Sviluppo con OpenXR e Oculus Quest 2 

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Nel mio tempo libero sto approfondendo lo sviluppo di applicazioni su Oculus Quest 2 utilizzando Unity ed il package Open XR. Dal momento che non ne sapevo proprio nulla di sviluppo sull’engine di Unity la prima cosa da affrontare era il setup di un ambiente di sviluppo che avesse tutto il necessario per permettermi di proseguire nella mia ricerca.

Quello che ho scoperto è che prima di potere scrivere del codice che facesse delle cose più o meno serie era necessario impostare in maniera appropriata l’ambiente di sviluppo in maniera che chiacchierasse in maniera corretta con l’Oculus Quest 2.

Esperimento dopo esperimento mi ritrovavo sempre nella condizione di reimpostare l’ambiente di sviluppo facendomi perdere ogni volta una quindicina di minuti.

Per questo motivo ho deciso due cose. La prima è quella di scrivere una breve guida per chi si trova nelle mi stesse condizioni. La seconda è che rendo disponibile un template su github in modo che non dobbiate seguire la guida se non ne avete voglia.

Importante sottolineare il fatto che questa guida è stata scritta per lo Unity Editor versione 2021.2.10f1 ed il template è strettamente dipendente dalla versione 2021.2.x. Su github vi spiego come utilizzarlo anche su altre versioni.

Per il momento sto utilizzando OpenXR e XR Interaction Toolkit. In futuro migrerò tutto su Oculus Interaction Toolkit che è stato appena rilasciato. Importante notare che XR Interaction Toolkit è un package in stato di pre-release ed ogni volta che ne viene rilasciata una nuova versione cambia un botto. Usate quello che trovate sotto come linea guida e non come una bibbia.

Ecco quello che dovete fare.

Passo 1
Accertarsi che insieme all’editor di Unity siano scaricati i seguenti moduli aggiuntivi:

  • Android Build Support
    • Android SDK & NDK Tools
    • OpenJDK
      Questo ovviamente oltre alla build di default che dovrebbe essere già scaricata automaticamente sulla vostra macchina.

Passo 2
Ora dobbiamo dirigerci verso
File –> Build Settings –> Player Settings –> XR Plugin Management e cliccare sulla voce “Install XR Plugin Management”

Non appena terminerà l’installazione del plugin dovremmo avere a disposizione tre opzioni sotto la voce “Plug-In providers”

  • Oculus
  • Open XR
  • Unity Mock HMD

Clicchiamo sulla voce Open XR per installare quanto necessario. Al termine dell installazione ci verrà esposto un warning e clicchiamo su “Yes”.

Nel momento in cui l’editor ripartirà troveremo un warning che ci dice “At least one interaction profile must be added…”. Clicchiamo sulla icona del warning e subito dopo sulla voce Edit del messaggio di warning che ci era stato proposto.

Vedremo che la voce “Interaction Profiles” è vuota. Clicchiamo sul + che troviamo sul lato destro ed aggiungiamo il profilo del visore che stiamo utilizzando, nel mio caso Oculus Touch Controller Profile.

Sempre in questa pagina di impostazioni cambiamo il campo “Render Mode” a “Multi Pass”.

La stessa cosa va ripetuta nel tab Android.

Passo 3
A questo punto è necessario installare l’XR Interaction Toolkit.

Andare sulla voce di menu Window e cliccare su Package Manager.

Passare dalla visualizzazione “Packages in project” a quella “Unity Registry”, cliccare sulla rotellina delle impostazioni e selezionare la voce “Advanced Project Settings” e spuntare la casella “Enable Pre-release packages” per poi cliccare sul bottone “I Understand”.

In questa versione dello Unity Editor il package XR Interaction Toolkit non viene comunque visualizzato. Per risolvere questo problema cliccare sulla icona “+” in alto a sinistra, cliccare sulla voce “Add package from git url” e digitare “com.unity.xr.interaction.toolkit”

Prima di proseguire Espandere la voce Samples ed installare il package “Default Input Action”.

Chiudere il package manager.

Passo 4
Nel nostro progetto dovremmo avere una cartella samples e dentro di essa una cartella Samples –> XR Interaction Toolkit –> 2.0.0.pre-7 –> Default Input Actions che contiene i seguenti files:

  • XRI Default Continuous Move
  • XRI Default Continuous Turn
  • XRI Default Input Actions
  • XRI Default Left Controller
  • XRI Default Right Controller
  • XRI Default Snap Turn Clicchiamo su tutti questi uno ad uno ad esclusione di XRI Default Input Actions e muoviamo la nostra attenzione sulla finestra dell’Inspector. Per ognuna delle voci selezionate dovremo vedere una voce che recita “Add to ActionBased…” diversa per ognuna delle singole voci che selezioneremo. Cliccare su questa voce per ognuna delle selezioni.

Passo 5
Ora apriamo di nuovo File –> Build Settings.

Selezioniamo la voce Player Settings e poi Presets Manager. Per qualche ragione lo Unity Editor non “battezza” il controller destro ed il controller sinistro.

Cliccate sulle due voci sotto Action Based Controller ed inserite Left and Right.

A questo punto il sistema è pronto per lo sviluppo su Oculus.

Salvate il progetto e siete a posto.

Nel caso non vogliate sbattervi ecco il link al repository github dove troverete il template pronto per essere scaricato ed utilizzato. Inutile dire che imparereste molto di più se seguiste la guida ma questo è solo un suggerimento.

UnityOpenXRTemplate

Il template è pronto all’uso ed in realtà contiene giù una micro applicazione che può essere compilata ed installata sul vostro Oculus Quest 2 per essere sicuri che tutto funziona a dovere.

Semplicità

Photo by Kelly Sikkema on Unsplash

Ho scritto del fatto che sto usando Obsidian come mio strumento principale per prendere appunti in forma digitale. Molti degli scritti di Corrente Debole prendono vita direttamente da lì dato che da qualche parte voglio salvarli non avendo mai memoria di fare un backup del mio server WordPress.

Quello che mi piace di Obsidian è che lo apri e scrivi. Non ci sono sette milioni di opzioni che devi configurare prima di cominciare a scrivere. E’ come prendere un foglio di carta, una penna e mettersi al lavoro. Questo comportamento mi è particolarmente utile perché infilo gli scritti di Corrente Debole tra una cosa e l’altra. Quando ho cinque minuti liberi scrivo il post del giorno e via.

Nonostante tutto ho trovato qualcosa di ancora più semplice. Con un ottica minimalista oltre questo c’è solo il non fare nulla.

Una pagina bianca con una Textbox. Questo è quanto.

Non so per quale motivo ma io la ritengo una pensata geniale.

Il repository GitHub di questa perla è qui: writer

Plastica inutile

Photo by Jonathan Chng on Unsplash

Nei giorni scorsi stavo scorrendo la pagina di LinkedIn quando mi sono imbattuto in questa fotografia:

Ed ho subito compreso la ragione dell’emoticon con la faccia furente.

Ci si domanda se sia naturale avere tutta quella quantità di plastica intorno ad una strisciolina che presumo essere di carta.

Non essendo un chimico mi domando se un contenitore così grande sia una necessità per garantire l’efficacia del test o un semplice spreco.

Se ci trovassimo nella seconda ipotesi mi domando per quale motivo no sia fatta una sana attività di product design intorno a questo prodotto. Immagino che di questi test se ne siano consumati a milioni negli ultimi due anni e la quantità di plastica che abbiamo introdotto nel sistema è, molto probabilmente, enorme.

Non si sarebbe potuto immaginare un contenitore di cartone, magari ottenuto da carta riciclata?

Tra l’altro parliamo di un oggetto che deve avere una vita media di poco più di qualche minuto. Lo tolgo dalla confezione, eseguo il test, emetto un respiro di sollievo se sono negativo e sballo la testa contro il muro se sono positivo e poi butto tutto nella spazzatura sino al test successivo.

Avremmo risparmiato la plastica ed avremmo avuto tra le mani una ottima opportunità di comunicazione.

Ho la sensazione che questi test siano stati prodotti senza troppo pensiero.

La pressione derivante dalla pandemia che preme affinché siano immessi sul mercato in tempi rapidissimi e, probabilmente, la presenza nel proprio portafoglio di prodotti simili come ad esempio i test di gravidanza.

In fondo, come tante altre volte, si tratta di una occasione persa. Ogni volta che non ci sofferma a pensare quando si lavora ad un prodotto od un servizio e ci si basa solo ed esclusivamente sulla nostra esperienza passata questi sono i rischi che si possono correre.

Direi che si tratta di qualcosa sui cui dovremmo riflettere attentamente.

Automazione

Photo by Carl Heyerdahl on Unsplash

Oramai capita abbastanza spesso di leggere racconti nei quali si narra la storia di qualche persona che ha automatizzato il proprio lavoro più o meno completamente.

Io trovo queste storie decisamente affascinanti perché sono sempre stupito dalla immaginazione delle persone e dalla loro capacità di approfittare della organizzazione aziendale.

L’ultima storia che ho letto riguarda un amministratore di sistema che “lavora” per uno studio legale. Egli è riuscito ad automatizzare quello che dovrebbe essere il suo lavoro in maniera totale. Questo lo costringe a non spendere più di dieci minuti al giorno davanti al computer per portarsi a casa uno stipendio.

Il link al post su reddit è questo: I automated my job…

Questa è davvero solo l’ultima delle tante storie che ho letto.

Molte di queste non riguardano soltanto l’ambiente lavorativo ma, spesso, si spostano nella sfera privata delle persone. Ricordo, ad esempio, lo script di uno sviluppatore che in maniera automatica mandava dei messaggi di buongiorno e buonanotte alla fidanzata.

Il primo punto interessante è il fatto che moltissime attività che vengono svolte manualmente possono essere automatizzate in maniera completa anche se queste appartengono alla responsabilità di un singolo individuo. Qualsiasi programmatore di medio livello è in grado di mettere mano a librerie che permettono di automatizzare qualsiasi task su un personal computer. Dalla simulazione della pressione dei tasti su una tastiera sino alla automatizzazione della navigazione web passando per tutta la pletora di API che sono oggi disponibili per maggior parte delle applicazioni che vengono utilizzate nelle diverse aziende.

Insomma, è alla portata di tutti, o quasi.

Rimane una considerazione di carattere etico? E’ giusto che venga riconosciuta una retribuzione per qualcosa che non sto facendo, almeno direttamente?

Qui prendo una posizione scomoda. Secondo me è perfettamente etico ed è anche dovuto. Sono assolutamente convinto che si deve approfittare della stupidità delle aziende. Se mi affidi un lavoro e mi retribuisci per quello io mio unico compito, e responsabilità, è quello di portarlo a termine, indipendentemente dalla modalità che utilizzo per portarlo a termine.

Sì, ma non sarebbe giusto rendere evidente alla azienda che si potrebbe fare in maniera diversa risparmiando tempo e denaro?

Direi, non necessariamente.

Se sono responsabile del miglioramento dei processi aziendali la risposta è ovviamente sì. Se, al contrario, sono responsabile solo della esecuzione di quel task direi che non è affar mio.

La realtà è che in alcuni momenti mi piacerebbe avere l’opportunità di fare fare a qualcun altro il mio lavoro.

Provo a fare un elenco delle cose che faccio e provo a capire come potrei automatizzarle_

  • Reporting. Qui includo tutto il reporting che viene chiesto dal gruppo. Questo direi che è certamente del tutto automatizzabile. Negli anni mi sono convinto che tutta questa reportistica non viene letta da nessuno o, se questa viene letta, se ne leggono solo i grandi totali.
  • Operations. Sicuramente non del tutto automatizzabile ma in qualche sua parte si, sopratutto per il genere di lavoro che faccio io sulle operations che sostanzialmente è di puro controllo e gestione delle eccezioni. In questo caso potrei andarmi a prendere i vari KPI e farmi avvisare solo ed esclusivamente quando qualcuno di questi KPI esce da un range di parametri che io ho deciso.
  • Presentazioni e documenti. In questo momento non credo che questo sia automatizzabile ma sono anni che penso ad un motore di intelligenza artificiale che crei presentazioni e proposte per me. Nel corso di quasi dieci anni in Sketchin credo che siano prodotte centinaia di presentazioni. Sicuramente ci si potrebbe mettere le mani dentro creando una knowledge base dal quale tirare fuori almeno un timone su qualsiasi argomento che riguardi un progetto di design. Sarebbe un esercizio di Machine Learning decisamente interessante. Qualche tempo fa avevo anche provato a metterci il naso dentro ma mi sono sempre fermato per via del fatto che in Sketchin usiamo Keynote per il quale non esiste documentazione che spieghi il formato interno. Peccato.
  • Conference Call. Direi che in questo caso dobbiamo distinguere due casi. Quelle conference call in cui è richiesto un contributo e quelle in cui devi solo ascoltare, per lo più fregnacce. Per il primo tipo non esiste, ancora, soluzione mentre per il secondo ho già descritto in passato come fare.
  • Riunioni con i clienti con le persone interne. Da qui non si scappa. Non si può fare nulla per automatizzare questi eventi. Ci devi essere di persona personalmente.

Quelli sopra sono solo dei macro temi ma è stato interessante osservarli da questo punto di vista.

Dai, ancora su AirTag

Photo by Onur Binay on Unsplash

E’ vero, sta diventando una mia fissazione ma è un dato certo che il continuo manifestarsi di notizie riguardo gli AirTag di Apple è indice del fatto che qualcosa in quel prodotto non funziona.

Ieri Apple ha pubblicato questo documento nella sezione Newsroom del suo sito: An update on AirTag and unwanted tracking

Se leggete questo documento ci sono dei passaggi interessanti:

AirTag was designed to help people locate their personal belongings, not to track people or another person’s property, and we condemn in the strongest possible terms any malicious use of our products.

E volevo pure vedere che fosse per uno scopo diverso da questo.

We have been actively working with law enforcement on all AirTag-related requests we’ve received. Based on our knowledge and on discussions with law enforcement, incidents of AirTag misuse are rare; however, each instance is one too many.

E’ una affermazione vaga e che non mi rassicura affatto. Siamo tutti d’accordo sul fatto che Apple è una azienda americana ma è altrettanto vero che è presente, quasi, in ogni paese del mondo conosciuto. Che cosa si sta facendo in quei paese che non sono gli Stati Uniti?

Se si fa riferimento al link contenuto del documento e che porta alla procedura Legal Process Guidelines si legge qualcosa che è strettamente correlato al mondo statunitense. Purtroppo, ancora un volta, non sono riuscito a trovare un equivalente per altre regione. Ripeto, potrebbe essere la mia scarsa abilità nella ricerca ma questo genere di documenti dovrebbe essere facilmente raggiungibile da chiunque abbia un interesse a farlo. Diciamo che questo comportamento stona con l’approccio “Teniamo alla tua privacy ed alla tua sicurezza” che Apple sta cavalcando in questi ultimi mesi. Chiariamo, non che non sia vero ma è importante che l’intero ecosistema sia perfettamente allineato a questo messaggio.

Veniamo alle parti più succose.

New privacy warnings during AirTag setup: In an upcoming software update, every user setting up their AirTag for the first time will see a message that clearly states that AirTag is meant to track their own belongings, that using AirTag to track people without consent is a crime in many regions around the world, that AirTag is designed to be detected by victims, and that law enforcement can request identifying information about the owner of the AirTag.

Sono sicuro che un qualsiasi malintenzionato sarà sicuramente terrorizzato nel leggere questo messaggio nel momento in cui configurerà i suoi AirTag. Un deterrente incredibilmente efficace. Dai, è vero che è un atto dovuto ma credo che sarebbe stato necessario farlo dal momento del lancio e non ora. Questo mi lascia pensare che un certo genere di use case non fosse stato immaginato o, per lo meno, è stato sottovalutato nel momento della progettazione.

Refining unwanted tracking alert logic: Our unwanted tracking alert system uses sophisticated logic to determine how we alert users. We plan to update our unwanted tracking alert system to notify users earlier that an unknown AirTag or Find My network accessory may be traveling with them.

Questa è la cosa più sana da fare ed è un cambiamento di valore nel tentativo di evitare gli abusi.

A questo punto i due casi d’uso limite entrano in collisione tra di loro in termini di funzionalità. Entrambi sono casi d’uso non direttamente esplicitati da Apple nella loro documentazione ma, come abbiamo visto, sono casi che si sono resi evidenti nel mondo reale. Vediamo di cosa si tratta.

  • Caso 1. Un delinquente usa un AirTag per tracciare la posizione di qualcuno o di qualcosa senza che l’interessato ne sia a conoscenza.
  • Caso 2. Un utente con legittime intenzioni appiccica un AirTag a qualcosa di prezioso in modo da potere rintracciare la sua posizione in caso di furto.

Quindi se da un lato abbassare il tempo necessario perché un AirTag renda manifesta la sua esistenza protegge dal caso 1 dall’altro rende edotto il ladro che ha con se qualcosa che lo può condurre direttamente nelle patrie galere.

Mi sembra evidente che non sia possibile un comportamento che sia in grado di essere efficace per tutti gli usi, legali ed illegali che si fanno di questo prodotto di Apple.

Il suo nome era Marinella Beretta

Photo by Matthew Henry on Unsplash

Marinella Beretta aveva settanta anni e viveva in una casa a Como. Di quella casa, Marinella, aveva venduto la nuda proprietà ad un cittadino Svizzero. Nei giorni scorsi il vento forte ha reso instabili alcuni alberi del suo giardino. Hanno cercato di contattarla, senza successo.

Alla fine è stato contattato il proprietario che ha autorizza l’ingresso in casa dove Marinella è stata ritrovata senza vita.

Il medico legale ha constatato che la morte, sopravvenuta per cause naturali, risale ad almeno due anni fa.

Marinella era seduta su una sedia, senza vita.

Ci sono delle notizie che non hanno un impatto nazionale od internazionale. Notizie che spesso finiscono nella cronaca di provincia o trovano lo spazio di poche righe sul web.

Eppure io quando leggo notizie come questa sento un dolore forte. Da una parte la tristezza per un essere umano che ha perso la vita in totale solitudine e di cui nessuno si è preoccupato per più di due anni. Dall’altra la domanda che mi tormenta: ma io se la avessi conosciuta, anche di vista, mi sarei accorto di non vederla più in giro? Avrei deciso di intervenire cercando di sapere qualcosa sul suo stato di salute? Insomma, avrei fatto qualcosa?

Sono diversi giorni che questa cosa mi ronza per la testa e non riesco a darmi una risposta.

Dello stesso tenore la notizia, meno recente, della morte del fotografo francese René Robert. Si accascia al suolo in una trafficata via di Parigi per via di un malore. Non si tratta di un malore fatale. A portarlo via è il freddo della notte. Muore di ipotermia senza che nessuno si sia fermato ad aiutarlo.

Non voglio fare affermazioni populiste.

Rifletto solo pubblicamente su cosa avrei fatto io.

Guardo nel mio passato, anche recente e ricordo che in tutte le occasioni cui mi sono imbattuto sono sempre intervenuto. L’ultimo episodio risale a prima della pandemia. Sono in vacanza con degli amici e vedo una anziana persona barcollante, evidentemente ubriaco, che si accascia su dei gradini. Mi sono fermato a chiedergli come stava e se aveva bisogno di qualcosa, di aiuto.

Mi domando anche se succedesse qualcosa a me chi se ne accorgerebbe. Chi tra i miei amici si metterebbe in allarme non vedendomi e non sentendomi. Forse ora molti di loro. Ma tra venti, trenta anni?

Queste due notizie continuano a farmi sentire in grande imbarazzo.

Andare piano

Photo by Firmbee.com on Unsplash

Io sono cresciuto in un mondo informatico in cui il multitasking era un gran lusso e dove l’unica interfaccia che avevi con il computer era la tastiera a la linea di comando.

Potevi sì lanciare dei programmi in background ma, alla fine, sullo schermo del tuo terminale potevi lavorare su una applicazione alla volta.

Mi sono reso conto che tendo a trasporre questa vecchia abitudine anche sulle macchine moderne che ho a disposizione. Con 32 Gb di RAM potrei avere decine di applicazioni aperte e saltare dall’una all’altra senza soffrire di particolari problemi.

In realtà mi rendo conto del fatto che non ne ho mai più di due aperte contemporaneamente. Può essere un documento di testo insieme a Keynote. Uno spreadsheet con Obsidian.

La sostanza è che lavorando tendo ad essere monotask.

Durante le conference call così frequenti in questi ultimi due anni ogni tanto mi capita di vedere i browser delle persone che condividono lo schermo e vedo decine e decine di tab aperte. Io, sinceramente, ne ho quasi sempre solo una aperta.

Mi è capitato di leggere recentemente l’articolo di uno sviluppatore che dice di usare sempre e solo macchine più vecchie di almeno quattro anni. Lui sostiene che questo lo aiuta ad essere maggiormente focalizzato, a distrarsi meno e a scrivere codice più efficiente date le scarse risorse della macchina.

Tutto sommato, considerando quanto scritto sopra non credo che sia una considerazione del tutto sbagliata.

Certo dipende dagli strumenti che devi utilizzare per fare il tuo lavoro.

Come ho scritto negli scorsi giorni sto giocherellando con Oculus e Unity nel mio tempo libero. Per sviluppare su Unity ti devi scaricare lo Unity Editor che è fatto di 6/7 Gb solidi di roba. Sul mio MacBook Pro Intel con 32Gb di RAM non è raro che le ventole comincino a darsi da fare come se il computer dovesse decollare ogni volta che devo compilare qualcosa di complicato.

La realtà è che il mio multitasking è veramente molto inefficiente e mi distraggo molto facilmente. Per questo quando lavoro ho la naturale tendenza ad eliminare qualsiasi distrazione e a lavorare su una sola cosa alla volta.

Forse non sto sfruttando appieno la potenza che oggi ho a disposizione ma per il momento questo è ancora il metodo che mi porta i risultati maggiori.

Questa è anche la ragione per cui non sento la grande necessità di avere più di un monitor sulla mia scrivania. Lo troverei utile solo nel momento in cui sto scrivendo codice quando potrei avere il mio IDE su un monitor e la documentazione che sto consultando su un altro monitor.

In realtà quando mi trovo a dovere affrontare questa necessità mi basta aprire il display del mio notebook ed ecco che si materializza il secondo monitor.

In certe occasioni mi sento davvero un dinosauro.

Diciamo quindi che la nostra cultura e la nostra esperienza influenza la maniera con la quale interpretiamo ed utilizziamo la tecnologia a nostra disposizione. Che in fondo non è che sia questa grande rivelazione.

La capsula del tempo

Photo by Meghan Hessler on Unsplash

Mi sono trasferito sulle sponde del lago di Como quasi quattro anni fa. Dal momento del trasloco sono rimasti chiusi diversi scatoloni di cartone del cui contenuto non ho evidentemente bisogno.

Tra questi ve ne è uno con la scritta “Varie”. Una dicitura che davvero non dice nulla. Lì dentro potrebbe esserci di tutto. Potrebbe essere l’ultimo scatolone che riempi prima di terminare la fase preliminare del trasloco e che contiene tutti i rimasugli e le dimenticanza dell’ultimo minuto. Potrebbe contenere cose che non sono classificabili in grandi categorie come scarpe, cappotti, piatti o bicchieri.

E’ rimasto in bella vista per questi anni in quella che io chiamo “la cripta”. La cripta non è altro che una sorta di cantina che sta sotto casa mia. Per qualche ragione è stato deciso di collegare lo scarico della lavatrice e quindi sono costretto a scenderci ogni volta che devo fare il bucato.

Lo scatolone si trova proprio davanti all’ingresso della cripta e non posso fare a meno di notarlo ogni volta che scendo per accendere la lavatrice. Ogni singola volta mi dico che dovrei decidermi a guardare che cosa contiene e levarmelo di torno una volta per tutte.

In effetti devo confessare che la cripta è diventata il cimitero degli scatoloni. Io sono uno di quelli che conserva la scatola di qualsiasi oggetto che compra perché “se si rompe posso spedirlo nel suo imballo originale”. In cinquantaquattro anni di vita non è mai successo una volta. Si sono quindi accumulate una infinità di scatole che dovrebbero ammonirmi riguardo il fatto che sarebbe il caso di disfarsi di qualcosa e di smettere di comprare altre cose, se non strettamente necessarie.

In piena crisi domenicale, e dopo avere fatto il bucato, decido che è ora di aprirlo per vedere che cosa cavolo contiene.

Diciamo che l’operazione poteva quasi essere equiparata alla apertura di una capsula del tempo.

Ci trovo dentro un paio di libri che evidentemente stavano sul mio comodino poco prima del trasloco e che mi stavo dimenticando.

Delle penne e delle matite, insieme ad altro materiale di cancelleria sono sparse nello scatolone. Mi dico che dovevano essere il contenuto del cassetto del comodino.

C’è un vecchio taccuino su cui prendevo appunti e perdo qualche minuto a scorrere le cose che avevo scritto. Stranamente mi ricordo quando le scrissi e per quale motivo. Ora non hanno più senso. Quelle cose avrei dovuto dirle e non scriverle. Oramai è troppo tardi, inutile pensarci.

Sul fondo dello scatolone c’è il tesoro. Ci sono una decina di hard disk della più diversa fattura. Sono tutti quelli che negli anni ho acquistato e dei quali non mi sono mai disfatto. Si va da dimensioni di 128 Gb sino ad arrivare a 2 Tb. Mi dico che andare a dare una occhiata lì dento potrebbe essere una cosa divertente da fare.

Sicuramente i più vecchio contengono dati che risalgono a più di venti anni fa, a posti di lavoro che oramai ho dimenticato, forse fotografie di cui non ricordo l’esistenza.

Mi rendo conto di avere scoperto una capsula del tempo dentro una capsula del tempo.

Oltretutto era mia abitudine salvare l’intero contenuto della mia casella di posta elettronica ogni volta che mi capitava di cambiare posto di lavoro. Lì dentro dovrebbero esserci le mailbox di almeno cinque posizioni lavorative diverse.

Ora vorrei spendere del tempo a fare una esplorazione di tutto questo materiale. Immaginare di essere un archeologo e andare a vedere chi ero venti anni fa, quali documenti conservavo, cosa leggevo e cosa scrivevo.

L’unico problema sarà la ricerca dei cavi necessari per collegare questi dischi fissi al mio Mac. Ce ne sono delle più diverse fogge ed alcuni devono essere veramente preistorici.

Il prossimo fine settimana so a cosa dedicarmi.

Magia!

Photo by Sergi Viladesau on Unsplash

Quando Lorenzo era più piccolo ha cominciato ad interessarsi alla magia con le carte. La cosa mi piaceva perché nonostante la continua invasione del digitale si trattava di un passatempo fisico.

Per questa ragione lo incentivai a proseguire e nel corso del tempo ci mettevamo a competere imparando giochi nuovi da fare l’uno all’altra. Alla fine Lorenzo ha quasi completamente abbandonato il tema. Cocenti e rapide passioni di un allora dodicenne. Al contrario io ho trovato un incredibile passatempo.

La magia con le carte ha radice antiche e la storia di questa disciplina ha radici antiche. Leggerne la storia è un viaggio affascinante e coinvolgente, sopratutto se si pensa che tutto ruota ad un mazzo fatto di 52 carte.

Ho sempre con me un mazzo di carte e spesso manipolarlo mi aiuta a concentrami quando devo pensare. Mi aiuta a fare passare il tempo quando sono in una sala di attesa o al check in di un aeroporto in attesa di imbarcarmi. Con il tempo ho scoperto che la gente si interessa ai giochi di carte e mi è capitato spessissimo di ritrovarmi a fare qualche gioco con degli sconosciuti che me lo avevano chiesto.

Ogni tanto faccio degli errori ma ho i miei giochi preferiti. Sono quei giochi che raccontano una storia e questo mi piace davvero molto. Penso a giochi come Twisting the Aces di Dai Vernon, Il Vecchio Joe di Gianfranco Preverino o la versione di Juan Tamariz della Carta Ambiziosa.

Nel corso del tempo mi sono costruito una “libreria magica” che tratta di questi argomenti. Alcuni sono volumi storici che ho comperato in mercatini dell’usato. Altri sono testi più moderni. Molti di essi non trattano della magia vera e propria ma della psicologia della performance.

Ho trovato delle vere e proprie perle che sono perfettamente utilizzabili in ambito lavorativo, sopratutto quando si è chiamati ad interagire con altre persone.

Ve ne suggerisco uno su tutti: Strong Magic di Darwin Ortiz.

Il sottotitolo è: Creating Showmanship for the close-up magician.

E’ un libro del 1994 ma attuale come pochi.

Non è un libro economico ma è una lettura intrigante.

Stampante 3D

Photo by Inés Álvarez Fdez on Unsplash

Ovvero, delle cose cui non riesco a resistere.

Sono sempre stato affascinato dal tema della stampa 3D ma ne sono sempre stato lontano perché non mi sentivo grandemente confidente rispetto all’uso che avrei potuto farne.

In passato i prezzi erano particolarmente alti ed anche questo aspetto ha contribuito a rimandare nel tempo un acquisto di un oggetto del genere.

Alla fine ho ceduto alla tentazione, complice l’arrivo del Natale e la liberazione di un angolo in una delle mie scrivanie nel mio studio. Ho fatto qualche ricerca e mi sono documentato. Certamente non volevo cedere un rene per quello che sarebbe stato poco più di un esperimento e desideravo qualcosa che non richiedesse una laurea in ingegneria meccanica per potere essere reso funzionante.

Alla fine mi sono deciso a premere il pulsante ed ho ordinato una stampante Flsun Q5.

La stampante ha richiesto una decina di giorni per arrivare nel mio studio ed è da assemblare prima di poterla utilizzare. Prima che arrivasse mi sono guardato un paio di tutorial su YouTube per capire se sarei stato in grado di compiere l’opera e non fare casino. Devo dire che le istruzioni a corredo sono discretamente dettagliate e gli attrezzi che arrivano insieme alla stampante mi hanno permesso di mettere la stampante in opera in meno di mezz’ora.

Avevo in giro un paio di Raspberry Pi del tutto inutilizzati ed ho deciso di dedicarne uno alla gestione della stampante per mezzo del software Octoprint.

Data l’architettura del mio studio non mi era conveniente collegare la stampante direttamente al mio computer e quindi ho deciso di “remotizzarla” grazie al software di cui sopra. Devo dire che è stata una scelta ottima. Il software funziona che è una meraviglia. Dopo qualche settimana di uso di Octoprint mi sono anche deciso a fare una donazione allo sviluppatore. Mi ha risolto un problema e le cose fighe andrebbero sempre remunerate.

A questo punto sono entrato nel favoloso mondo dei materiali per la stampa 3D. Anche in questo universo ci sono guerre di religione ed alla fine mi sono deciso per un PLA che non costasse una cifra esorbitante e che avesse delle discrete recensioni online. A memoria non ricordo il brand ma devo dire che sino ad ora si è comportato secondo le mie aspettative, ammesso che ne avessi di sensate rispetto ad un mondo che non conosco affatto.

Così come suggerito dal produttore ho provveduto alla calibrazione dell’estrusore rispetto alla superficie di stampa. Procedura semplicissima con questa stampante.

A questo punto era arrivato il momento di verificare se le mie capacità di assemblaggio avevano reso il servizio richiesto. Ho stampato i file di test che sono resi disponibili dal produttore e ho perso l’ora successiva a vedere spostarsi l’estrusore sulla superficie di stampa. E’ una cosa decisamente ipnotica ed ha decisamente un suo fascino.

Al termine ho avuto il mio primo pezzo stampato in tre dimensioni. Una cosa del tutto priva di utilità pratica ma che serviva solo ed esclusivamente a verificare se tutto funzionava a dovere.

Da questo punto in poi la curva di apprendimento diviene un pochino più ripida.

In prima istanza scopri che hai bisogno di uno slicer per stampare i vari modelli che trovi online. Da qui segue la solita indagine online per capire quale possa essere la scelta giusta. Una stampante 3D è governata da una infinità di parametri diversi e capire che influenza questi hanno sulla qualità della stampa non è una cosa affatto banale. Ci vuole tempo e buone letture per arrivare ad avere almeno una comprensione di base ed ottenere dei risultati soddisfacenti.

Dopo qualche test mi sono oramai orientato verso l’uso di Ultimaker Cura che è ragionevolmente semplice da utilizzare e gratuito.

Forse non è il più flessibile del mondo ma non richiede di spendere trentasette giorni per leggere il manuale d’uso.

Ora posso finalmente stampare modelli scaricati dal web ma come faccio a disegnare io degli oggetti da stampare?

Qui la cosa si fa parecchio complicata ed il tema non è affatto semplice. Per il momento sto sperimentando FreeCAD ma devo confessare che la cosa non è per nulla semplice. E’ una applicazione complessa che richiede tempo e dedizione. Mi ci sono messo ma sino ad ora riesco solo a fare delle cose molto semplici.

Ok, ma alla fine a che ti serve una stampante 3D?

In sostanza la risposta è che si può tranquillamente vivere senza avere una stampante 3D. La mia natura mi fa comunque dire che è una figata e sino ad ora mi sono stampato degli oggetti che mi sono tornati utili.

Ho stampato un sostegno per la Magic Keyboard che la ha resa migliore nell’utilizzo. Ho stampato un paio di accessori per la cucina. Ho stampato un supporto per le pietre che utilizzo per affilare i miei rasoi a mano libera. Ho stampato una staffa per un cancelletto che Buzz aveva mordicchiato, e questa me la sono ricreata su FreeCad con tanto di utilizzo di un calibro per le misure. Ho stampato un support per i miei HUB USB che ora non fanno più casino sulla mia scrivania.

Ok, concordo. Niente che sia un salvavita ma certamente una esperienza interessante per chiunque coltivi i miei stessi interessi.

Ora sono molto interessato ai meccanismi che riguardano gli orologi meccanici ed ho trovato online delle cose spettacolari, come questa, ad esempio: 3D Printing The World’s Most Expensive And Complex Watch Mechanism

Semplicemente spettacolare.

La bottiglia del latte

Photo by ROBIN WORRALL on Unsplash

Bisogna fare attenzione alla bottiglia del latte quando ci ritroviamo a valutare l’efficacia e l’efficienza dello smart working. Sì perché pare che questo oggetto sia uno degli strumenti preferiti da quei lavoratori che fanno finta di lavorare quando praticano lo smart working.

Questo è quello che ha dichiarato il ministro Brunetta che detiene le redini del dicastero della Pubblica Amministrazione ai microfoni di SkyTG 24:

Vaccini e presenza piuttosto che chiusi a casa, con il telefonino sulla bottiglia del latte a fare finta di fare smart working, perché diciamocelo fare finta di lavorare da remoto, a parte le eccezioni che ci sono sempre.

Il fatto che la parola ministro sia scritta con la m minuscola non è affatto un refuso. Mi rifiuto categoricamente di chiamare Ministro, con la M maiuscola, una persona che ha la sfrontatezza e la stupidità di fare una affermazione del genere.

Che io non abbia particolare considerazione per il personaggio in oggetto è una evidenza che non ritengo di dovere nascondere ma leggere queste affermazioni da parte di un ministro, sempre con la m minuscola, della Repubblica, e questa con la R maiuscola, mi fa veramente inorridire.

E dire che stiamo parlando di un professore universitario che dovrebbe avere avuta la missione di formare i giovani del nostro paese. Poveri studenti, mi verrebbe da dire. Immagino che vi abbia sempre considerato dei fannulloni e dei bari.

La cosa più buffa è che lo smart working per la Pubblica Amministrazione è appena stato regolamentato e proprio il ministro Brunetta ha apposto la sua firma ai documenti che lo governano.

Infatti scriveva su Facebook:

Ho voluto uno smart working finalmente regolato e strutturato

Qualcosa non torna. O il ministro soffre di bipolarismo, ed in questo caso va affidato a qualcuno in grado di curarlo, oppure ha firmato quel documento obtorto collo e sotto la minaccia delle armi.

Vero è che di questi tempi la coerenza è merce rarissima ma qui si sfiora davvero la follia.

Da un ministro della Repubblica con un passato di professore universitario io mi aspetto una mente aperta a comprendere le dinamiche di un mercato che sta cambiando e che può essere reso più efficiente da un lato e più vivibile dall’altro. Una persona che ha insegnato economia dovrebbe essere in grado di cogliere i segnali deboli del cambiamento e dovrebbe riuscire ad identificare quali sono quelle spinte positive che posso avere una influenza positiva sullo sviluppo del paese.

Se non ci fosse stato uno strumento come lo smart working, con tutti limiti e le carenze che ha dimostrato, questo paese sarebbe messo molto peggio di come non sia messo oggi.

Il fenomeno andrebbe studiato, approfondito, analizzato. Si dovrebbe capire cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato. Tutto è perfettibile.

Secondo me lo smart working ha messo decisamente in crisi il middle management, quando questo è espressione di un regime di controllo invece che di un contributo attivo, di direzione e di coaching. Immagino che questo si sia reso ancora più evidente nella Pubblica Amministrazione.

Le persone che fanno finta di lavorare e si nascondo nelle pieghe delle organizzazioni sono sempre esistite e sempre esisteranno. Ridurre tutto agli effetti di uno strumento innovativo e potente come lo smart working è una operazione da dilettanti.

Caro ministro, forse è meglio che si dedichi ad altro.

Un nuovo mouse

Photo by Mika Baumeister on Unsplash

E dopo l’avventura della scelta della tastiera meccanica, ecco arrivato il momento di mandare in pensione il magic mouse di Apple e cercare un mouse che sia un pochino più efficiente.

In realtà non ne sentivo una necessità assoluta dato che sono sempre stato piuttosto soddisfatto del magic mouse, eccezion fatta per il momento nel quale dovevi ricaricarlo. In quel momento il tuo mouse assume le sembianze di una tartaruga spiaggiata che non riesce a recuperare la sua postura naturale. Mi domando chi abbia avuto la brillante idea in Apple.

La ragione per cui mi sono convinto a cercare un nuovo mouse è stato l’arrivo sulla mia seconda scrivania di una stampante 3D. Ne parlerò in un altro post. Da quel punto mi sono deciso a provare a modellare gli oggetti da stampare in autonomia e ho scoperto che non avere un terzo bottone sul mouse è una enorme rottura di scatole.

Ho fatto le mie ricerche che comunque ho quasi subito abbandonato perché anche quello è un universo fatto di religioni e relativi talebani a supporto.

Volevo solo un prodotto che:

  • Fosse un pochino più ergonomico del magic mouse.
  • Avesse un terzo bottone.
  • Fosse sufficientemente preciso. (Se avete mai provato a selezionare un puntino verde su FreeCAD per inserire dei vincoli sapete bene a cosa mi riferisco).
  • Avesse qualche funzionalità intelligente in più per aiutarmi nella vita quotidiana.

Mi sono deciso un mouse Logitech MX Master 3 per Mac. Ne avevo letto bene ed i tasti supplementari era in numero sufficiente da aiutarmi a velocizzare alcune cose e non così tanti da fare sembrare il mouse il nipote di un Transformer.

Esperienza di acquisto semplice e lineare da sito di Logitech. Ogni tanto provo ad acquistare direttamente dal sito del produttore per valutare quale sia l’esperienza utente del loro e-commerce e per non arricchire ulteriormente Amazon.

Il corriere ha suonato alla mia porta meno di ventiquattr’ore dopo il mio ordine e questo sebbene il prodotto arrivasse dall’Olanda.

Packaging semplice ma non eccezionale.

Il mouse è decisamente un ottimo mouse. Più grande e leggermente più pesante del magic mouse, ma questo era esattamente quello che cercavo. I due bottoni principali sono fisici e non virtuali ed anche questo mi piace moltissimo.

Le due rotelline di scorrimento sono semplicemente magnifiche e molto ergonomicamente posizionate sulla superficie del mouse.

L’installazione del mouse è banale dal momento che si tratta di un mouse bluetooth. Quello che vi consigli di fare è di installare il software di configurazione del mouse prima di accoppiare il mouse al personal computer. Se non lo fate il software se ne infischia e non lo vede, almeno sul mio Mac.

Il software in dotazione è discreto e permette di modificare tutti i parametri del mouse secondo i propri gusti e vi lascia la completa scelta di configurazione dei tasti che sono presenti sul mouse in numero di 7.

Io ho configurato il due tasti in prossimità del pollice con la funzione Copia e Incolla. Devo dire che questo mi aiuta a velocizzare moltissimo alcune parti del mio lavoro. La rotellina di scorrimento orizzontale è un salvavita quando mi trovo a lavorare su infiniti fogli Google Sheets. Usandola non devo muovermi con il mouse per scorrere ma semplicemente alzare il pollice.

Le funzioni collegate al tasto presente sulla superficie superiore del mouse mi permettono di cambiare schermo, applicazione e contesto senza sollevare la mano dal mouse.

Insomma, se devo essere sincero non mi aspettavo che un mouse potesse avere un impatto così positivo sulla velocità del lavoro quotidiano. In effetti quando parliamo di produttività la prima cosa da considerare dovrebbe essere l’ambiente e gli strumenti fisici che utilizziamo per interagire con le applicazioni che ci servono per svolgere il nostro lavoro. In tutta sincerità è un aspetto che avevo sempre grandemente sottovalutato.

Come sempre confermo che Logitech non mi dà una lira per scrivere tutto questo e quindi riporto solo la mia personalissima esperienza con il prodotto. Poi fate voi, che di mouse è pieno il mondo.

Apple Airtag, ancora.

Photo by Mark Chan on Unsplash

Immagino che qualcuno di voi cominci a pensare che negli ultimi mesi io sono ossessionato dagli Apple AirTags. Forse un fondo di verità c’è ma più ci penso più ci vedo dei pericoli.

Chi mi segue sa che ne ho scritto in passato: qui e qui.

Ritenevo di avere pensato in maniera esaustiva ad ogni possibile abuso che si poteva fare di questo prodotto ma mi sbagliavo, e di grosso.

Prima di parlarvi di quello di cui ho letto dobbiamo ricordare una delle caratteristiche proprie degli AirTag. Nel caso essi si trovino lontani dal legittimo proprietario oltre una determinata quantità di tempo, essi cominciano ad emettere un suono intermittente che permette loro di essere scoperti.

Questa caratteristica veniva indicata come uno dei fattori di protezione nei confronti di eventuali abusi. Se ti trovi addosso un oggetto che continua ad emettere dei beep e non è tuo, sai bene che si tratta di un abuso.

Leggevo ieri su TNW che su Ebay sono stati messi in vendita degli AirTag modificati a cui era stata eliminata la capacità di emettere un suono. In altre parole è stato collegato lo speaker dell’AirTag.

A questo punto mi sono incuriosito e mi sono domandato quanto questa operazione fosse difficile. Dal punto di vista puramente ingegneristico gli AirTag sono una vera meraviglia.

Nel caso specifico il corpo stesso dell’AirTag fa da cassa di risonanza per rendere il suono maggiormente udibile. Devo concedere che gli ingegneri di Apple sono veramente tosti.

Mi sono quindi fatto un giro su IFixIt per capire come disabilitare lo speaker dell’AirTag. Dopo una breve ricerca trovo l’articolo che descrive l’interno di un AirTag in maniera molto precisa: AirTag Teardown: Yeah, This Tracks

Ovviamente si parla anche dello speaker. Vi mostro una foto che non rappresenta lo speaker ma la connessione allo stesso:

Photo from iFixIt

Da questa foto si vedono benissimo i collegamenti che portano al coil NFC, al centro della foto, ed i collegamenti allo speaker, quei due minuscoli cavetti bianchi nella parte inferiore della foto.

A questo punto è ben evidente che rimuovere il collegamento con lo speaker è un gioco da ragazzi. Certo il teardown del prodotto non è proprio banale ed alla portata di tutti ma chiunque con un pochino di dimestichezza nel maneggiare prodotti elettronici può riuscirci.

Ed ecco quindi che tagliando due semplici cavi hai ottenuto il perfetto strumento di sorveglianza.

In realtà la modifica effettuata dal venditore di EBay aveva un razionale più che ragionevole:

“The intent of this modification was to cater to the several requests of buyers interested in my other AirTag product who were interested in fitting an AirTag to their bikes, pets, and power tools.”

The idea appears to have been making AirTags better for tracking stolen items. Although Apple doesn’t intend for AirTags for this purpose — they’re purely meant to track lost items — it’s not surprising many have used them to retrieve items from thieves. So if you just want to keep an AirTag on your bike, it’s understandably annoying to have it beep when you leave its vicinity.

Come quasi sempre accade, qualcuno può fare un uso non inteso di qualsiasi cosa. In questo caso la fantasia, purtroppo, non ha limiti.

Oculus Quest 2

Photo by Remy Gieling on Unsplash

Dal momento che non riesco a stare tranquillo e devo sempre trovare qualcosa che mi permette di pigiare i tasti del mio computer ho deciso di fare un investimento e comprarmi un Oculus Quest 2.

In primo luogo voglio esplorare in prima persona questa cosa dei metaversi. Che poi non è che sia una cosa nuovissimi. Qualche secolo fa sono stato uno dei primi utenti di Second Life e già allora questa parola si affacciava sul vocabolario. Fu una esperienza interessante e ci feci anche qualche soldino vero quando la terra su Second Life scarseggiava. Non ebbe grande successo. Credo che il mio account sia ancora lì a prendere la polvere. In tutta sincerità non credo di avere mai salvato le credenziali da nessuna parte.

In secondo luogo per me basta che ci sia dell’hardware a disposizione, delle SDK e del codice da scrivere ed io non riesco a resistere alla tentazione.

Tecnicamente parlando ci sono diverse opzioni con le quali sviluppare su Oculus Quest. Le due più fighe penso siano Unity e Unreal. Non ho ancora deciso su quale delle due orientarmi. Per il momento ho dedicato una ventina di Gb del mio disco fisso ad entrambi e sto provando a prendere un pochino di confidenza con le due diverse piattaforme. La curva di apprendimento è decisamente piuttosto impegnativa ma vediamo cosa ne verrà fuori.

Confesso che prima dell’arrivo dell’oggetto ero piuttosto scettico. Sono stato un utente della prima ora di Playstation VR e mi aveva lasciato decisamente perplesso. Una esperienza utente che lasciava molto a desiderare e poi quell’intrico di cavi e scatolette che richiedeva una laurea in ingegneria meccanica per essere assemblato.

Devo confessare che Oculus Quest è un’altra storia. L’esperienza utente è decisamente be costruita e tutto risulta essere molto più immersivo di quanto non fosse PlayStation VR.

Per il momento sto esplorando le possibilità e sto giocando con qualche applicazione. Oltretutto Meta ha appena rilasciato le Interaction SDK che dalla documentazione sono proprio una bella cosa con cui giocare.

Il lato negativo è che per fare funzionare la baracca devo collegarmi di nuovo a Facebook. Ho deciso di segregarlo in Chrome per il momento. No, non ci ritorno.

Adesso devo solo trovare lo spazio nel tempo dove infilare questo nuovo giocattolo.

Tra qualche settimana penso di scrivere qualcosa di più dettagliato riguardo i miei esperimenti. Almeno spero che sia così.

La moto in garage

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Photo by Ian Taylor on Unsplash

In questo ultimo anno la mia motocicletta se ne è stata in garage a prendere la polvere.

Da una lato questa perdurante pandemia che non ha permesso grandi spostamenti e grandi viaggi e dall’altro l’arrivo di Buzz che essendo un cucciolo aveva bisogno di cure durante il periodo primaverile ed estivo.

Per me che ho i capelli bianchi la primavera e l’estate sono gli unici momenti in cui utilizzo la motocicletta perché dopo fa troppo freddo. Ho sempre sofferto il freddo, anche quando vedevo i film in bianco e nero.

E quindi la motocicletta se ne sta, tranquilla, nel suo parcheggio.

Ho provato a coccolarla un pochino. Ho mantenuto lo stato della batteria ad un livello di carica ottimale con un mantenitore di carica. Le ho levato la polvere che di tanto in tanto si accumula. La ho accarezzata promettendole viaggi incredibili.

Il fatto è che ogni volta che salgo in macchina la vedo, e mi piange il cuore.

A me quella moto piace davvero un sacco. Da sempre è la moto che desideravo. Proprio quella, con quel blu elettrico e le gomme bianche e nero. E’ l’archetipo della moto. Lei lo sa, e se ne approfitta.

“Ma come fai a salire su quel catorcio a quattro ruote quando potresti sfrecciare con me sulle strade del lago?”

E’ evidente che è gelosa e si sente trascurata.

Provo a dirle che comunque con lo stato delle mie orecchie in questo momento non sarebbe proprio una bella idea esporsi all’aria.

Lei mi risponde, piccata, che ho sempre una scusa pronta per trascurarla e lasciarla invecchiare sprecando i suoi anni migliori.

Salgo in macchina e dopo avere fatto retromarcia per uscire dal parcheggio vedo il suo muso. I suoi fari sono come degli occhioni che mi guardano con rimprovero.

Mi sento decisamente in colpa ad averla acquistata per lasciarla in garage. Come si dice in questi casi? Non è colpa tua, è colpa mia.

Mentre scuoto la testa ed ingrano la marcia mi dico che questa primavera il discorso cambierà. Oramai Buzz è grande e può rimanere qualche ora da solo. Con il disgelo che sta per arrivare le mie orecchie recupereranno la loro completa funzionalità. La pandemia renderà sempre meno nefasti i suoi effetti e finalmente scomparirà sino a rimanere solo un brutto ricordo.

Provo a spiegarlo alla motocicletta ma lei risponde che sono le solite promesse che oramai sente da mesi senza che nessuna di esse si trasformi mai in un gesto compiuto.

Forse me la sto raccontando anche io.

Eppure mi dispiace. Mi dispiace vederla ferma e non utilizzata quando la sua natura sarebbe il movimento, la velocità ed il vento. Mi sento egoista ad avere deciso di acquistarla per poi lasciarla in garage a prendere la polvere.

Era il primo giorno dell’inizio della pandemia. Dal giorno successivo alla firma del contratto siamo tutti stati chiusi in casa per mesi.

Ottimo tempismo, Alessandro. Come sempre ci sai fare.

Già da allora lei aveva capito che non sarei stato un compagno all’altezza delle sue aspettative.