Manutenzione

Tanto tempo fa mi piacque molto leggere Lo Zen e l’Arte della Manutenzione della Motocicletta di Robert M. Pirsig.

Certo è che quando questo libro è stato scritto la complessità della motocicletta era decisamente molto inferiore a quella che possiamo trovare nelle motociclette dei nostri giorni.

Lo stesso discorso vale, ovviamente anche per le macchine. Quando mi capita di andare in una officina Mercedes per il tagliandi della mia auto mi sembra di entrare in una sala operatoria. Tutti in camice e con una serie di strumenti elettronici da fare impressione.

Oggi le motociclette hanno una grandissima componente elettronica che le governa e che interagisce con la meccanica della moto. Tanto per fare un esempio la mia moto non ha un cavo dell’acceleratore ma la manopola del gas funziona con il principio “throttle by wire”. L’acceleratore non chiacchiera direttamente con il carburatore ma con la centralina che governa il funzionamento del motore.

Nonostante questo da quando sono in possesso della moto mi sono divertito ad apportare qualche modifica. Ho cambiato la batteria con una batteria al litio, ho installato un caricabatterie e cradle per il mio iPhone, ho cambiato le manopole del manubrio, ho cambiato il contagiri con un altro modello.

Nonostante provenga da una famiglia che di meccanica dovrebbe saperne parecchio dato che nell’albero genealogico c’è una quantità impressionante di ingegneri meccanici, io di meccanica non ne so nulla.

Ho voluto comunque provare a prendere il cacciavite in mano e provare a fare da solo quei modestissimi interventi.

E’ stato davvero un enorme piacere. La prima cosa che mi ha colpito è la complessità del sistema motocicletta. Esiste una infinità di parti che la compongono ed ognuna di essere deve essere smontata e rimontata in un ordine preciso. Questa cosa mi affascina. E’ un puzzle da scomporre e ricomporre con criterio. Richiede attenzione e concentrazione.

Mi colpisce anche la quantità di utensili che si deve avere a disposizione. Non so se sia un tratto peculiare di Harley Davidson ma ci sono una infinità di viti e bulloni di forme e dimensioni diverse ed ognuno di essi richiede l’utensile giusto per essere maneggiato. Se non li hai è meglio evitare. Rischi solo di rovinare qualcosa.

E poi ci si sporca le mani, ed i vestiti. La sensazione di fisicità che si prova durante queste operazioni è impagabile. Fino ad ora mi è piaciuto spendere quel tempo nel garage di casa mia. In quel posto non c’è campo per il cellulare e sono completamente isolato dal mondo.

Io e la mia moto. C’è qualcosa di bello in tutto questo.

Ovviamente non mi sono spinto ad interventi più profondi. Non ne sarei davvero in grado ma sino ad ora mi sono davvero divertito un sacco.

In un certo qual modo dopo avere smontato e rimontato alcuni pezzi della mia moto e avere compreso come alcuni parti di essere lavorano era loro in armonia la sento più mia.

180

E con questo poso sono centottanta post consecutivi da quando ho ripreso questo esperimento esattamente sei mesi fa.

Un piccolo record. Oramai scrivere qui sopra è diventata una abitudine giornaliera che infilo in quegli spazi residui tra una cosa e l’altra.

Non ho idea se vi sia piaciuto o meno sino ad ora ma, come ho detto in passato, queste pagine servono più a me che a voi.

Adesso vediamo di arrivare ai trecentosessantasei post di quest’anno bisestile.

Minimalismo

Quando mi sono trovato a dovermi trasferire in questa nuova casa ho deciso di renderla del tutto adatta a me. Il momento era particolarmente propizio dato che era il culmine di un percorso di crescita personale.

Minimale e funzionale sono i due aggettivi che mi hanno guidato in questa scelta.

Come ho già scritto in passato oramai cerco di rifuggire qualsiasi complessità che non sia assolutamente necessaria e cerco in ogni modo di rifuggere dal superfluo.

La mia nuova casa è quindi costruita intorno a me. Con qualche compromesso, ovviamente. In primo luogo la casa era già arredata sebbene con il minimo essenziale. E’ stato un ottimo punto di partenza sebbene alcune scelte proprio non mi appartenevano. La sistemazioni di questi aspetti sono dei progetti futuri.

Ho quindi costruito tutto in modo che fosse essenziale e funzionale. Tutta la casa è completamente automatizzata ma tutti i componenti sono nascosti alla vista ed il sistema è perfettamente invisibile. Nel caso specifico ho scelto la voce come strumento principale di interazione con il sistema. Niente tablet da raggiungere quando devi attivare qualcosa ma oggetti voice enabled in ogni stanza della casa.

Per quanto riguarda gli oggetti che la compongono ne ho scelti pochissimi. A me piace avere spazio libero intorno a me. Non sovraffollare lo spazio con cose inutili. Linee semplici e pulite. Questo non toglie che quei pochi oggetti che ci sono, siano questi accessori o mobili devono essere di pregevole fattura ed usabili per la funzione per cui sono nati. Devono possedere una loro eleganza e devono essere tra il meglio della loro categoria.

Per questo ho scelto con grande attenzione ogni singolo componente. Pochi in verità perché lo spazio vuoto deve regnare sovrano.

Unica eccezioni è la cucina che richiede una certa complessità nell’insieme di oggetti che la compongono. Coltelli, taglieri, pinze, stoviglie, bicchieri, pentole, casseruole e ogni genere di accessorio necessario per le più diverse preparazioni. Cucinare mi piace e si deve cucinare bene con le cose giuste.

Esiste il rischio di cadere nella misoginia ma è abbastanza chiaro che a cinquantatré anni sei misogino di natura.

Girando per casa mia risulta abbastanza chiaro a chiunque quali siano le mia passioni. La cucina, la musica, la lettura, la magia, la rasatura tradizionale, un certo tipo di vestiti. Quando rientro a casa da una giornata di lavoro mi piace essere circondato dalle cose che mi ricordano quelle passioni e mi piace indulgere in una di queste in ogni momento che posso.

Alla resa dei conti il contenitore richiedere ancora dei lavori piuttosto importanti che farò nei prossimi anni ma l’impianto c’è ed è esattamente quello che volevo.

E’ un isola che mi protegge dal mondo esterno e che mi accoglie senza fare domande od esprimere giudizi.

Qualsiasi paradiso…

… dopo sei mesi diventa un inferno.

Per quanto tu possa spendere le tue energie per fare funzionare qualcosa in un gruppo di persone è naturale il fatto che qualcuno non sarà contento.

Questo è vero sopratutto quando una struttura diventa tanto grande da contenere un elevato numero di persone.

Quello che è necessario fare è stroncare sul nascere qualsiasi commento che non sia esplicitato in maniera costruttiva.

Con l’età sono sempre più disturbato dal mormorio e dal malcontento che non vengono resi espliciti.

Parole, ancora…

A quanto pare Giulio Gallera ha, per l’ennesima volta, proferito parola senza valutare il peso delle proprie affermazioni e senza avere rispetto alcuno per la scelta delle parole.

Ancora una volta. Le parole sono importanti e non andrebbero scelte a caso, sopratutto se sei un personaggio pubblico con responsabilità cruciali per la tua regione.

Il buon Gallera ha quindi affermato che:

Gli ospedali privati vanno ringraziati perché hanno aperto le loro terapie intensive e le loro stanze lussuose ai pazienti ordinari

Giulio Gallera

Ci sono due aggettivi che mi urtano i nervi.

Il primo è “lussuose”. Ora, è ben evidente che ci ne ha la possibilità possa decidere di farsi curare in strutture private e “lussuose”. Detto questo non mi piace l’accostamento implicito tra “lussuoso” e “migliore”. Il lusso non è, di per sé, indice di qualità.

Il secondo è “ordinari”. Questa è una pura follia. Non aggiunge nulla al contenuto della frase ed, al contrario, compie un distinguo di classe tra coloro che possono permettersi cure private e coloro che non ne hanno la possibilità. Detto da un funzionario pubblico che ha la responsabilità di consegnare ai pazienti “ordinari” una sanità efficace ed efficiente mi sembra assolutamente fuori luogo.

Se si fosse limitato a dire:

Gli ospedali privati vanno ringraziati perché hanno aperto le loro terapie intensive e le loro stanze ai pazienti.

non avrebbe forse ottenuto lo stesso effetto? Avrebbe ringraziato le strutture private e avrebbe evitato di fare la figura dell’imbecille.

L’uso di quei due aggettivi è inopportuno ed è indice chiarissimo del fatto che Giulio Gallera, nel suo retrocranio, che qui si manifesta in tutta la sua evidenza, ritiene le strutture private migliori di quelle pubbliche.

Io rimango sempre dell’idea che un politico, quale che sia la maglia che indossa, dovrebbe essere guidato, prima di tutto, dal criterio della opportunità. Nel momento in cui si trova davanti ad un microfono il suo cervello dovrebbe essere abituato a guardare avanti per almeno tre quattro frasi in modo da evitare di dire scemenze e trovare il miglior modo di esprimere un concetto senza cadere in errori marchiani.

Qualsiasi parole manda un messaggio e questi deve sempre essere quello giusto. Se non ne sei capace forse è meglio se ti dedichi ad altro che ti sia più affine e maneggevole.

La necessità delle API

Da sempre Sketchin non ha mai utilizzato sistemi che dovessero risiedere presso i nostri uffici. Tutti i nostri sistemi sono ospitati in cloud e facciamo grande uso di servizi cloud per la gestione dell’azienda.

Google Cloud Platform, Xero, Harvest, Expensify, Salesforce e Qlik tanto per citarne alcuni.

I criteri di selezione di queste piattaforme sono essenzialmente l’usabilità del sistema, l’aderenza ai nostri requisiti che spesso sono decisamente peculiari e, assolutamente fondamentale, la presenza di API con le quali sia possibile interloquire con i sistemi senza la necessità di un essere umano.

La presenza delle API è davvero un requisito fondamentale. Molti sistemi tra quelli che ho elencato si sovrappongono in alcune funzione e per noi è necessario avere a disposizione un metodo che ci permetta di tenere allineati tra loro i sistemi.

Il nostro processo di sviluppo della architettura dei sistemi di Sketchin non è ancora completo ma la strada è tracciata. I processi sono stati tutti mappati ed i vari sistemi cominciano a chiacchierare tra loro in maniera efficace.

Ad alto livello possiamo dire che in ogni sistema abbiamo identificato quali dati autoritativi esso possiede. Ad esempio Salesforce contiene l’elenco delle opportunità ed è il luogo in cui vive l’informazione master per essere poi distribuita ai vari sistemi slave. (Ho letto che la classificazione Master/Slave sta subendo diverse critiche in queste settimane per via della sfumatura decisamente razzista. Sinceramente non mi viene in mente nessuna altra sana classificazione per cui per il momento tengo questa).

La nostra idea è che da qualsiasi punto di contatto con i nostri dati una persona sia in grado di avere visibilità completa dello stato di quel dato. Questa è per esempio la ragione per cui il reporting dell’effort speso su un progetto viene propagato su Salesforce. Osservando una opportunità su Salesforce la persona avrà la possibilità di verificare lo stato del progetto comparando l’effort pianificato rispetto a quello effettivo.

A margine di tutto questo c’è un sistema di Business Intelligence, Qlik, che ci permette di fare qualsiasi tipo di analisi ci possa mai venire in mente nel mare magnum di informazioni che abbiamo a disposizione.

La colla che terrà insieme tutta la baracca è stata identificata in Apache Airflow. Questo oggetto è fantastico e ci permette di creare dei workflow anche estremamente complessi di estrazione, modifica e caricamento dei dati sui vari sistemi. E’ un oggetto relativamente complesso ma estremamente robusto e potente.

Il razionale che ci guida è questo: permettere alle persone di focalizzarsi sulla loro attività principale, ovvero quella che consegna valore a Sketchin od ai suoi clienti, evitando di spendere più tempo del dovuto nell’inserire dati sui vari sistemi.

Se vogliamo questo razione è una declinazione del principio chiave che ci ha sempre guidato: costruire il migliore posto in cui potere praticare la propria disciplina, quale questa sia.

In giardino

Sono seduto nel mio giardino e ascolto i rumori che provengono dal lago a pochi metri da casa.

Ho un paio di documenti aperti e che devo finalizzare prima di un incontro virtuale che avrò domani per presentare uno strumento nuovo sul quale abbiamo lavorato nei mesi scorsi.

Oggi sarebbe stata una giornata perfetta da spendere in motocicletta ed invece mi sono ritrovato e sistemare un pochino di codice che avevo scritto qualche tempo fa e sul quale ho dovuto spendere più tempo del necessario per ricordarmi perché diavolo lo avevo scritto in quel modo.

Da sempre commento poco o nulla il mio codice e ammetto che è certamente un grave errore.

Sento le onde del lago che si infrangono e vedo il solito falco che volteggia in cielo. Lavorare da casa è una meraviglia ma, talvolta, riuscire a metterci la giusta concentrazione è piuttosto difficile.

La concentrazione svanisce anche quando ti fermi a pensare a che cosa stia diventando la tua azienda in un momento complesso come questo. Se da un lato abbiamo l’evidenza dei numeri, dei report e delle varie cerimonie dall’altro mi domando come stanno tutte le persone. Si sentono ancora parte di qualcosa di bello? Sono mai state parte di qualcosa di bello?

Non ho la risposta a queste domande e la cosa, un pochino, mi infastidisce.

Guardo il mio orto che ho appena innaffiato. Mi è piaciuto sporcarmi le mani per metterlo insieme con Beatrice. Pochi metri quadrati ma che hanno il sapore del tangibile.

Ecco, forse questo è il tratto peculiare di questo periodo. Avere la sensazione di fare cose poco tangibili. Un conto è essere su un progetto e vederlo crescere giorno dopo giorno, un altro è fare il general manager e prendere decisioni che nel breve periodo non ti danno alcuna occasione di essere verificare nei risultati.

In qualche momento vorrei che questa diventasse la nuova normalità perché sono stato in grado di recuperare spazi prima del tutto impossibili. Mi rendo conto di quanto mi faccia bene non dovermi più spostare continuamente da un posto all’altro.

In altri momenti vorrei incontrare di nuovo il sorriso dei colleghi e sì, dai, anche di qualche cliente.

Come tutte le cose in fondo non è altro che un sottile gioco di equilibrio. E, fortunatamente per la mia natura, si tratta sempre di un equilibrio instabile.

La prima passeggera

Per la prima volta, quest’oggi, una bellissima ragazza si è seduta sul sedile del passeggero della mia moto. Inutile dirvi che è uno schianto questa ragazza.

Oramai la conosco da quasi dodici anni e ogni giorno riesce a stupirmi ed a farmi sorridere come nessun altro al mondo.

Incredibilmente era la sua prima volta su una motocicletta e non ha nascosto quel poco di ansia che stava provando mentre indossava il casco e saliva a bordo.

Guidando la ho sentita un pochino tesa nelle prima tre curve e poi ho percepito i suoi muscoli rilassarsi e godersi il breve tragitto. E’ stato un battesimo che è durato una trentina di minuti ma è stato semplicemente meraviglioso.

Quando siamo rientrati a casa la ragazza era molto felice di avere vissuto una esperienza come questa.

Sarà un piacere portarla a spasso quando ne capiterà l’occasione.

Inutile dire che la ragazza è Beatrice, mia figlia.

Anche io avrei voluto che a dodici anni mio padre mi portasse in moto. Purtroppo mio padre non ha mai posseduto una moto se non una lambretta ricevuta in regalo da Enzo Ferrari in occasione della sua laurea in ingegneria.

Io, al contrario, non vedevo l’ora di farle provare l’emozione delle due ruote e farla innamorare di uno stile di vita.

E’ stato molto bello.

Idee

Come ogni Domenica arrivo in edicola e compro l’edizione de Il Sole 24 Ore.

Arrivo a casa e, complice uno splendido sole ed una fantastica arietta, mi metto in giardino a leggere. Numero interessante. Ci sono diverse cose che mi colpiscono.

La prima è una frase di Giulio Giorello, filosofo:

Il grande principio e l’assoluta ed essenziale importanza dello sviluppo umano nella sua più ricca diversità… per l’uomo e per la società, di una larga varietà di caratteri e di una completa libertà della natura umana di espandersi in direzioni innumerevoli e contrastanti.

Saggio sui limiti dell’attività dello stato – Giulio Giorello

Passo ad Internazionale e, come se i due pensieri si fossero incontrati leggo questo passo di John Petts, artista:

Un’idea non esiste fino a quando non la metti in pratica. Il pensiero non ha nessun significato se non è seguito da una azione concreta.

John Petts – Artista

In particolare queste ultime parole mi riportano alla mente una fantastica presentazione di Ron Finley che potrete trovare qui.

In particolare questo passaggio:

So basically, if you want to meet with me, if you want to meet, don’t call me if you want to sit around in cushy chairs and have meetings where you talk about doing some shit. If you want to meet with me, come to the garden with your shovel so we can plant some shit. 

Ron Finley – TED Talk

Questi tre passaggi sono il centro delle mie convinzioni odierne e la base su cui regolo la mia attività personale e professionale.

Perché il tutto sia completo ne manca una, fondamentale: le idee devono circolare il più possibile. Non dobbiamo esserne gelosi. Questo proprio per rispettare quanto scrive John Petts. Magari non sarò io a portare a realizzare il contenuto di un’idea ma, se la faccio circolare, è possibile che qualcun altro la sposi e la faccia diventare una realtà.

Misteri di LinkedIn

E’ un dato di fatto che su LinkedIn ricevo una grandissima quantità di richieste.

Siccome immagino che molte delle persone che mi scrivono abbiano dedicato del tempo per farlo cerco di leggere ogni messaggio che ricevo. Non sono velocissimo nel farlo perché ho disabilitato le notifiche della applicazione e l’invio delle e-mail di notifica. Sono troppe per potere essere gestite in maniera efficace e comunque ho disabilitato tutte le notifiche sul mio telefono e quindi LinkedIn non fa alcuna differenza.

Diciamo che le prima richieste che finiscono nel cestino sono quelle che provengono da escort ed accompagnatrici. Non è proprio il mio genere. Mi limito a non rispondere alle offerte di servizio che ricevo da queste persone. In alcuni casi, quando ho un quarto d’ora da spendere divertendomi, mi trasformo nel peggior troll possibile e reggo la sceneggiatura senza però indulgere in sconcerie, ché alla mia età non mi si addicono.

Ci sono poi quei messaggi che contengono candidature più o meno spontanee. In questo caso non desidero offrire nessuna via privilegiata e quindi grazie al magico uso di Text Expander ci metto tre secondi ad evadere ognuna di esse. Il potenziale candidato viene instradato verso i canali istituzionali di Sketchin. La varietà delle candidature meriterebbe un discorso a parte. Ci sono candidature che inviano fotografie senza veli e su queste soprassederei. Ci sono candidature che mi chiedono di vederci per un pranzo per discutere della posizione. Anche queste ultime subiscono la sorte di cui sopra. Subito indirizzate verso i canali istituzionali. Anni fa mi colpì una richiesta di questo tipo: “mi farebbe piacere vederla per un pranzo in modo da approfondire la candidatura, ma solo per un pranzo!”. Non ho idea di che cosa la persona stessa pensando di me durante la scrittura di quella frase. Evidentemente devo sembrare un satiro assatanato sul mio profilo LinkedIn. Lasciai perdere dicendo che se fossi dovuto andare a pranzo con ogni candidato che me ne faceva richiesta avrei dovuto sottopormi ad un trapianto di fegato dopo pochi mesi dalla pubblicazione della posizione.

Ci sono le richieste che provengono dagli Head Hunter. Questa è una categoria molto particolare. La sciatteria media è elevatissima. Chi sbaglia il mio cognome e mi apostrofa con un “Dottor Galletto” e chi mi conosce sa benissimo che questa cosa mi manda fuori di testa. L’apice è stato raggiunto da un personaggio che ha tentato di correggersi per ben tre volte non riuscendoci e peggiorando la situazione dopo ogni tentativo. Chi non si è nemmeno preso la briga di dare una occhiata al mio curriculum sullo stesso sito ma che comunque ha realizzato che sono uno scrum master e product owner certificato e che mi offre una posizione da junior scrum master.

Arriviamo poi agli invii massivi di proposte commerciali più o meno allettanti ma chiaramente una forma di scam. Direttamente nel cestino.

Ricevo offerte di servizi di design “because it is self evident your company need great design for its website”. Mah… qualche volta mi viene da dubitare ma in linea di massima qualcosa di design sappiamo fare.

Spesso mi vengono proposti servizi del tutto distanti da quello di cui mi occupo. Ad esempio la produzione di circuiti stampati a basso costo. Questo appartiene al genere “sparare nel mucchio”.

Infine ci sono quelli con delle proposte tutto sommato sensate alle quali mi prendo il tempo di rispondere. In alcuni casi sono offerte che nello specifico momento non mi interessano. Altre che non sono adatte al contesto ed al mercato in cui ci troviamo. Altre sono poco interessanti in senso lato. Ad ogni modo mi prendo il tempo di rispondere in maniera molto educata e circostanziata. Questo sopratutto quando riconosco che dietro al messaggio che mi è stato inviato c’è stato del lavoro ed un minimo di intelligence.

Quello che mi infastidisce, e non poco, è che una altissima percentuale di queste risposte non riceve poi alcun cenno da parte di chi la ha inviata. Io lo trovo un comportamento molto maleducato ed assolutamente fuori luogo. Diretta conseguenza di questo è che il malcapitato finisce nella mia lista nera insieme alla azienda per la quale lavora.

Velocità

Ci sono giornate, come quella di oggi, in cui riesci a mettere insieme una quantità di cose complesse senza nessuno sforzo.

Una chiacchiera con le API di Salesforce, un paio di modifiche a delle funzioni di uno spreadsheet, l’analisi di alcuni documenti di brief e cose di questo tenore.

Incredibilmente tutto sembra funzionare al primo colpo ed il programma che ti eri fatto per la giornata si conclude con tutti i punti in agenda smarcati.

Accade raramente, ma quando accade è una gran soddisfazione.

Esattamente il contrario rispetto a quanto accade con “la giornata di merda”. Quest’ultima richiede, però, una trattazione a parte.

Al bar

Complice il fatto di avere la moto pronta in garage ho preso l’abitudine di inforcarla per andare a fare colazione fuori di casa ogni mattina.

Da questo punto di vista sono decisamente un abitudinario e uso sempre lo stesso bar per questo appuntamento quotidiano. Mi piace l’idea che si crei una sorta di relazione tra le persone che lo gestiscono e che ci lavorano e me che lo frequento.

Dopo qualche mese ci riconosciamo e oramai vengo accolto con il più grande dei classici: “Il solito?”.

Dal punto di vista dell’esperienza questa cosa mi fa piacere.

Allo stesso tempo ho preso l’abitudine di lasciare sempre una mancia, qualche volta anche sostanziosa. Ho pensato che abbiano attraversato un periodo complesso e che quindi una mancia possa fare piacere.

Penso anche che un servizio che merita debba sempre essere premiato al di là del puro costo dello stesso.

L’effetto collaterale è che mi fanno sempre provare qualcosa di nuovo che hanno preparato, spesso oltre la mia normale consumazione.

Anche questa è esperienza utente. Di quelle che funzionano.

E l’orto è pronto

Alla fine questo mini progetto domestico ha preso vita. Complice il fatto che ho con me i miei figli ci siamo messi al lavoro e abbiamo costruito quello che avevamo in mente.

La prima cosa da notare è che anche preparare un fazzoletto di terra per metterci delle piantine aromatiche è una fatica non trascurabile. Dissoda la terra, rimuove tutta l’erba e le erbacce, livella, sistema di qua, sposta di là. Il mio rispetto per coloro che si occupano di agricoltura non è mai stato così alto.

La seconda cosa da considerare è l’idea che mi ero fatto rispetto al risultato finale. La mia idea originale era una cosa tutta geometricamente ordinata e ben disposta. La realtà delle cose è che questo orto non è poi così ordinato come lo avrei desiderato. Direi che è avvenuto quello che avviene in qualsiasi progetto. Il risultato finale è spesso molto diverso da quello che avevi immaginato.

Applicheremo all’orto lo stesso principio che applichiamo in Sketchin ai nostri progetti di design. Si tratterà di un oggetto in continua evoluzione, iterazione dopo iterazione.

Per il momento il layout offre: prezzemolo, basilico, origano, menta, rosmarino, insalata, aglio, finocchietto e fragole.

Devo dire che sporcarsi le mani con un progetto nel mondo fisico è frutto di grande soddisfazione.

Ora dovremmo dedicarci un pochino al “Visual Design” che lascia un pochino a desiderare.

Equilibrio

Come ho avuto modo di scrivere in passato questi mesi di lockdown non hanno avuto un grandissimo impatto sulla operatività dello studio. Il metodo nasce proprio con l’idea di condurre progetti di design in modalità quasi totalmente remota e la presenza dal cliente è più frutto delle sue fisime, compresa la mania del controllo, che non dalla reale necessità.

Per questa ragione non ci siamo trovati spiazzati durante il nuovo regime.

Ovviamente questo non è stato vero per molte altre realtà che sono maggiormente ancorati a modelli non proprio recenti. Ovviamente tralasciamo in questa discussione tutte quelle realtà che producono beni fisici e servizi per i quali la presenza fisica è una necessità e non una scelta.

Passiamo oltre alla definizione di lavoro da remoto perché. dal mio punto di vista, è relativamente semplice.

Per come è organizzata Sketchin oggi ci sono un insieme di Value Creations Team che rappresentano tutti quei soggetti che sono in grado di consegnare valore al cliente sia questo design, sviluppo front end, agile coaching e qualsiasi altro servizio che appartiene al dominio della nostra offerta di servizi.

Il Value Creation Team è un insieme eterogeneo di skill che sono pertinenti all’area di competenza. Se si tratta di design avremo, ad esempio, un VCT composto da Service Designer, Researcher, Interaction Designer e Visual Designer con un innesto ulteriore di Design Director e Strategy Director.

Il VCT per la natura dei suoi servizi può ovviamente vivere demoralizzato ed in queste settimane abbiamo effettivamente validato il fatto che può farlo anche nella conduzione di workshop con il cliente. L’unico punto che rimane più compresso da affrontare è la ricerca con gli utenti ma lasciamo questo argomento per un altro post.

Questo tipo di organizzazione funziona solo ed esclusivamente grazie ad un patto sociale.

Io, azienda, cerco di creare il migliore ambiente possibile affinché tu possa praticare la disciplina del design che ti compete.

Tu, professionista, ti impegni ad erogare il massimo valore possibile negli spazi che sono stati concordati con il cliente finale.

Questo è un equilibrio molto delicato da mantenere e si basa sulla trasparenza della organizzazione da un lato e sulla presenza di professionisti di talento e dotati di senso di appartenenza dall’altro.

Se questo delicato equilibrio viene meno il primo effetto misurabile è la diminuzione del valore che il VCT è in grado di consegnare al cliente finale. Tipicamente la qualità si abbassa.

In tutta questa organizzazione non si può prescindere dal talento e dalla motivazione. Non è un sistema di lavoro che può permettersi di avere a bordo persone mediocri così come non può permettersi persone che rompano il patto sociale.

Come tutti i sistemi in qualche modo agili la mediocrità non è tollerata.

La nostra fortuna è che siamo ancora una realtà tutto sommato piccola e la quantità di talenti a disposizione sul mercato è ancora superiore alla domanda.

Questo non toglie che prima delle capacità professionali delle persone è necessario un incastro perfetto in termini culturali, pena il fallimento.

Rientro in studio

Oggi per la prima volta dopo più di tre mesi sono rientrato nello studio di Sketchin in Svizzera.

Tutto molto strano.

Alzarsi e prepararsi per muoversi verso la Svizzera. La ricerca dello zaino che dopo tre mesi non avevo nessuna idea di dove fosse finito. La verifica del suo contenuto che in questi mesi è stato sparso per tutta casa. Una sensazione strana. Un insieme di gesti che sino a ieri erano una abitudine e che venivano eseguiti con pura memoria muscolare.

Non è più così, almeno per il momento. Devi pensare e rimettere tutto in fila.

Arrivo in dogana ed anche questa è una sensazione strana. Il paesaggio sembra nuovo e la guida non è sciolta come lo è stata in passato. E’ come scoprire luoghi nuovi durante un viaggio. Non immaginavo certamente che soli tre mesi potessero avere questo effetto.

Arrivo in studio e parcheggio. La manovra stessa suona come nuova e un pochino impacciata. Non sono più abituato alle misure ed agli spazi del nostro parcheggio.

Prendo l’acensore e salgo in studio. Spalanco la porta ed entro. In studio ci sono due persone. Un’altra sensazione stranissima. Generalmente quando arrivavo in studio, questo era pieno e mi prendevo il tempo di fare il giro per salutare tutti e scambiare due parole.

Oggi regna il silenzio e non ho mai visto il nostro studio così ordinato come lo è oggi.

La sensazione che si prova è quasi di estraneità. Tutto è algido e freddo, come se non avesse vita. E’ come un fermo immagine alla fine di una settimana di lavoro dove tutto si ferma e viene pulito per riprendere vita il giorno successivo.

In un certo qual modo è estraniante.

Questo è però il modo per ricominciare e cercare di costruire un nuovo equilibrio che funzioni per tutti. Dopo queste poche righe veloci è arrivato il momento di rimettersi al lavoro.