasi ulteriore investigazione.

In questo post sponsorizzato egli annuncia di avere cacciato il proprio CEO perché colpevole “di una bastardata” (sic.). Si sente quindi in dovere di illustrare ai suoi clienti, o potenziali clienti, le ragioni di questa scelta e decide di farlo attraverso un evento live nel prossimo futuro.

Ora, caro mio, l’eventualità che un CEO debba essere allontanato da una azienda non è poi così remota ma, in genere, si cerca di fare meno rumore possibile sull’accaduto.

Sarai anche un guru ed il consulente più pagato al mondo ma, questo caso, ho il sospetto che tu stia solo tentando di vendere quello che hai da vendere, qualsiasi cosa questa sia.

Se tu fossi davvero il grande consulente che dici di essere probabilmente avresti riposto maggiore attenzione nella selezione del tuo CEO e, in secondo ordine, avresti gestito la cosa con maggiore delicatezza.

L’allontanamento di un CEO raramente non si porta dietro conseguenze legali e farne pubblicità online ed addirittura dire che spiegherai nel dettaglio le nefandezze di cui il CEO si è reso responsabile non farebbe altro che indebolire la tua posizione legale nei suoi confronti. Se ti va bene parte in parallelo una querela per diffamazione.

Non mi sembra un comportamento da “da consulente più pagato al mondo”

Mi sembri più una macchietta che un guru.

Spendo i miei cinque minuti a leggere i commenti sotto al post e potete immaginare quale sia il tenore. Schiaffi a destra e a manca. Una nota positiva c’è. Il nostro non risponde, non si altera, non si arrabbia e tira dritto per la sua strada. Immagino che nonostante i detrattori qualche pesce che finisce nella rete c’è sempre. La rappresentazione della autorità, reale o fittizia, ha sempre un grande fascino.

Chiudo tutto e torno ai miei, più produttivi, affari.

In serata prendo in mano il mio iPad e mi faccio un giro su YouTube. Magicamente nella lista dei video selezionati per me cominciano a comparire video del soggetto di cui sopra. E non uno ma, direi, tre o quattro nelle primissime posizioni.

Va detto che del personaggio non avevo alcuna contezza prima di oggi. Era un illustre signor nessuno, un Carneade di cui, fortunatamente, ignoravo l’esistenza.

Eppure, in qualche modo, Facebook e Google si sono parlati e adesso la mia home page di YouTube è invasa dal video dell’invasato.

Nel caso io avessi avuto dei dubbi riguardo la mia decisione di disinstallare l’applicazione Facebook ecco la dimostrazione del fatto che la mia scelta era del tutto corretta.

Codice vecchio

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Come ho scritto qualche giorno fa in questa settimana sto portando del codice da una applicazione Google App Script contenuta in singoli Google Sheet a un Google Workspace Add On.

La sostanza del codice che fa il lavoro sporco non cambia molto. Quello che cambia, anche sensibilmente, è il contesto in cui il codice viene eseguito e la relazione tra client functions e server functions.

Ad ogni modo ho colto l’occasione per rivedere parte del codice che avevo scritto in passato per cercare di renderlo un pochino più efficiente di quanto non fosse.

Sono circa cinquemila righe di Javascript ed una trentina di differenti chiamate a REST API di Salesforce.

Ci sto mettendo un botto di tempo. Molto più di quanto avessi previsto.

Rileggo il codice che ho scritto ed in alcune occasioni faccio fatica a comprendere, o a ricordarmi, per quale motivo lo avessi scritto in quel modo.

Mi sono convinto che il codice è come la scrittura. Così come la nostra scrittura cambia nel tempo anche il modo in cui affrontiamo un problema e lo risolviamo con del codice cambia in funzione del momento. Non ci avevo mai fatto caso primo.

Potrebbe anche trattarsi di un problema di invecchiamento del mio cervello che probabilmente è meno elastico di un tempo. O, in alternativa, avevo scritto del codice inguardabile semplicemente per risolvere un problema in fretta.

Interazioni

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Nella giornata di ieri mi è capitato di leggere un tweet bellissimo di cui, purtroppo, non ho tenuto traccia e che non riesco più a recuperare.

In sostanza si parlava di richieste di aiuto su Stackoverflow. Chi scriveva diceva che ogni volta che si trovava nella situazione di dovere chiedere aiuto su Stackoverflow scriveva la sua domanda e la postava. Pochi minuti dopo si loggava su Stackoverflow con un’altra utenza e dava una risposta palesemente sbagliata alla domanda. Questo scatenava la volontà delle persone di correggere la risposta sbagliata.

In sostanza la volontà di correggere una risposta sbagliata motiva le persone a fornire la risposta corretta molto di più che non la volontà di aiutare chi ha postato la domanda.

A parte il fatto che io trovo la cosa assolutamente geniale, penso che questo sia un comportamento classico all’interno dei social media.

Prendete un qualsiasi social network. Facebook, Twitter, LinkedIn, Instagram… praticamente tutti. La maggior parte degli utenti non commenta il contenuto ma commenta i commenti.

E tutto questo con un astio che è oramai diventato del tutto intollerabile. Non sono più spazi di discussione in merito al contenuto ma, piuttosto, spazi in cui menare fendenti a destra e a manca contro gli altri utenti.

Questo è il motivo per cui raramente commento qualsiasi cosa.

Forse è il caso di cominciare a pensarci su.

Diffusione

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I miei undici lettori non mi leggono tutti sul sito di Corrente Debole. Non che la cosa mi crei particolari problemi. Il sito di Corrente Debole mi serve solo ed esclusivamente per ospitare quello che scrivo in uno spazio che controllo solo ed esclusivamente io. La probabilità che il sito venga oscurato direi che è bassissima.

Tutti gli altri luoghi in cui i contenuti di Corrente Debole vengono diffusi non appartengono a me. La pagina Facebook, Twitter, LinkedIn e Medium sono luoghi in cui in maniera più o meno automatica riporto quello che viene scritto sul sito.

Questo avviene proprio perché i miei undici lettori sono sparsi tra queste diverse piattaforme.

In particolare su Medium ho fatto una riflessione dopo un paio di post scritti in Inglese. La diffusione dei post nella lingua madre del sito è maggiore e la popolazione media che frequenta Medium è, mediamente, fatta di persone con le quali mi piacerebbe discutere di più.

E’ chiaro che la lingua Italiana è un problema.

Per questa ragione sto pensando di scrivere in Inglese su Medium. Non sono proprio convintissimo. Corrente Debole mi porta via non più di cinque minuti al giorno per scrivere la quotidiana fesseria. Riscriverla in Inglese richiederebbe altro tempo che non sono sicuro di volere spendere su questa cosa.

E’ probabile che faccia un esperimento per misurare quanto varia l’impegno da un lato e quante chiacchiere di valore faccio dall’altro.

Resta il fatto che scrivere in Inglese un pochino mi manca dato che negli ultimi due anni non ho proprio avuto grandi occasioni di farlo. Probabilmente non sono molto arrugginito.

Ad ogni modo non ho ancora deciso. Ci penso su.

Google Editor Add-On

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C’è un elemento piuttosto critico nella nostra catena di strumenti che vive su dei fogli Google Sheets. La scelta al tempo ci sembrò ovvia ed anche oggi sembra essere la soluzione migliore per le nostre necessità.

Questi oggetti contengono del codice sotto forma di Google App Script e sono responsabili di due elementi fondamentali per il buon funzionamento dello strumento:

  • Esiste tutta una serie di funzioni che ci permette di manipolare le informazioni che abbiamo inserito in funzione della organizzazione del progetto.
  • Un’altra serie di funzioni si occupa di inviare i dati elaborati sul foglio a Salesforce per evitare che le persone debbano perdere tempo ad inserire manualmente i dati dall’altra parte.

Sino ad oggi ha fatto egregiamente il suo lavoro ma va detto che avere il codice presente su ogni singolo Google Sheets è estremamente inefficiente.

Anche se lo strumento si è consolidato nel corso degli anni e non richiede particolare manutenzione è altrettanto vero che in alcuni casi particolari genera qualche errore che è necessario sistemare.

Per la cronaca, il foglio in oggetto è completamente opera mia sia per la parte di elaborazione locale che per la parte che si occupa di interfacciarsi con Salesforce.

La prima parte è stata più complicata della seconda. Le regole che governano l’assegnazione delle risorse ai progetti sono piuttosto complesse e tutto gira intorno al concetto di iterazione. L’integrazione con Salesforce è stata, invece, una passeggiata di salute. Ringraziando il cielo le REST API di Salesforce ed il massivo utilizzo di SOQL hanno reso tutto più facile. Tra l’altro la documentazione di Salesforce è incredibilmente precisa ed è stata di grande aiuto per il lavoro. Quando pensate alla documentazione di API date una occhiata a Salesforce e copiate!

Complice il fatto che è necessario introdurre delle modifiche in funzione della nuova struttura organizzativa si è manifestata la necessità di mettere mano al foglio ed al codice.

Ho colto l’occasione per fare in modo che tutto il codice venisse eliminato dai singoli fogli e migrato in un Google Editor Add-on.

Questo passaggio ci consentirà di centralizzare tutto il codice in un unico punto e distribuire gli aggiornamenti in maniera automatica.

Il passaggio non è stato affatto banale.

La documentazione di Google non è fatta così bene come quella di Salesforce.

La prima cosa che devi fare è creare un progetto su Google App Scripts, a questo punto devi creare un altro progetto su Google Cloud Project per poi legare le due cose all’interno del progetto Google App Scripts. Per poterlo pubblicare devi abilitare le Google Workspace Marketplace SDK e poi procedere, anche se è un progetto che verrà usato solo dalla tua organizzazione.

Fatto tutto questo sei pronto a portare il codice.

In realtà il processo è molto più complicato ed articolato rispetto a quanto ho brevemente descritto poco sopra. Se a qualcuno interessa potrei anche scrivere un post tutorial sul tema. Se vi interessa fate un fischio o, in alternativa, mettevi in contatto con me che vi racconto. Non è rocket science ma ci sono dei passaggi molto poco intuitivi. Beh, molto poco intuitivi per me. Può anche essere che sia io a non essere sufficientemente sveglio.

Visto che ero già in scia per il cambiamento ho deciso anche di implementare oauth2 per fare in modo che gli utenti si autentichino in autonomia su Salesforce senza usare un utente generico come nella versione precedente.

Anche questo passaggio in Google App Scripts non è proprio del tutto banale. Anche per questo varrebbe la pensa fare un tutorial o rilasciare il codice su GitHub in modo che sia utilizzabile. Non ho trovato nulla di utile da cui copiare per cui è tutto frutto del mio piccolo cervello.

Ci sono degli esempi di autenticazioni oauth2 sul profilo github di Google e funzionano pure. Il problema è che sono basati su AngularJS che è stato discontinuato a Gennaio 2022 e mettermi a studiare per portare il codice su Angular era proprio al di fuori dei miei desideri.

L’autenticazione oauth2 viene quindi fatta con HTML e Javascript all’interno di una sidebar in Google Sheets. C’è un pochino di zucchero estetico e di usabilità fatto con la buona vecchia libreria jquery.

Per il momento tutto sembra che funzioni a dovere.

Ora comincia il lavoro di porting del codice e sarà anche l’occasione per renderlo meno agricolo di quanto non fosse in precedenza.

La verità è che questa cosa mi sta divertendo così tanto che ci sto lavorando sopra anche oggi che è sabato. Fuori il tempo è brutto e la moto rimane in garage, ho un impegno nel pomeriggio e quindi ho un pochino di tempo questa mattina e non ho molta voglia di fare altro. Tra l’altro sto scoprendo un paio di cose interessanti su Google App Scripts che ho proprio voglia di approfondire. Forse questo non si può chiamare lavoro nel senso proprio del termine.

E tutto questo senza contare il passaggio all’engine V8 di Google App Script che è uscito da troppo tempo per poterlo trascurare ancora.

Io volevo solo un report

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Nella lunga lista di articoli che sono nel mio feed di notizie compare la pubblicazione di un report che mi interesserebbe davvero leggere. Il report è pubblicato da una grandissima azienda che, in tutta sincerità, non credo sia il caso di nominare.

Il report in questione sembra davvero interessante e per questo motivo cerco di capire come scaricarlo. Seguo il link dell’articolo ed arrivo sul sito dedicato. Il contenuto del report è completamente fruibile online ma viene anche offerta la possibilità di scaricarlo in formato Adobe Acrobat PDF. In genere tendo a preferire questa opzione perché non sempre ho il tempo, o la voglia, di leggermi subito quello che mi interessa.

Clicco sulla voce “Download report” ed il sito mi avverte che per potere scaricare il report devo registrarmi al sito. Mi convinco del fatto che il valore del report è sufficientemente alto perché io conceda una fettina dei miei dati personali. Nome e cognome, indirizzo di posta elettronica, job title e azienda per la quale lavori. Infine devi scegliere una password.

Come ho scritto in passato io uso 1Password per gestire tutte le mie password online e non vedo per quale motivo io debba cambiare quella che io ritengo essere una buona abitudine.

Lascio quindi che sia 1Password a valorizzare il campo password e a memorizzare le informazioni per i successivi login. Premo il bottone per inviare le informazioni e la pagina web mi informa che la password che ho scelto non soddisfa i requisiti richiesti. Scrollo indietro e mi trovo evidenziati in rosso i criteri. Tanti caratteri, tanti numeri, tanti caratteri speciali, almeno un carattere maiuscolo, fai una giravolta, falla un’altra volta…

Leggo i parametri velocemente e modifico i criteri di generazione della parola chiave in 1Password. Riprovo un’altra volta ed ottengo lo stesso messaggio di errore.

Sapete che c’è? Andate a farvi benedire. Stiamo parlando del download di un report non dell’accesso ad una banca dati che contieni i codici di lancio di missili nucleari.

Punto il mio mouse sulla voce “File” del menu e clicco su “Export as PDF”. Mezzo secondo ed il report è nella mia cartella Downloads. Non sarà infighettato come quello che avrei potuto scaricare ma mi interessa il contenuto, non la forma.

E per fortuna che dovresti occuparti di Digital Transformation.

In questo modo ti sei perso il mio contatto ed i miei dati. Se va bene a te, figurati a me.

Lo stai facendo male.

Spam

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Quando desidero farmi qualche risata mi faccio un giretto nella cartella spam del mio account di posta elettronica personale e mi metto a leggere il contenuto per qualche minuti.

Ci sono generalmente quattro tipologie di messaggi:

  • Ci sono quelli che ti annunciano il fatto che sei l’unico erede conosciuto di una magnate africano i cui soldi sono lì in attesa di essere depositati sul tuo conto. Naturalmente tutto questo può avvenire solo se invii una determinata quantità di denaro, modesta per essere sincero, al mittente del messaggio di posta elettronica. Confesso che ogni tanto rispondo giusto per vedere che piega prende la faccenda. In genere continuo sino a quando ho tempo, o voglia, o finché l’interlocutore non mi manda a quel paese.
  • Ci sono quelli a cui le dimensioni del mio impianto idraulico (eufemismo, perché alcuni termini non sta bene metterli per iscritto) stanno particolarmente a cuore e che mi propongono ricette miracolose per aumentare la portata dello stesso. Mi domando sempre che cosa possa avere fatto immaginare a questi personaggi che il mio impianto idraulico richiedesse della manutenzione.
  • Ci sono i messaggi di donne che si sono follemente innamorate di me dopo avere visto le mio foto online e che mi propongono infuocate notti d’amore. Ho il sospetto che qui la faccenda sia strettamente collegata al punto sopra. Anche in questo caso quando voglio giocare un pochino rispondo.

E poi, ultimamente, i più biechi dei messaggi.

Finte richieste di aiuto dall’Ucraina che chiedono denaro.

Ora, io capisco che tu, in qualità di scammer, ti inventi la qualunque per portare a casa dei quattrini ma qui, credo, si è davvero superato il limite. Se le altre tipologie di messaggi mi fanno sorridere, questi mi fanno veramente incavolare.

Come diavolo ti può venire in mente di sfruttare un dramma come una guerra in corso, e per entrambe le parti, beninteso ?

Ecco, sto cercando una idea per fargliela pagare. Ci penso su.

In studio… e python

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Oggi sono stato in studio ed è stato molto piacevole rivedere facce che non incrociavi da mesi. Mi sono proprio divertito anche se ho dovuto saltare da una cosa all’altra senza soluzione di continuità. Credo che sia il caso di cominciare a tornarci con maggiore frequenza.

Ho incrociato una persona che mi ha raccontato di un problema che stava incontrando su un cliente. Questo cliente gli ha passato un insieme di più di seicento file Excel per ognuno dei quali devono essere estratte delle informazioni e depositata in un unico altro file Excel.

Ci sono ovviamente una infinità di modi per poterlo fare.

Mi sono offerto di dargli una mano e ci siamo messi fianco a fianco di fronte al mio pc.

30 righe di python ed il problema è stato risolto in una mezz’ora.

Un pochino di xlrd, una manciata di xlwd, una spolverata di re su un piatto di os ed il gioco è fatto.

Mi ci sono davvero divertito, ed ho risolto un problema ad un paio di colleghi.

Un nuovo modo di lavorare… davvero?

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In questo ultimo anno pare che tutti siano saliti sul treno del “nuovo modo di lavorare”. Tutti ne scrivono e tutti ne parlano.

Sempre più spesso mi vedo comparire immagini di persone che lavorano dalla spiaggia o dal bordo di una piscina. Nella realtà dei fatti non sono persone vere che lavorano. Sono immagini stock che vengono appiccicate ad un qualsiasi articolo sul tema. Sì perché vorrei vedervi a lavorare con il riflesso di un sole tropicale sullo schermo di un personal computer.

Diciamo che sono profondamente convinto che ogni cosa è perfettibile, compreso il modo con il quale svolgiamo il nostro lavoro quotidiano. Come sostengo sempre, tutto è inventato e come tale può essere inventato nuovamente da un giorno all’altro.

Rimango comunque perplesso dalla narrazione ed in seguito dalla realtà dei fatti.

Se da un lato un nuovo modo di lavorare è certamente possibile dall’altro esiste uno status quo che per la maggior parte della aziende, in particolar modo quello medio-grandi, rema in senso contrario.

Esiste quindi un problema culturale che deve essere affrontato e risolto e che sostanzialmente attiene alla capacità delle aziende di fidarsi dei propri collaboratori. Cosa questo che Italia non mi sembra abbia raggiunto vette particolarmente alte.

Potremmo leggere quanto dichiara il ministro (sempre e comunque con la m minuscola) Brunetta per comprendere quanto sia alto il livello di fiducia che viene concesso ai lavoratori pubblici, salvo poi fare marcia indietro quando il Consiglio dei Ministri si dirige in altra direzione. Le dichiarazioni del Ministro Brunetta sono pubbliche ma lo stesso genere di commenti me lo immagino in qualsiasi altra azienda.

In sostanza il pensiero è: “Ma siamo davvero sicuri che se facciamo lavorare i nostri dipendenti da casa questi lavorino davvero?”. Tutto questo si basa sul fatto che il lavoro si tende a misurarlo in tempo e non in efficacia. Poco conta poi se in ufficio ti bevi ventisette caffé in un giorno o fai una pausa pranzo di tre ore per poi uscire dall’ufficio alle venti e dire che ti sei sbatutto come una pelle di daino.

Il nuovo modo di lavorare dovrebbe, in prima istanza, essere basato sui risultati e non sul tempo.

Il secondo tema importante riguarda il tipo di lavoro. E’ ben evidente che se io mi occupo di design digitale posso lavorare su una spiaggia di Lampedusa senza grandi difficoltà. Ben diverso è se lavoro alla catena di montaggio di una azienda automobilistica. Direi che è piuttosto difficile che una linea di produzione di un’auto possa essere spostata nel salotto di un lavoratore.

Il nuovo modo di lavorare non è quindi per tutti.

Esiste poi il tema del middle management. Chi di voi si è occupato di “agile transformation” sa benissimo quanto questo sia un tema critico. In una modalità di lavoro prettamente agile il middle management rischia di perdere la sua ragione di essere, ammesso che ne abbia ancora una.

Lo stesso vale per una nuova modalità di lavoro. Se il middle management svolge solo ed esclusivamente una funzione di controllo, in questo nuovo scenario non ha ragione di esistere.

Tutti comunque sembra che si siano imbarcati in questa definizione del nuovo modo di lavorare. Così come per Agile non esiste la ricetta perfetta che si può applicare a qualsiasi realtà. Ogni azienda deve valutare la sua cultura epoi disegnare la sua strada per raggiungere l’obiettivo. Così come è avvenuto per Agile mi aspetto una enorme proliferazione di azienda che si dichiareranno in grado di accompagnare nella trasformazione verso un nuovo modo di lavorare. Quello che mi domando è quanto queste siano davvero pronte per aiutare nella trasformazione o stiano semplicemente mettendo le mani nel portafoglio dei loro clienti.

Esiste infine il tema normativo. Non è possibile progettare un nuovo modo di lavorare se le norme che lo governano non si adattano ai nuovi scenari. In questo caso ritengo che la classe politica non sia in grado di comprendere in autonomia le questioni legate a questi temi. Rivedere il caso Brunetta nel caso si avessero dei dubbi a riguardo. La politica è troppo lenta rispetto alla evoluzione del mercato del lavoro. E’ necessario un cambio di passo affinché si possa parlare di un nuovo modo di lavorare.

Ultimamente Airbnb ha dichiarato che i suoi dipendenti possono decidere di lavorare da remoto per sempre. In questo parliamo di legislazione americana che permette spazi di manovra, nel bene e nel male, molto più ampi di quella Europea o Svizzera.

In Sketchin abbiamo molte persone, me compreso, che godono dello stato di frontaliere. In sostanza: se vivi in un comune entro la fascia di confine, l’unica tassazione cui sei sottoposto è quella Svizzera. Questo però è vero se e solo se non lavori al di fuori del territorio Svizzero per un determinato numero di giorni. Se superi quella quota sarai comunque sottoposto a doppia imposizione e quindi pagherai le tasse sia in Svizzera che in Italia. Vero è che esiste un nuovo accordo bilaterale che dovrebbe entrare in vigore, pare, nel 2023 e che elimina lo status di frontaliere per i nuovi contratti ma, per il momento, è come ho scritto sopra.

Quindi Sketchin potrebbe permettere ai suoi dipendenti di lavorare sempre da remoto e per farlo noi siamo pronti da sempre. Il nostro metodo di lavoro è costruito sin dalle origini per permetterlo. Nel caso in cui lo facessimo, e la persona decidesse di farne uso metteremmo la persona nella sfortunata condizione di pagare più tasse di quante non ne pagherebbe ora. E questo al di là di qualsiasi altra considerazione che riguarda la fiscalità aziendale.

Le norme quindi non ci permettono di farlo.

Io penso che sia un tema che richiede tempo e studio. Non si può e non si deve improvvisare. Non fatelo perché tutto lo stanno facendo ed è figo raccontarlo. Fatelo perché è sensato e, cavolo, cercate di farlo bene.

E finalmente…

Photo by Lewis J Goetz on Unsplash

… sono riuscito a sedermi sulla moto.

Spendo quasi un quarto d’ora a ricercare in giro per casa e nei vari armadi e cassetti tutti i pezzi che mi servono per riportare a casa la carcassa.

La giacca con le protezioni sta da una parte, il paraschiena è finito in fondo ad un armadio, il casco ed i guanti sono in un altro armadio. La custodia del mio iPhone è in un cassetto. Ma dove cavolo o messo libretto ed assicurazione? Oh, ed il telecomando di riserva del cancello? In quale anfratto sarà andato a finire?

Prima sudata della giornata.

Scendo in garage ed indosso il caso. Sistemo il telefono sul supporto, giro la manopola e tutte le luci della moto si accendono. Metto in moto ed il suono del motore riempie il garage. Mi fermo qualche secondo ad ascoltare il suono del motore. E’ partita al primo colpo. Questo motore non fallisce mai.

I 350 chili della moto cominciano a muoversi ed imbocco la rampa del garage per raggiungere il cancello. I primi metri dopo quasi un anno di stop. Sempre emozionante.

Aspetto che il cancello si apra e mi metto in movimento. Il lungolago è pieno di turisti, di macchine e di altri motociclisti che si stanno godendo il primo sole di questa primavera. Tra la prima marcia e la seconda arrivo sulla strada principale e mi immetto con tranquillità.

Il motore suona e faccio una piccola tirata. Prima, seconda e terza. Arriva la prima curva. Piego un pochino più del necessario giusto per sentire la moto rispondere. E’ una moto pesante ma mi sembra di stare su una poltrona e di guidare una bicicletta. Esco dalla curva e la moto si raddrizza pronta alla curva successiva.

Continuo sulla strada. La Regina Nuova ha abbastanza curve per divertirsi anche a bassa velocità e, in fondo, la velocità non mi è mai interessata più di tanto. Mi piace guardarmi intorno, sentire il rumore del motore e l’aria sulla faccia. Mi godo, finalmente, questi primi chilometri.

Incrocio il primo motociclista che guida un Fat Boy che non non sembra tanto giovane. Anche la mia moto non è giovanissima. Ci salutiamo. Il primo saluto della nuova stagione. Questa è una delle cose che più mi piacciono girando in moto. Tutti si salutano. Solo qualche impallinato su moto super sportiva non si degna di rispondere. Quelli che guidano le Harley non vengono troppo considerati da coloro che guidano moto sportive. Credo che si tratti della sindrome del commercialista. Chi guida la Harley è un motociclista della domenica e non merita il saluto. Niente di più falso. Non faccio il commercialista.

Faccio una cinquantina di chilometri intorno al lago. Andatura da crociera. L’aria sul viso e le vibrazioni che avevo quasi dimenticato.

Mi decido a tornare verso casa. Ci sono i ragazzi e voglio passare ancora un po’ di tempo con loro prima di doverli riaccompagnare a casa.

Mi fermo in un bar per prendere un caffè. Parcheggio davanti al bar e ci sono altre motociclette parcheggiate. Mi sfilo casco, guanti e giacca e mi fermo un secondo ad ascoltare il motore della moto che comincia a raffreddarsi.

Non passa nemmeno un minuto che un altro motociclista mi raggiunge. Lui guida una Honda Dominator del 2020. Una bella moto. Cominciamo a chiacchierare di motociclette, di viaggi, di strade. La mia prima moto fu una Yamaha Supertenerè. Una bomba di motocicletta. Ci sono ancora molto affezionato anche se la ho venduta.

Mi piace questa cosa che la moto ti permette di scambiare due chiacchiere con degli sconosciuti al di là di tutto. L’argomento sono solo le moto e sono una sorta di terreno comune che fa sempre piacere condividere.

Sulla strada del ritorno a casa mi fermo al supermercato a comprare un paio di cose che mi servono per la cena di questa sera. Al mio ritorno trovo padre e figlia che guardano la moto.

Chiedo alla bimba se la moto le piace e se vuole sentire il rumore del motore. Lei annuisce ed io incrocio lo sguardo del padre per avere il suo assenso. Accendo il motore e lei rimane a bocca aperta. Le chiedo se ha voglia di fare accelerare la moto ed ancora guardo il padre per capire se gli va bene. Lui annuisce. La bimba si avvicina alla moto con un pochino di timore. Le spiego come fare e lei comincia ad accelerare con delicatezza. Sembra stupita dal fatto che semplicemente girando una manopola su un manubrio la moto risponda ai suoi comandi. Passano una trentina di secondi. Entrambi mi ringraziano e si avviano all’interno del supermercato. Ci salutiamo augurandoci una buona domenica.

Mancano dieci chilometri a casa e la temperatura è perfetta. Me li godo con lentezza fino al momento in cui arrivo davanti al cancello di casa. Prendo il telecomando del cancello e lascio che scorra fino alla fine prima di imboccare la rampa che mi porta nel parcheggio sotterraneo.

Faccio la consueta manovra per parcheggiare, spengo il motore e giro la manopola per spegnere l’impianto elettrico. Mi tolgo il casco ed i guanti e scendo.

Rimango qualche secondo a guardare la moto parcheggiata ed ascolto i suoni che provengono dal motore che ha cominciato a raffreddarsi.

Credo che stessi sorridendo in quel momento.

Le emozioni che la moto è in grado di darmi sono veramente ineguagliabili.

E’ stato un giro breve, ma è stato il primo giro dell’anno.